1917: recensione del film di Sam Mendes con George MacKay
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    1917: recensione del film di Sam Mendes con George MacKay

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    Dopo le 10 nomination guadagnate per i prossimi Oscar, approda finalmente nelle sale italiane 1917, nuovo lavoro di Sam Mendes, che torna a dirigere un film di guerra a 15 anni di distanza da Jarhead. Dopo la prima guerra del Golfo, Mendes concentra la sua attenzione sulla prima guerra mondiale, ispirandosi dichiaratamente, come già fatto da Peter Jackson per il suo documentario They Shall Not Grow Old – Per sempre giovani, ai racconti di suo nonno Alfred Hubert Mendes.

    Oltre che per il successo riscosso durante questa prima parte della stagione dei premi, 1917 arriva al cinema con grande attenzione da parte degli addetti ai lavori per la particolare scelta registica da parte di Mendes, che, come fatto da Alejandro González Iñárritu con Birdman o, in tempi meno recenti, da Alfred Hitchcock con Nodo alla gola, ha girato il film in modo da dare allo spettatore la sensazione di essere di fronte a un unico piano sequenza.

    L’illusione del piano sequenza
    1917

    I caporali britannici William Schofield (George MacKay) e Tom Blake (Dean-Charles Chapman), stanziati nella Francia del nord insieme ai loro commilitoni, ricevono il compito di attraversare le linee tedesche per consegnare un importante dispaccio, che avverte un altro battaglione di un imminente attacco a sorpresa da parte dei nemici. In caso di riuscita di quest’ardua missione, Schofield e Blake potrebbero salvare la vita a circa 1600 commilitoni, fra cui il fratello dello stesso Blake. I due si avventurano così in una disperata corsa contro il tempo, in mezzo a bombe e nemici, per cambiare la sorte della battaglia.

    L’illusorio piano sequenza orchestrato da Mendes ha la precisa funzione di rendere il racconto il più immersivo possibile. Obiettivo totalmente raggiunto, dal momento che per lunghi tratti sembra quasi di trovarsi accanto ai protagonisti, e di vivere con loro la desolazione e la pericolosità del capo di battaglia. Un fulgido esempio di tecnica messa totalmente al servizio della narrazione, che trova una fondamentale sponda nel lavoro del direttore della fotografia Roger Deakins, già premiato con l’Oscar della categoria per Blade Runner 2049 e candidato anche in questa edizione, con ottime possibilità di bis.

    L’opera di Deakins è davvero magnifica: con sorprendente naturalezza, il direttore della fotografia ci accompagna in una lacerante giornata al fronte, tratteggiando l’insensatezza di ogni conflitto bellico attraverso le panoramiche di un paesaggio che odora di morte, i dettagli della vita in trincea, capaci di farci quasi respirare la polvere del campo di battaglia, e delle fughe a perdifiato, che anche in assenza di luce ci trasmettono la fragilità della vita di un soldato, perennemente appesa a un filo.

    1917: quando la guerra rompe la barriera dello schermo

    Il lavoro di Mendes e quello di Deakins trovano il connubio perfetto nel momento in cui un aereo precipita a pochi passi dai protagonisti, forzandoci a condividere con loro la sorpresa e la paura per l’evento. La guerra rompe così la barriera dello schermo, diventando quasi tangibile in tutto il suo orrore. Dire di più significherebbe anticipare uno snodo narrativo fondamentale di 1917, per cui ci limitiamo ad affermare che questa precisa sequenza è destinata a ritagliarsi un piccolo pezzo di storia del war movie. Da quella scena in poi, l’opera di Mendes perde qualcosa in coesione e potenza, avvicinandosi con una certa ridondanza a dinamiche da videogame, pur attestandosi costantemente su livelli tecnici eccelsi.

