18 – L’amica perduta - la Repubblica

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18 – L’amica perduta

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E’ il diciottesimo dei racconti milanesi under 30 di Area Zeta, selezionato tra quelli inviati dai lettori. Per partecipare, mandare i testi ad areazeta@repubblica.it: massimo seimila battute

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Una melodia dolce risuona nelle mie orecchie; è come una melopea liturgica di un coro ambrosiano, con voci unite che rimbalzano nel mio cervello. Sussultano, proprio come il mio corpo che sobbalza sul metrò. È mattina, ora di punta; il vagone è pieno. La maggior parte delle persone è in piedi, una attaccata all’altra. Tutti i sedili di plastica gialla sono occupati principalmente da anziani o donne incinte; è una regola non scritta lasciare il proprio posto a chi ne ha più bisogno. Ce ne sono molte altre di regole non scritte in città: camminare a passo spedito, mantenere la destra sulle scale, lasciare scendere prima di salire sui mezzi pubblici. Tutto scorre secondo i classici canoni; un veloce sali-scendi dei pendolari alternato a quella voce femminile dal volto ignoto che annuncia, prima in italiano e poi in inglese: “Prossima fermata: nome della fermata. Apertura porte a destra o sinistra” (la maggior parte delle volte è destra).

Sembra un giorno come gli altri. Non riconosco nessun volto amico tra la gente sul metrò; tutto scorre troppo veloce perché una cosa si ripeta più di una volta: tutto è in continuo cambiamento. I giorni (o meglio, gli sbattiti di ciglia) di Milano sono come i fiocchi di neve: sempre diversi. Sono nato proprio qui, diciassette anni fa, all’ospedale Buzzi, vicino alla fermata Gerusalemme sulla Lilla, anche se in realtà quando sono nato non esisteva ancora la linea M5. Ho sempre vissuto nella città del Madonnina, da sempre nella stessa casa; un bellissimo attico in viale Isonzo vicino a Porta Romana. I miei genitori hanno deciso di trasferirsi in questo appartamento quando mia mamma ha scoperto di portarmi in grembo. Prima vivevano in una piccola casa di ringhiera vicino all’Arco della Pace; hanno poi deciso di cambiare zona perché mamma avrebbe iniziato un nuovo progetto di lavoro vicino alla redazione di papà. Monica (mia madre) lavora per la fondazione di un’importante marchio della moda italiana: Fondazione Prada. Si occupa di decidere e organizzare le mostre artistiche temporanee del museo (per chi conoscesse Fondazione Prada, le mostre temporanee sono tutte tranne quelle del grattacielo). Guglielmo (mio padre) è invece un giornalista di un grande quotidiano nazionale. La redazione avrebbe cambiato a breve la propria sede quando io avrei avuto pochi mesi, proprio vicino a Fondazione Prada. Sembrava segno del destino avvicinarsi al Municipio 4 (per chi non fosse di Milano, la città è divisa oltre che in quartieri, anche in grandi zone che vengono chiamate Municipio e poi il numero corrispondente).

Io invece ho deciso di studiare al Liceo Classico, al Manzoni, vicino alla Basilica di Sant’Ambrogio. Ci metto circa 40 minuti per arrivarci; prima prendo la 90 (un’altra regola non scritta di Milano è quella di usare il femminile per indicare le linee degli autobus e il maschile per indicare le linee dei tram), scendo a Romolo e poi prendo la verde fino alla fermata S. Ambrogio, dove incontro i miei amici; infine facciamo qualche minuto a piedi (noi giovani diciamo ‘a piotti’), passiamo davanti al nostro piccolo bar di fiducia dove ogni tanto acquistiamo delle brioche per convincere i professori a spostare qualche verifica, e arriviamo davanti a scuola.

Mi piace molto utilizzare i mezzi pubblici. Forse ho preso dai miei genitori; loro si sono incontrati per la prima volta proprio sul metrò. È un posto quasi magico, dove si toccano con mano le persone che compongono una città all’apparenza omogenea. Vestiti differenti, culture differenti, colori differenti, abitudini differenti, odori differenti: vite differenti che compongono una delle città più cosmopolite di tutta Italia (forse la più cosmopolita).

E come tutte le mattine sono sul metrò. Cuffiette alle orecchie; musica dolce e delicata; volume alto per svegliarmi per affrontare un’altra giornata di scuola. Ci sono le solite persone in giacca e cravatta che già parlano di affari; madri e padri che accompagnano i figli a scuola; dipendenti con gli zainetti o borse in tela dove custodiscono le loro schiscette (a Milano chiamiamo così i contenitori-porta-pranzo). Sembra un giorno come gli altri: nessun volto conosciuto e carrozze colme di persone. Eppure intravedo tra la folla, tra un berretto di un giovane e la berretta di un prete, il volto di Giulia, una mia compagna di classe. Provo a salutarla con lo sguardo ma non si accorge della mia presenza. "Perché è sulla verde a quest’ora? Perché è in zona Porta Genova?” mi domando tra me e me: “Giulia abita in via Paolo Sarpi (dove c’è China Town)”; non perdo tempo a cercare risposte che subito cerco di infilarmi nella folla per provare ad

avvicinarmi: “Scusi…permesso…scusi, devo passare”. Ingroviglio i miei arti tra le persone per farmi strada verso Giulia che nel frattempo non mi ha ancora visto. Nel mentre arriviamo alla fermata S. Agostino; poca gente scende e molte persone salgono: “Treno in direzione Gessate. Tenetevi ai sostegni. Please, hold on the handgrips”. La prossima fermata è la nostra; non faccio in tempo a raggiungere Giulia; mi avvicino quindi alle porte per scendere; cercherò di raggiungerla fuori dalla stazione dove i pendolari si sparpagliano e fuggono come quando apri la gabbia degli uccellini che finalmente assaporano aria inebriata di libertà.

Si aprono le porte, seguo la folla che si muove omogenea seguendo linee non tracciate; cerco di non distogliere lo sguardo dai capelli biondi di Giulia. Inizio a salire le scale; la folla si avvicina ai tornelli, ma Giulia esce dalla ressa e velocizza il passo verso le scale del binario opposto a quello da dove siamo saliti. La seguo per provare a salutarla; lei velocizza il passo; lo velocizza ancora. Cerco di raggiungerla. Siamo a qualche metro di distanza, ormai sulla banchina del binario direzione Assago. Provo a farmi sentire: “Giulia, Giulia, ciao!”. Non mi sente; sta arrivando il metrò; il rumore dei freni copre la mia voce, provo ad avvicinarmi: “Giulia!”.

Si butta. Si lancia sul binario. Sotto il treno. Giulia si è suicidata. Una melodia straziante risuona nelle mie orecchie, come i freni del metrò che provano a bloccare le carrozze; rimbalzano nella mia mente e gettano oscurità nei già scuri tunnel sotterranei.

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