La morte di Giulio Cesare

La morte di Giulio Cesare

A 56 anni Cesare era divenuto il re senza corona di Roma. La vittoria in una cruenta guerra civile aveva concentrato nelle sue mani tutto il potere della repubblica, e l’élite romana non l’avrebbe mai potuto tollerare

Verso mezzogiorno del 15 marzo 44 a.C. un piccolo gruppo di senatori pugnalò Giulio Cesare davanti agli occhi attoniti degli altri loro pari. Il dittatore fu massacrato sia da nemici che aveva perdonato sia da amici che aveva elevato a cariche importanti.

Le origini di tale coalizione vanno rintracciate nella politica adottata da Cesare all’indomani del trionfo nella sanguinosa guerra civile contro il rivale Pompeo e la maggior parte del senato. Quest’ultima istituzione era il fortino degli ottimati (optimates, i migliori), cioè la nobiltà senatoriale, un’esigua élite che fino ad allora aveva controllato la repubblica e che costituiva lo zoccolo duro dei nemici di Cesare. Eppure dopo le schiaccianti vittorie a Farsalo, Tapso e Munda, tra il 48 e il 45 a.C., il dittatore aveva dato prova di un comportamento inusuale, decidendo che i vinti non venissero giustiziati.

Ai musei Vaticani è conservato questo busto di Cesare, realizzato all’epoca del figlio adottivo nonché successore, Ottaviano Augusto

Ai musei Vaticani è conservato questo busto di Cesare, realizzato all’epoca del figlio adottivo nonché successore, Ottaviano Augusto

Foto: Bridgeman / ACI

Non li fece eliminare perché, secondo lui, avrebbero così capito che era meglio riconoscere il suo potere davanti alla repubblica piuttosto che continuare a distruggersi a vicenda. Per questo non soltanto aveva risparmiato le vite dei suoi nemici, ma li aveva persino voluti coinvolgere nel governo. Un esempio per tutti: Marco Giunio Bruto e il cognato Gaio Cassio Longino – futuri capi della congiura – furono nominati pretori nel 44 a.C. Tuttavia una simile clemenza irritava molte persone, per le quali il perdono del dittatore era umiliante, arbitrario e tipico di un tiranno.

Non solo: dopo la vittoria Cesare controllava ogni ingranaggio della politica romana. Monitorava sia le elezioni dei magistrati (questori, pretori, consoli), i quali governavano la città e l’immenso dominio, sia l’accesso al senato che, intimorito e compiacente, l’aveva nominato dittatore a vita (dictator perpetuus). Con tale carica Cesare riuniva nelle proprie mani i massimi poteri civili e militari. Da lui dipendeva quindi la carriera politica di qualsiasi romano.

Tutto ciò era un incredibile affronto per gli ottimati vinti, perdonati e indignati, e ripugnava pure a molti cesariani, repubblicani convinti che mal tollerarono l’ascesa politica dei pompeiani sconfitti. Se fosse stato poco, nei due mesi precedenti la propria morte Cesare venne accusato di ambire alla monarchia, anche se in pubblico diede prova del contrario.

Cesare, con la corona d’alloro, festeggia uno dei suoi trionfi. Olio di Mantegna. 1485-1505. Hampton Court

Cesare, con la corona d’alloro, festeggia uno dei suoi trionfi. Olio di Mantegna. 1485-1505. Hampton Court

Foto: Bridgeman / ACI

L’anima della congiura

Nel complotto contro il dittatore furono coinvolte come minimo sessanta persone, e probabilmente più di ottanta. Il cervello della congiura fu Cassio, pompeiano reintegrato, del quale si raccontava che avesse già provato a uccidere Cesare sulle sponde del Cidno quando questi l’aveva risparmiato dopo la battaglia di Farsalo. Forse Cassio accettò il perdono in attesa di una nuova opportunità per liquidare il nemico.