    Proprio il raffinato impianto visivo rischia così paradossalmente di diventare anche il più evidente limite di 1917, che sconta anche la scelta di tagliare fuori dal racconto il contesto storico e l’epica della battaglia e il ritardo con cui si presenta all’interno di un filone decisamente florido. Impossibilitato a riflessioni antimilitariste sulla scia di Orizzonti di gloria o a spettacolarizzazioni della battaglia come quelle viste in Salvate il soldato Ryan, 1917 rischia di lasciare un retrogusto di già visto allo spettatore, faticando a imporre anche il proprio ragionamento sul tempo, che appare inevitabilmente più semplificato rispetto a quanto fatto da Christopher Nolan con il suo Dunkirk.

    1917: il difficile equilibrio fra forma e contenuto

    1917

    1917 si riduce quindi a un mero esercizio di stile? Dipende da cosa si cerca in un war movie. Dal punto di vista dell’intreccio, l’opera di Mendes si riduce a una lunga e lineare rincorsa, scandita da diverse tappe, che coincidono con altrettante comparsate di celebri attori britannici (fra i tanti, Benedict CumberbatchMark Strong, Andrew Scott, Richard Madden e Colin Firth). Andando oltre alla mera trama e alla già menzionata illusione di un unico piano sequenza, realizzata attraverso invisibili stacchi di montaggio, troviamo però anche molto altro. L’ottima performance di George MacKay ricorda la Sandra Bullock di Gravity, per la capacità dell’attore britannico (già visto in Captain Fantastic e 22.11.63) di reggere interamente la scena all’interno di un ambiente ostile. Troviamo inoltre una non scontata riflessione sulla fratellanza fra commilitoni, inevitabilmente intrecciata con quella di sangue e incentrata sul reciproco sostegno e sul vicendevole sacrificio.

    Ciò che però si incolla maggiormente addosso allo spettatore dopo la visione di 1917 è la sensazione di assenza e di insensatezza di quanto mostrato sul grande schermo. Un disagio che è figlio proprio di quella certosina ricostruzione scenica, fatta di cadaveri in putrefazione, edifici sventrati, cunicoli bui da attraversare, paesaggi spettrali e soldati accatastati in trincea, ad aspettare una salvezza quasi impossibile da ottenere. Ed è proprio in questo aspetto che 1917 trova il perfetto equilibrio fra forma e contenuto.

    Le gesta di un eroe anonimo

    1917

    Come rappresentare quello che è stato fondamentalmente uno scontro di posizione, superato per numero di morti soltanto dalla seconda guerra mondiale, in cui milioni di soldati hanno perso la vita per proteggere o conquistare inutilmente pochi chilometri di terreno, in un contesto sociale e politico avvilente, che diventò terreno fertile per i successivi totalitarismi? Forse proprio con le gesta di un eroe anonimo, novello Filippide costretto ad attraversare diversi campi di battaglia solo per portare un’informazione. E quando un messaggio semplice e limpido incontra una messa in scena così raffinata, si può anche rinunciare all’originalità e alla costruzione drammaturgica per lasciarsi sopraffare dalle emozioni e dalle immagini.

    1917 è nelle sale italiane dal 23 gennaio, distribuito da 01 Distribution.

    Overall
    7.5/10

    Verdetto

    Con 1917, Sam Mendes realizza un’opera ricercata e complessa, in cui la forma prende spesso il sopravvento sul contenuto, riuscendo però nell’intento di descrivere l’insensatezza e l’orrore della guerra, grazie anche alle particolari soluzioni registiche adottate.

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    Adagio: recensione del film di Stefano Sollima

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    Adagio

    In Suburra, secondo capitolo della sua trilogia dedicata alla Roma criminale, Stefano Sollima ci mostrava una capitale bagnata da una pioggia ininterrotta, cornice dei più subdoli intrighi del potere e della criminalità organizzata. A chiudere il trittico del regista italiano, iniziato con Romanzo criminale – La serie, arriva Adagio, che invece ci presenta una Roma minacciata da un sempre più inquietante incendio e fiaccata da un caldo asfissiante, in linea con quanto messo in scena da Paolo Virzì nel suo Siccità. In questo fosco teatro si aggirano i protagonisti di Adagio, in bilico fra un lontano passato nel crimine e un torbido affare nel presente.

    Insieme all’ottimo debuttante Gianmarco Franchini, in Adagio troviamo colonne portanti della recitazione in Italia come Toni Servillo, Valerio Mastandrea, Adriano Giannini e Pierfrancesco Favino, con quest’ultimo che si conferma perfetto interprete del crime dopo il notevole L’ultima notte di Amore, peraltro in un ruolo diametralmente opposto per registri e sfumature espressive.

    Adagio: l’amara e malinconica chiusura della Trilogia della Roma criminale

    Al centro di Adagio c’è il giovane Manuel (Gianmarco Franchini), inviato in un festino a base di sesso, droga e alcol con il compito di immortalare un ministro impegnato in atteggiamenti equivoci. Prima di portare a termine la missione, Manuel si dà però alla fuga insieme al prezioso video, mandando su tutte le furie il mandante Vasco (Adriano Giannini), maresciallo del ROS corrotto. Il ragazzo si rifugia da Polniuman (Valerio Mastandrea), vecchia conoscenza di suo padre Daytona (Toni Servillo) e come lui con un passato nella banda della Magliana. Inizia così una fuga all’insegna della paura e della violenza, che coinvolge politici, forze dell’ordine e anche l’ambiguo Cammello (Pierfrancesco Favino), ex criminale gravemente malato.

    Dopo le trasferte statunitensi Soldado e Senza rimorso, Stefano Sollima torna in Italia per un altro solido film di genere, che non indora mai la pillola ma al contrario propone personaggi in costante equilibrio fra malvagità e slanci di umanità, fra etica e crimine, fra vita e morte. Un vero e proprio personaggio aggiuntivo del racconto è una Roma respingente e avvelenata, evidentemente prossima a una catastrofe mai approfondita ma sempre presente nel racconto. Una metropoli irrimediabilmente lontana sia dalle atmosfere sognanti de La dolce vita, sia dalla inconsapevole decadenza della borghesia de La grande bellezza, lanciata a tutta la velocità verso l’abisso e verso l’ignoto.

    Un cinema diretto e sincero

    Adagio

    In un luogo in cui convivono i fasti di un glorioso passato e il presente squallore, i personaggi mettono in evidenza tutta la loro doppiezza. Vediamo dunque l’apparentemente giudizioso padre interpretato da Adriano Giannini, che mentre prepara un pasto per i figli segue gli ultimi sviluppi del frutto della sua corruzione, ma anche un temibile e spietato criminale trasformato in insolita e inadeguata ancora di salvezza. Sullo sfondo uno Stato assente, colpevole e disinteressato, del tutto scollegato dalle frange più marginalizzate della società, protagoniste a loro volta di un aspro scontro generazionale, con i giovani intenti a reclamare il loro spazio a discapito dei più anziani, a loro volta attaccati a regole e amicizie spazzate via dal tempo e dalla storia.

    Un cinema diretto e sincero, che guarda al cinema americano (evidente il rimando a I soliti sospetti) ma al tempo stesso si sporca le mani con la sua italianità, riprendendo lo spirito del nostro grande cinema di genere. Dinamiche sapientemente maneggiate dalla mano esperta di Stefano Sollima, che tratteggia un desolante quadro di mediocrità, marciume e disperazione, abitato da veri e propri relitti umani. Fra questi, spicca soprattuto il Cammello di Favino, completamente spogliato della sua divistica per aderire a un corpo martoriato dalla malattia e dall’emarginazione. Non da meno l’ermetico Daytona, sospeso fra disagio mentale e improvvisi squarci di spietatezza criminale.