Al complotto diretto da Cassio e Bruto prese parte più di una sessantina di persone

Intuì comunque che all’interno della coalizione era necessaria una personalità che conferisse all’attentato le dimensioni di un atto politico, e non di una meschina vendetta personale. Non doveva cercarla lontano: si trattava del cognato Marco Bruto, un rispettabile ottimate la cui famiglia sosteneva di discendere per linea paterna da un altro Bruto, lo stesso che, quasi cinquecento anni prima, aveva messo fine alla monarchia per fondare la repubblica. Un antenato della madre di Bruto, Servilio Ahala, aveva inoltre pugnalato nel foro un uomo che si credeva ambisse alla tirannide.

Con Cassio nell’ombra e Bruto come vessillo, si strinse così un’alleanza di ottimati offesi e di cesariani disgustati. Tra questi ultimi spiccavano due uomini che avevano lottato accanto a Cesare nelle Gallie e durante la guerra civile: Gaio Trebonio e Decimo Giunio Bruto Albino. Decimo era un lontano parente di Marco Bruto nonché amico intimo di Cesare. A quanto pare, l’anno prima, dopo la vittoria cesariana a Munda, Trebonio aveva già sondato le intenzioni di Marco Antonio, il (presunto) fedele luogotenente di Cesare, circa la possibilità di unirsi a una congiura per ucciderlo – e su questo non sappiamo molto altro – ma Antonio si era rifiutato. Certo, è strano credere che non avesse raccontato nulla a Cesare.

Dopo la vittoria a Munda il senato permise a Cesare di portare sempre la corona trionfale. Scultura di Nicolas Coustou. Musée du Louvre, Parigi

Dopo la vittoria a Munda il senato permise a Cesare di portare sempre la corona trionfale. Scultura di Nicolas Coustou. Musée du Louvre, Parigi

Foto: René-Gabriel Ojéda / RMN-Grand Palais

Quando Trebonio riferì del mancato coinvolgimento di Antonio, i congiurati pensarono di eliminarlo, però Bruto si oppose. Secondo lui, annientare Cesare era un atto di giustizia, mentre l’omicidio di Antonio sarebbe stato interpretato come un’azione politica. E quindi decisero che l’avrebbero intrattenuto all’ingresso del senato per evitare che entrasse (era anche lui senatore) e aiutasse Cesare al momento dell’aggressione.

La data e il luogo

Perciò già dopo la vittoria di Munda, un anno prima delle fatidiche idi di marzo, la cerchia riunita attorno a Cesare progettava il suo assassinio. E l’occasione sembrò materializzarsi quando Cesare decise di fare a meno della sua scorta di guerrieri ispanici, rassicurato dal fatto che i senatori avevano promesso di proteggerlo con le loro vite. Cesare decise inoltre di non prestare ascolto alle notizie che gli giungevano riguardo alla cospirazione, e che chiamavano in causa Bruto.

In realtà il dittatore non si stava consegnando inerme ai nemici. Credeva piuttosto che avessero capito come la sua morte avrebbe scatenato una nuova e devastante guerra civile, ed evitassero per questo di agire contro di lui. In tal senso potremmo quasi affermare che cadde vittima della congiura perché attribuì ai suoi nemici un’intelligenza politica acuta quanto la propria. Una delle persone che, da quel che sappiamo, si rifiutò di unirsi al complotto, Marco Favonio, non esitò a riferirlo a Bruto: una guerra civile sarebbe stata peggio di una monarchia illegale.

La moneta mostra due mani unite, segnale di fiducia reciproca tra Cesare e l’esercito, e un globo, simbolo dell’aspirazione romana a dominare il mondo

La moneta mostra due mani unite, segnale di fiducia reciproca tra Cesare e l’esercito, e un globo, simbolo dell’aspirazione romana a dominare il mondo

Foto: British Museum / Scala, Firenze

Cesare era forse sereno anche perché non si spostava mai da solo. Lo precedevano ventiquattro littori (ufficiali incaricati di proteggere i magistrati) ed era accompagnato da amici e da alcuni nerboruti seguaci, una sorta di scorta ufficiosa. E attorno a lui si radunava sempre una grande folla, che voleva vederlo dal vivo o chiedergli qualche favore. I congiurati dovevano quindi sorprenderlo quando nessuno avesse potuto accorrere in suo aiuto.

Dopo aver considerato diverse opzioni, decisero di aggredirlo durante una seduta del senato, perché lì sarebbe stato solo, senza il suo seguito (solo i senatori potevano assistere alle assemblee) e indifeso. All’interno non si potevano infatti portare armi, ragion per cui i congiurati avrebbero dovuto introdurle di nascosto. L’occasione venne fornita dallo stesso Cesare, che convocò il senato per le idi di marzo, ovvero per il giorno quindici di marzo (con la parola idus s’indicava il giorno centrale di ogni mese).

I congiurati decisero di attaccare Cesare nel senato, dove sarebbe stato inerme e isolato

Sarebbe stata l’ultima riunione di tale assemblea prima che, due giorni più tardi, Cesare partisse per una lunga campagna contro i parti. Secondo lo storico Svetonio, girava la voce che quel giorno sarebbe stata avanzata la sua nomina a re delle province non italiche: i congiurati dovettero accelerare il piano sia per non vedersi obbligati ad approvare la proposta sia perché, una volta fuori da Roma con le sue legioni, Cesare sarebbe sfuggito al loro tranello. Tuttavia Cicerone (che allora era senatore, e quindi informato sui fatti) racconta che l’assemblea era stata convocata per decidere chi avrebbe sostituito Cesare in qualità di console alla sua partenza da Roma, perché quell’anno era il turno proprio di Cesare e di Antonio. In assenza del dittatore, Antonio e il nuovo console avrebbero rappresentato la massima autorità di Roma.

Marco Giunio Bruto. Busto di Michelangelo. Museo nazionale del Bargello, Firenze

Marco Giunio Bruto. Busto di Michelangelo. Museo nazionale del Bargello, Firenze

Foto: Erich Lessing / Album

L’alba delle idi

Nella notte tra il 14 e il 15 marzo Calpurnia ebbe un incubo in cui vide il marito ucciso tra le sue braccia e l’indomani lo supplicò di non recarsi al senato. Dopo quindici anni di matrimonio, la moglie di Cesare conosceva perfettamente la delicata situazione politica della città e, come lo sposo, doveva essere al corrente circa le voci su una possibile congiura. Anche Cesare aveva avuto un incubo: aveva sognato di volare sopra le nuvole, con Roma ai suoi piedi, e di stringere la mano a Giove. Il dittatore non era superstizioso, eppure l’inquietudine della moglie l’aveva turbato. Inoltre i sacrifici mattutini non gli erano stati favorevoli. Forse allora Cesare aveva ricordato ciò che, durante i Lupercali del mese precedente, gli aveva detto Spurinna, uno degli aruspici, gli indovini che leggevano il futuro nelle viscere degli animali sacrificati. A quanto riferisce Svetonio, Spurinna gli aveva consigliato di prestare attenzione al «pericolo che non si sarebbe protratto oltre le idi di marzo».

Poteva trattarsi di un vaticinio o di un tentativo di mettere in guardia Cesare, e Spurinna era forse al corrente della cospirazione. E forse i terribili incubi di Calpurnia dipendevano proprio dall’angoscia per quel vaticinio, che indicava come scadenza il 15 marzo. Chissà se, in condizioni normali, Cesare si sarebbe preoccupato in quel modo. Tuttavia Cesare era malato. Secondo quanto narra Nicola Damasceno, i medici provarono a impedirgli di andare al senato perché d’improvviso era stato colto da «una strana malattia che lo colpiva di frequente». Si è sempre pensato che si trattasse d’epilessia, mentre nuove indagini parlano di attacchi ischemici transitori, ossia piccoli ictus. A ogni modo, Cesare aveva avuto gli incubi, il capogiro, probabilmente gli faceva male la testa, o era confuso... Alla fine, secondo quanto racconta Plutarco, decise di rimanere a casa e di mandare Antonio al senato per sciogliere la riunione.