    Adagio

    Con l’indimenticabile Tutto il resto è noia, la voce di Franco Califano chiude un gangster movie urbano dalle sfumature noir e poliziesche, che fra inseguimenti, duelli e foschi presagi riesce a mantenere sempre alta la tensione, accompagnandoci verso un epilogo amaro e malinconico, in cui emergono la circolarità della vita criminale e il fallimento di una società sull’orlo del collasso.

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    Overall
    7.5/10

    Valutazione

    Stefano Sollima firma un pregevole un gangster movie urbano dalle sfumature noir e poliziesche, che chiude la Trilogia della Roma criminale.

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    Stand by Me – Ricordo di un’estate: recensione del film di Rob Reiner

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    Stand by Me - Ricordo di un'estate

    «Abitavo in una cittadina dell’Oregon, di nome Castle Rock. C’erano solo 1281 abitanti, ma per me era il mondo intero», dice l’adulto Gordon Lachance nei primi minuti di Stand by Me – Ricordo di un’estate, ripensando alla sua infanzia di molto tempo prima, sempre «se lo si considera in termini di anni». Un incipit che costituisce una perfetta descrizione della sonnolenta e apparentemente immobile vita di provincia, ma allo stesso tempo è anche una dichiarazione d’intenti di questo straordinario film, che in appena 88 minuti riesce davvero a dipingere un mondo intero, imponendosi come uno dei più struggenti racconti di formazione mai visti sul grande schermo.

    Non è un caso che Stand by Me – Ricordo di un’estate nasca dalla penna di Stephen King, uno degli autori che meglio ha saputo raccontare la giovinezza, attraverso pietre miliari della narrativa come Carrie e It. In questo caso il materiale originale è il racconto Il corpo, contenuto nella raccolta Stagioni diverse, di cui fanno parte anche Rita Hayworth e la redenzione di Shawshank (adattato al cinema con Le ali della libertà) e Un ragazzo sveglio (base per il film di Bryan Singer L’allievo). Un’opera ricca di evidenti spunti autobiografici, come lo stesso Lachance (diventato uno scrittore) e i problemi di tutti i protagonisti con la figura paterna (il padre di Stephen King ha abbandonato la famiglia quando l’autore aveva appena 2 anni), che attraverso un intreccio molto semplice racconta il delicatissimo passaggio fra l’infanzia e l’adolescenza, con la conseguente perdita dell’innocenza, nonché di amicizie che si credevano eterne.

    Stand by Me: un amaro capolavoro sull’infanzia e sull’amicizia

    Stand by Me - Ricordo di un'estate

    Stand by Me – Ricordo di un’estate è sostanzialmente un lungo flashback, che inizia nel momento in cui l’ormai affermato scrittore Gordon Lachance (Richard Dreyfuss) apprende da un giornale della tragica morte di Chris Chambers, il suo migliore amico d’infanzia. La mente torna così all’estate del 1959, quando il protagonista, soprannominato Gordie (interpretato da Wil Wheaton), parte insieme a Chris (il compianto River Phoenix) e agli altri amici Teddy Duchamp (Corey Feldman) e Vern Tessio (Jerry O’Connell) alla ricerca del cadavere di un ragazzino, scomparso pochi giorni prima dalla cittadina di Castle Rock. Un tentativo di diventare eroi agli occhi della comunità, ma anche e soprattutto l’occasione per vivere tutti insieme un’emozionante avventura, in un lungo cammino attraverso i binari della ferrovia. Sulla loro strada c’è però un gruppo di bulli più grandi di loro, guidati dal pericoloso e sinistro Asso Merrill (un inquietante Kiefer Sutherland).

    Il corpo è poco più che un pretesto, che Stephen King utilizza per scavare nell’animo dei suoi personaggi e per trasformare un paio di giornate estive nella sintesi di un’esistenza intera, in linea con il celebre motto di Leo Benvenuti, secondo cui «in fin dei conti ognuno di noi ha al massimo 20 estati utili… Poi si diventa adulti. E tutto cambia». Da narratore acuto e poliedrico, Rob Reiner (reduce dal successo di This Is Spinal Tap e successivamente ancora autore di un notevole adattamento di Stephen King, Misery non deve morire) intercetta brillantemente questo spirito, compiendo l’intelligente scelta di dare maggior risalto proprio a Gordie, mentre ne Il corpo l’attenzione è rivolta maggiormente verso Chris.