Nella mattina delle idi Cesare era malato e i medici provarono a convincerlo perché non andasse al senato

Addio per sempre

In un tale frangente fece la sua comparsa Decimo, che convinse l’amico a recarsi al senato. Tra le altre cose, gli riferì che tutta Roma gli avrebbe riso dietro se avesse dato retta ai sogni della moglie e che, sebbene si sentisse male, non avrebbe dovuto offendere i senatori: perché non andava lui stesso a sciogliere l’assemblea? Scrive inoltre Plutarco che, mentre parlava con Cesare, Decimo gli prese la mano e lo trascinò con sé. Il dittatore era ancora stordito per gli strascichi dell’attacco. Fu dunque per questo così semplice fargli cambiare i suoi piani?

Decimo porta via Cesare davanti a una Calpurnia disperata. Olio di Abel de Pujol. XIX secolo

Decimo porta via Cesare davanti a una Calpurnia disperata. Olio di Abel de Pujol. XIX secolo

Foto: Bridgeman / ACI

Di certo sappiamo che varcò la soglia di casa verso le undici di mattina. Partì su una lettiga condotta da quattro schiavi e preceduta dai ventiquattro littori. Una moltitudine lo circondava e l’assillava con richieste e saluti, e Cesare non riuscì a leggere un avvertimento con cui qualcuno denunciava la congiura (forse Artemidoro di Cnido, un maestro di eloquenza greca del circolo di Bruto). Stando alle parole di Nicola Damasceno, quel documento sarebbe stato rinvenuto più tardi accanto al cadavere.

La meta del dittatore era il portico di Pompeo, un enorme complesso costruito dal nemico di Cesare nel campo Marzio, provvisto di una curia, dove quel giorno si sarebbe riunito il senato. Cassio e Bruto giunsero al portico prima degli altri. Poiché era proibito condurvi delle armi, Bruto teneva il pugnale legato alla cintura, nascosto sotto la toga. Coloro che invece non l’avevano con sé l’avrebbero estratto dalla cassa per i documenti che i capsarii (gli schiavi il cui compito era, appunto, quello di trasportare tali scrigni) avevano introdotto nell’area.

Dopo una lunga attesa, finalmente arrivò Cesare, che decise di entrare nella curia malgrado nuovi sacrifici gli fossero avversi. Appena ebbe varcato la soglia, i senatori si alzarono in segno di deferenza. Dovevano essere come minimo duecento, il quorum allora richiesto, e difficilmente più di trecento, poiché altrimenti non sarebbero entrati nella curia che, lunga diciotto metri e larga diciassette, occupava circa trecento metri quadrati (l’equivalente dei tre quarti di un nostro campo di basket).

Questa statuetta del I secolo d.C. rappresenta un littore; 24 di questi funzionari accompagnarono Giulio Cesare la mattina delle idi

Questa statuetta del I secolo d.C. rappresenta un littore; 24 di questi funzionari accompagnarono Giulio Cesare la mattina delle idi

Foto: Alamy / ACI

L’attacco

Poiché non tutti i cospiratori erano membri del senato, non sappiamo quante persone ora in piedi desiderassero la morte dell’uomo che avevano accolto con simile ossequio. Una ventina, o di più? Davanti ai loro seggi si alzava la pedana su cui Cesare avrebbe presieduto la sessione dallo scranno dorato, e i congiurati si affrettarono a disporvisi attorno, come se avessero l’urgenza d’interloquire con il dittatore.

Cesare si sedette. Mentre gli altri senatori erano probabilmente ancora in piedi, in segno di rispetto, gli assassini «l’attorniarono in massa, mandando avanti tra loro Tillio Cimbro, che lo supplicava per il fratello esule». Nella Vita di Bruto Plutarco narra inoltre: «Lo pregavano insieme tutti quanti, toccandogli le mani e il petto e baciandogli la testa».

All’inizio Cesare rifiutò le richieste e, giacché non lo lasciavano stare, provò ad alzarsi con uno scatto. Forse aveva inteso la verità e cercò di disfarsi di abbracci e baci, che intuiva letali, per scappare. Allora Tillio, plausibilmente inginocchiato ai suoi piedi, gli prese la toga in un gesto di supplica. In realtà così gli impedì di tirarsi su e lasciò il suo collo esposto alle armi.

Servilio Casca si appresta a pugnalare Cesare mentre Tillio Cimbro lo tiene per la toga. 1865. Museo statale della Bassa Sassonia. Hannover

Servilio Casca si appresta a pugnalare Cesare mentre Tillio Cimbro lo tiene per la toga. 1865. Museo statale della Bassa Sassonia. Hannover

Foto: AKG / Album

È vero quanto riferisce Svetonio, ovvero che Cesare gridò che quella era «una violenza bell’e buona»? E, da quanto invece afferma Appiano, Tillio dovette chiedere esasperato agli amici perché tardassero? Successe tutto molto in fretta, e gli autori riportano particolari diversi. Secondo Nicola Damasceno, «tutti subito sguainarono i pugnali e lo assalirono. Per primo Servilio Casca lo colpì con la punta della lama alla spalla sinistra un po’ sopra la clavicola. Nella tensione, però, mancò il punto da colpire». Casca si trovava sopra la testa di Cesare e, secondo Svetonio, l’aveva ferito mentre il dittatore urlava. Ciononostante la lesione non era mortale né profonda, perché Casca era inquieto, e la sua vittima in movimento. Cesare, abile soldato, aveva infatti reagito con prontezza. Da quanto narra Appiano, strappò con forza la toga dalla presa di Cimbro e, afferrando la mano a Casca, scese dalla sedia, si girò e lo scagliò a terra.

Le fonti differiscono ancora su quanto seguì. Forse Casca gli prese il braccio – Svetonio afferma che addirittura glielo attraversò con lo stilo, il pennino utilizzato per scrivere sulle tavolette di cera – e, a quanto sappiamo da Plutarco in Vita di Cesare, «contemporaneamente i due urlarono: il ferito, in latino: “Scelleratissimo Casca, che fai?”, e il feritore, in greco, rivolgendosi al fratello: “Aiutami, fratello!”». Non è strano che Servilio Casca chiedesse aiuto: doveva essere isterico perché la vittima si ribellava e arrivava perfino a colpirlo.

Il primo a pugnalare Cesare fu Publio Servilio Casca, che si trovava in piedi dietro la sedia del dittatore. Cesare si voltò di scatto e Servilio chiese aiuto al fratello

Insomma, Cesare, forse malato eppure impavido sino alla fine, potrebbe aver affrontato quel muro di lame ed espressioni torve. Due autori forniscono i nomi di chi brandì l’arma contro il dittatore. Uno, Appiano, sostiene che, mentre Cesare tratteneva il braccio armato di Servilio Casca, ricevette una seconda coltellata da un cospiratore, di cui omette il nome, e che «nel girarsi distese il fianco e un altro lì lo trafisse». Narra infine che Cassio lo pugnalò sulla faccia, Bruto in un femore, e Bucoliano nella schiena.

In largo di Torre Argentina si trovava la curia dove morì Cesare. Una recente indagine ha indicato il possibile luogo dell’assassinio

In largo di Torre Argentina si trovava la curia dove morì Cesare. Una recente indagine ha indicato il possibile luogo dell’assassinio

Foto: Manuel Cohen / Aurimages

L’altro autore è Nicola Damasceno, il quale riferisce che, dopo la richiesta d’aiuto da parte di Casca, fu il fratello Gaio a conficcare l’arma nel costato del dittatore. Cassio gli lacerò il volto con un taglio e Decimo lo trapassò nel fianco. Cassio gli assestò quindi un nuovo colpo, ma si sbagliò e ferì la mano di Marco Bruto. Anche Minucio commise un errore e infilzò Rubrio nella coscia. Chissà se erano soltanto questi, e non altri, coloro che attaccarono Cesare: i fratelli Casca, Cassio, Marco Bruto, Bucoliano, Decimo, Minucio Basilo e Rubrio.