    Il binario della vita

    Il risultato è un racconto commovente e intriso di malinconia, che scaturisce non solo dalle musiche di Jack Nitzsche e dal continuo ricorso al brano di Ben E. King che dà il titolo al film, ma anche dall’approccio di Gordie, l’unico della compagnia a cogliere pienamente il valore simbolico di questo viaggio, grazie al suo già evidente talento per la narrativa. Quello di Gordie, Chris, Teddy e Vern è un viaggio iniziatico, pieno di sorprese e di pericoli, in cui ognuno di loro impara ad affrontare e superare le proprie fragilità.

    In un susseguirsi di imprevisti e colpi di scena, i protagonisti evitano treni per un soffio, fuggono da un temibile cane rivelatosi pressoché innocuo («Chopper fu la mia prima lezione sulla differenza tra mito e realtà», dice Gordie), attraversano ponti pericolanti, dormono in un bosco, vengono attaccati dalle sanguisughe e infine si confrontano a testa alta con i bulli locali.

    Il tutto camminando simbolicamente su un binario, che proprio come la vita può essere percorso solo in una direzione: in avanti mentre si cresce, all’indietro quando si guarda al passato per riannodare i fili della propria esistenza. Lungo la ferrovia, Gordie impara a credere in se stesso anche quando non lo fanno gli altri, come i suoi genitori, ancora sconvolti dalla prematura scomparsa di suo fratello maggiore, nonché loro figlio preferito; Chris capisce che nonostante la pessima nomea e le sue difficoltà di apprendimento può avere comunque un brillante percorso, mettendo le basi per la sua carriera di avvocato; Teddy scopre che gli insulti e gli sberleffi che è solito utilizzare possono colpire anche lui nei suoi punti più deboli, come il padre reduce dallo sbarco in Normandia; l’ingenuo e insicuro Vern acquisisce fiducia e coraggio, comprendendo che è possibile superare anche le più grandi paure.

    Un racconto in cui chiunque può riconoscersi

    Stand by Me - Ricordo di un'estate

    In delicato equilibrio fra le dinamiche del road movie e il coming-of-age, Rob Reiner ferma queste vite nel tempo, districandosi fra ingiurie alle madri, discussioni su fumetti e supereroi, i più disparati scherzi e momenti di aggregazione, come la spassosa digressione sul racconto di Gordie incentrato sulla gara di mangiatori di torte. Nel pieno dell’edonismo e del trionfo della perfetta mascolinità degli anni ’80, il regista scalda il cuore con una storia di ragazzini fragili, imperfetti e sfiduciati, ideale anello di congiunzione fra gli scanzonati protagonisti de I Goonies (uno dei quali è proprio Corey Feldman) e i membri del Club dei Perdenti del già citato It di Stephen King, in eterna lotta contro l’incarnazione stessa del male.

    In questo caso però non ci sono né tesori da ritrovare né mostri da sconfiggere, ma un momento di passaggio in cui chiunque può riconoscersi, fatto di timori spesso infondati sul futuro, furibonde liti capaci di sciogliersi in radiosi sorrisi, voglia di diventare grandi in fretta e al contempo di restare bambini ancora per un po’. Pochi hanno vissuto un’avventura sospesa fra bulli, cadaveri e boschi come quella di Stand by Me – Ricordo di un’estate, ma tutti possono comprendere lo stato d’animo di questi quattro ragazzi, che si trovano nel pieno di quella fase della vita in cui solo i coetanei possono comprenderci, mentre gli adulti e persino i ragazzi di pochi anni più grandi sembrano figure completamente estranee a un legame apparentemente eterno, ma in realtà spesso illusorio.