Quando un forense dei carabinieri, Luciano Garofano, ha ricostruito il crimine nel 2003, ha calcolato che gli aggressori di Cesare dovevano essere tra i cinque e i dieci. Un gruppo più numeroso non avrebbe potuto aggredire simultaneamente una sola persona. Pure con così pochi assalitori il risultato fu il caos, come conferma Plutarco nella Vita di Bruto. «Colpendo ormai senza trattenersi, nell’usare molte spade contro un unico corpo, i congiurati si ferirono tra di loro, e così anche Bruto fu raggiunto da un colpo alla mano perché voleva prendere parte all’omicidio, e tutti si riempirono di sangue». Gli altri cospiratori erano probabilmente pronti a intervenire, con il pugnale stretto tra le mani.

Durante l’aggressione alcuni congiurati si ferirono tra di loro con i pugnali

E cosa fecero i restanti senatori? Lo racconta di nuovo Plutarco, ma nella Vita di Cesare. Appena Casca assestò la prima coltellata e chiese aiuto al fratello, «quelli che non ne sapevano niente erano sbigottiti e tremanti di fronte a quanto avveniva e non osavano né fuggire né difendersi e neppure aprire bocca». Solo in due cercarono di aiutarlo: Gaio Sabinio Calvisio (legato di Cesare nella guerra civile e governatore dell’Africa Vetus) e Lucio Marcio Censorino; si scansarono, però, quando videro che i cospiratori erano troppi. E cosa fece Cesare, circondato dagli assassini?

Statua di Pompeo. Al suo ritrovamento si pensò che le macchie ossidate della base corrispondessero al sangue del dittatore, mortovi davanti

Statua di Pompeo. Al suo ritrovamento si pensò che le macchie ossidate della base corrispondessero al sangue del dittatore, mortovi davanti

Foto: Andrea Jemolo / Age Fotostock

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Cesare lottò?

Dopo i primi due fendenti, uno nella nuca o sulla schiena e l’altro nel costato, smise di dimenarsi, con la mano destra avvolse la testa con la toga e con la sinistra lasciò cadere ai piedi le pieghe per morire decorosamente, non a gambe nude. Lo asserisce Svetonio, secondo il quale Cesare morì «con un solo gemito, emesso sussurrando dopo il primo colpo».

Pure Cassio Dione ritiene che il dittatore non si difese perché l’attacco fu talmente veloce e inatteso che a malapena riuscì a coprirsi prima di spirare. Scrive infatti: «Subito i congiurati gli piombarono addosso da ogni lato e lo colpirono. Cesare, non potendo per il gran numero dei congiurati né parlare, né difendersi, si coperse col mantello e cadde trafitto da molte ferite. Questa è la verità».

Tuttavia Appiano dichiara che il dittatore «si voltava verso ciascuno fremendo e stridendo come una fiera». Plutarco evoca parimenti l’immagine di una preda circondata dai cacciatori: ovunque guardasse, Cesare «incontrava solo colpi e il ferro sollevato contro il suo volto e i suoi occhi» ed era inseguito «come una bestia».

Il denario, coniato da Marco Bruto nel 43-42 a.C., commemora il regicidio e contiene l’iscrizione «idi di marzo», due pugnali e il pileo, simbolo di libertà

Il denario, coniato da Marco Bruto nel 43-42 a.C., commemora il regicidio e contiene l’iscrizione «idi di marzo», due pugnali e il pileo, simbolo di libertà

Foto: British Museum / Scala, Firenze

Epilogo cruento

In apparenza i congiurati non furono molto abili con le armi, perché dovettero accanirsi sul dittatore. Secondo Nicola Damasceno, questi ricevette trentacinque ferite, mentre Appiano, Plutarco e Svetonio riportano la cifra di ventitré. Quest’ultimo autore racconta che il medico Antistio, il quale esaminò il corpo (in quella che dovette essere la prima autopsia della storia), trovò un’unica ferita mortale: quella che Cesare «aveva ricevuto per seconda in pieno petto». Se, come afferma Nicola Damasceno, la coltellata fu inflitta da Gaio Casca, non ci sono dubbi: fu lui l’omicida.