    Lo struggente finale di Stand by Me

    Fra improvvisi momenti di dolcezza (l’incontro col cerbiatto che Gordie tiene per sé come ultimo scampolo dell’infanzia) e laceranti squarci di verità («So quello che pensa tuo padre di te. Non gliene frega niente di te. Lui preferiva Denny, e non negarlo») si arriva al confronti finale con Asso Merrill e i suoi scagnozzi, in cui Gordie completa il suo percorso di crescita, puntando la pistola in faccia al bullo e mettendolo addirittura in fuga. Un attimo di grande coraggio a cui ne fa seguito un altro di invidiabile maturità, nel quale il ragazzo convince i compari a non approfittare del corpo di un loro coetaneo per guadagnare popolarità e a limitarsi a segnalarlo alla polizia con una telefonata anonima.

    «Eravamo stati via solo due giorni, eppure la città sembrava diversa. Più piccola». Finita l’avventura, si ritorna a casa in silenzio, senza la magia che aveva accompagnato il viaggio di andata ma con qualche consapevolezza in più su se stessi e sul proprio futuro. Stand by Me – Ricordo di un’estate irrompe così nella realtà con un carico di amarezza e verità, davanti al quale è difficile trattenere le lacrime. Senza rendersene conto, Gordie, Chris, Teddy e Vern si separano per sempre.

    «Col passare del tempo, ci vedemmo sempre meno con Teddy e Vern, finché diventarono due facce nella massa. Succede. Gli amici entrano ed escono dalla tua vita come i camerieri di un ristorante», dice Gordie, sbattendo in faccia allo spettatore un momento di doloroso realismo, completato dalla commistione fra la finzione e il vero triste destino di River Phoenix, nell’attimo in cui la figura dello sfortunato attore si dissolve, per rimanere per sempre giovane nei ricordi del protagonista e degli spettatori.

    Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?

    Stand by Me - Ricordo di un'estate

    Con i bambini intorno a lui che giocano spensierati, protagonisti inconsapevoli della ciclicità dell’amicizia e della vita, davanti al computer con cui si guadagna da vivere il prestigioso scrittore Gordon Lachance ricorda l’amico scomparso («Nonostante fossero più di dieci anni che non lo vedevo, so che mi mancherà, sempre») e trova un’epifania che riassume perfettamente il senso di questo capolavoro: «Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha?».

    Si chiude così Stand by Me – Ricordo di un’estate, che fa parte della ristretta cerchia dei film per cui non è eccessivo usare il termine “capolavoro”. Un risultato riconosciuto dallo stesso Stephen King, spesso particolarmente critico sugli adattamenti delle sue opere, che però in questo caso, come raccontato dallo stesso Rob Reiner, al termine di una proiezione privata del film si è allontanato per qualche minuto, per poi tornare visibilmente scosso per complimentarsi col regista con queste parole:

    «È il miglior film mai realizzato tra tutto ciò che ho scritto, il che non dice molto. Ma hai davvero catturato la mia storia. È autobiografico. Tutto ciò che è stato inventato è stato l’espediente della caccia al corpo. Ero lo scrittore e il mio migliore amico era il ragazzo che in realtà mi ha instillato la fiducia necessaria per diventare uno scrittore. Ed è davvero stato ucciso da giovane».

    Stand by Me - Ricordo di un'estate

    Overall
    10/10

    Valutazione

    Rob Reiner firma uno dei migliori adattamenti delle opere di Stephen King, dando vita a uno struggente e indimenticabile racconto di formazione.