Non c’è da meravigliarsi che parecchie ferite non fossero mortali, visto che i congiurati non erano assassini professionisti. Inoltre Cesare dovette muoversi cercando di difendersi o scappare e, poiché Roma si stava ancora lasciando alle spalle l’inverno, Cesare indossava molto probabilmente una toga di lana il cui spessore e le cui pieghe, unite alla tunica sotto (forse anch’essa di lana), poterono deviare i pugnali o impedire che sprofondassero di più nella carne.

La toga doveva essere quella che il senato gli aveva concesso il privilegio di usare, quella dei generali vittoriosi durante la celebrazione di un trionfo. Si trattava con ogni probabilità della toga picta, tinta di porpora e ricamata in oro. Visto che non era bianca, sembra difficile che vi rimanessero copiose macchie di sangue. Sul tessuto porpora si sarebbe distinto al massimo un tono più scuro nei punti in cui Cesare era stato trafitto. Non solo: la toga dovette agire al pari di una spugna, assorbendo il sangue che zampillava dal corpo del dittatore, cosicché è improbabile che sulle toghe di Bruto, Cassio e i suoi ci fossero grandi chiazze, o che il liquido vitale di Cesare avesse formato una pozza sul pavimento di marmo, come si vede di solito nei film.

I congiurati lasciano la curia mentre il corpo di Cesare viene lì abbandonato. Olio di Jean-Léon Gérôme. 1859-1867. The Walters Art Museum, Baltimora

I congiurati lasciano la curia mentre il corpo di Cesare viene lì abbandonato. Olio di Jean-Léon Gérôme. 1859-1867. The Walters Art Museum, Baltimora

Foto: Bridgeman / ACI

In presenza di così pochi assalitori, ci sono due spiegazioni che giustificherebbero la presenza di ben ventitré o trentacinque lesioni. Una è che, colti dalla furia omicida che li spinse a colpirsi gli uni con gli altri, introdussero più volte il pugnale; tuttavia Nicola Damasceno è il solo ad affermare che un unico cospiratore, Cassio, attaccò Cesare due volte. L’altra, che chi non si era ancora macchiato le mani del sangue di Cesare conficcò dopo le proprie armi nel cadavere pur di partecipare alla morte in modo simbolico. Nicola Damasceno riferisce: «Per le numerose ferite, egli cadde ai piedi della statua di Pompeo. Ognuno voleva mostrare di aver preso parte nell’assassinio e non ci fu nessuno che mancò il suo corpo mentre giaceva a terra». Nella Vita di Cesare, Plutarco dirà che «tutti avevano parte alla strage e gustarono del suo sangue».

La presenza di numerose ferite sul cadavere di Cesare si spiegherebbe con l’accoltellamento di altri congiurati quando il dittatore era già morto

Una volta morto Cesare, Bruto camminò verso il centro della curia per parlare, però nessuno rimase ad ascoltarlo. I senatori scapparono terrorizzati accalcandosi alla porta. Fuggirono perché ignoravano quanti fossero i congiurati e quali fossero le loro intenzioni verso i sostenitori di Cesare. Quando i cospiratori se ne andarono per annunciare che Roma era libera dal tiranno, nella curia, piombata nel silenzio, rimase soltanto quel corpo privo di vita.

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Per saperne di più

La morte di Cesare. Barry Strauss. Laterza, Roma-Bari, 2017
Giulio Cesare. Luciano Canfora. Laterza, Roma-Bari, 2011
Giulio Cesare. William Shakespeare. Mondadori, Milano, 2016

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