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    Cinema indipendente

    The Strong Man of Bureng: recensione del documentario di Mauro Bucci

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    The Strong Man of Bureng

    Il cinema etnografico è un genere glorioso, intrecciato indissolubilmente con la storia della settima arte fin dagli anni ’20 del secolo scorso, grazie al lavoro di maestri come Robert J. Flaherty e a opere come il suo celeberrimo Nanuk l’esquimese, pietra angolare del cinema documentaristico. Un genere che si evolve insieme al mondo, permettendo di raccontare storie lontane sia dal cinema mainstream, sia dalla vita degli spettatori, spalancando così piccole ma fondamentali porte su persone e percorsi esistenziali che meritano di essere portati alla luce. È questo il caso di Essa J. Darboe, ex soldato ONU e rifugiato del Gambia protagonista di The Strong Man of Bureng di Mauro Bucci, presentato nel corso del FESCAAAL 2024 e disponibile su Mymovies One.

    Essa J. Darboe, già al centro del precedente lavoro di Mauro Bucci Hotel Splendid, è un esempio perfetto dell’imprevedibilità della vita e dei paradossi della burocrazia, capaci di distruggere anche le migliori intenzioni. The Strong Man of Bureng ce lo presenta in una fase di relativa stabilità, al termine di un lungo e tortuoso viaggio che l’ha portato dall’Africa alla Finlandia, passando per l’Italia e per un sospirato permesso di soggiorno. Essa J. Darboe costruisce con successo sulle macerie, dando vita a un proficuo business dell’usato fra Europa e Gambia che assicura sostentamento non solo a lui, ma anche alla sua numerosa e poverissima famiglia. Lo vediamo così finalmente sereno, anche se sospeso fra i suoi affetti e un sentimento difficile da definire con la donna che lo ospita e con cui porta avanti i suoi affari.

    The Strong Man of Bureng: la paradossale vita di Essa J. Darboe

    The Strong Man of Bureng

    A stravolgere questo fragile equilibrio è il Covid, che blocca il mondo (Gambia compreso) proprio quando Essa J. Darboe si trova in Africa. Impossibilitato a portare avanti il suo business e allo stesso tempo impotente di fronte alla scadenza del suo visto, l’uomo precipita nuovamente in un inferno fatto di povertà estrema per sé e per i suoi cari, nonché di una misera esistenza in un accampamento nell’attesa che si sblocchi la sua situazione burocratica in Italia.

    Mauro Bucci documenta il peregrinare del protagonista con lucidità e sensibilità, senza mai diventare né moralmente ricattatorio né eccessivamente retorico. ConThe Strong Man of Bureng, il regista ci mette di fronte a una situazione ancora peggiore della povertà estrema e della mancanza di alternative per sopravvivere, quella di chi torna nella medesima situazione di prima proprio nel momento in cui scorge qualche timido raggio di speranza. Un viaggio struggente, reso ancora più doloroso dalle assurdità di un sistema che trasforma le persone in fantasmi apolidi, costretti a rimanere bloccati per mesi nell’attesa del completamento di una pratica semplicissima, che per loro rappresenta però il confine fra la vita e la totale privazione di dignità.

    Una struggente altalena emotiva

    Una parabola totalmente illogica, che Mauro Bucci sottolinea con le sue scelte registiche, tratteggiando l’effimera gioia della famiglia Darboe nel momento in cui, pur in un contesto di povertà, le donne, i bambini e gli altri cari di Essa hanno tutto ciò che gli occorre davvero, cioè l’acqua e un pasto sicuro. La ciclicità della vita del protagonista si ripropone poi nel toccante epilogo, in cui dopo la burrasca torna nuovamente il sereno, sotto forma di una grande festa nel villaggio di Bureng, fra nuove vite, gioiose danze e graditi ritorni. Un’altalena emotiva che ci ricorda l’importanza di ciò che troppo spesso diamo per scontato, narrata con passione da un grande documentarista, che nobilita ancora una volta questo fondamentale genere.

    Overall
    8/10

    Valutazione

    Mauro Bucci firma un fulgido esempio di grande cinema etnografico, che attraverso la paradossale parabola di Essa J. Darboe ci ricorda l’imprevedibilità della vita.

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