Carlotta, Francesca, Guendalina: le borse Habanera prodotte a San Patrignano portano il nome della donna che le ha cucite - la Repubblica

Carlotta, Francesca, Guendalina: le borse Habanera prodotte a San Patrignano portano il nome della donna che le ha cucite

Carlotta, Francesca, Guendalina: le borse Habanera prodotte a San Patrignano portano il nome della donna che le ha cucite
La Habanera Tote Baby è il frutto di un progetto speciale, pieno di senso, il cui valore immateriale è racchiuso nei nomi di chi l'ha realizzata: le ragazze del centro terapeutico di recupero dalle tossicodipendenze di San Patrignano
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Piccole etichette con nomi di donna scritti a mano: Carlotta, Francesca, Guendalina. Passano quasi inosservate tra le sete sgargianti, i pellami colorati e la delicata paglia che, insieme, danno vita alla Habanera Tote Baby, una borsa leggera ed elegante, pensata per i giorni d’estate. Quei cartoncini racchiudono però una storia di solidarietà e riscatto, in cui destini individuali si intrecciano alla vocazione solidale della moda. La Habanera Tote Baby è il frutto di un progetto speciale, pieno di senso, il cui valore immateriale è racchiuso proprio in quei nomi.

Carlotta e Francesca sono due delle sei artigiane che, nel laboratorio di pelletteria della comunità di San Patrignano, realizzano questi accessori di cuoio e tessuti preziosi: quattro varianti di uno stesso modello, nato dalla collaborazione tra Mantero 1902, che ha fornito le sete, e Cuba Lab, un marchio di borse sostenibile impegnato nella formazione di artigiani della pelle. Nell’atelier di San Patrignano - nato nel 2019 grazie alla volontà di Tod’s che ha fornito tecnologia e know how - Cuba Lab e Mantero 1902 lavorano con le ragazze del centro terapeutico di recupero dalle tossicodipendenze. “Siamo un gruppo molto piccolo e molto affiatato”, dice Carlotta, 31 anni, che guida il laboratorio. A breve, però, lo lascerà: da tempo ha concluso il suo percorso e oggi è pronta a tornare nel mondo fuori. Tra pochi mesi, si trasferirà a Pontassieve per lavorare nella manifattura Tod’s, dove è stata appena assunta.

Dentro SanPa, come lo chiamano tutti, il recupero avviene tramite il lavoro, o meglio attraverso la formazione professionale. Imparare un mestiere è un modo per affrontare i propri limiti, ma anche scoprire le proprie inclinazioni e potenzialità, acquisire sicurezza e rendersi autonomi. È successo a Carlotta, che ora parla del suo lavoro di artigiana della pelle con entusiasmo, ma che all’inizio, ammette: “piangevo tutti i giorni in bottega”.

Ed è capitato anche a Francesca, 37 anni, che in comunità è arrivata da appena due anni ed è ancora nel pieno del suo percorso di reinserimento. “Da poco ho cominciato a uscire fuori, per incontrare la mia famiglia”. Quando si accetta di “entrare”, infatti, i contatti con l’esterno vengono azzerati. “Non abbiamo cellulari, né tv, né radio. Viviamo in case da 10-14 persone. Impariamo a convivere con quelli che inizialmente sono degli estranei, a mediare, ad aiutarci a vicenda. Io abito con le altre ragazze della pelletteria e dell’officina tessile”. Sono una piccola parte dei circa mille ospiti della comunità che ogni giorno, in una routine scandita dal lavoro, dividono il loro tempo tra la vita domestica e gli atelier. Oltre al reparto “moda”, ci sono un caseificio, il canile SanPa Dogs per il recupero di animali abbandonati, una cantina di vini, un vivaio, una falegnameria e altri settori formativi. La comunità - che è gratuita - si autofinanzia con il lavoro e con le donazioni.

Il percorso professionale non si può scegliere: quando arrivano, i ragazzi vengono assegnati a un determinato ambito secondo le necessità del momento. Così, a Francesca, due anni fa è capitato l’atelier guidato da Carlotta - ogni gruppo ha infatti un tutor che si occupa di formare i nuovi venuti - e, confessa: “ci ho messo un po’ ad abituarmi. Fuori lavoravo come Os, operatrice socio sanitaria. Ero abituata a un mestiere dinamico. Stavo sempre in piedi, correvo tutto il giorno. Ritrovarmi seduta per più di otto ore mi faceva sentire irrequieta, scontenta”. Piano piano, però, Francesca ha scoperto di saper esercitare l’arte della pazienza e della precisione, trasformandola in una specie di pratica di meditazione, e si è appassionata alla manifattura delle borse, tanto che oggi, quando descrive le varie mansioni che svolge in laboratorio, il suo viso si illumina e lei sorride anche con gli occhi. “Amiamo le borse che confezioniamo, sono le nostre ‘bimbe’”, interviene Carlotta, sguardo limpido e l’impazienza di volare via. SanPa le mancherà quando, tra poche settimane, lavorerà nello stabilimento Tod’s, ma tornerà spesso a trovare amici e volontari, anche perché lì c’è il suo ragazzo. “È il responsabile della falegnameria. Ora viviamo insieme, in una casa per noi due, dentro. Presto però andrò a vivere a Pontassieve, da sola. Con lo stipendio voglio pagare l’affitto e comprarmi una macchina”. Un traguardo quasi inimmaginabile per una persona che, a 25 anni, si è trovata a vivere in strada e che fino a poco tempo fa non poteva avvicinarsi ai suoi fratelli perché “avevano paura di me”. Dice di essere ansiosa, “ma come tutti, in fondo. La vita è fatta di nuovi inizi, è normale avere un po’ di paura”.

Parla di un’ansia buona, come fa anche Francesca, che la sostituirà. Toccherà a lei formare le ragazze nuove che siederanno attorno al tavolo della manifattura, spiegando loro come piegare e cucire la pelle, come intrecciare la seta, come dipingere i bordi. Nella speranza che apprezzino questo mestiere in cui si usano le mani per creare bellezza. E, soprattutto, in cui ogni accessorio è il risultato di uno sforzo collettivo. Perché, come Carlotta e Francesca non smettono di ripetere: “le nostre borse sono il frutto di un lavoro condiviso, non potremmo mai farle da sole”. È questa dimensione corale ad aggiungere valore alla quotidianità, a rischiarare giorno dopo giorno l’orizzonte dei ragazzi che arrivano a San Patrignano. “Da quando sono qui, ho recuperato il rapporto con i miei genitori, con mia sorella. Non parlavamo più, vivevo in un’altra dimensione”, racconta Francesca. Oggi il suo percorso non è ancora concluso, ma lei è qui, presente, viva. In mezzo agli altri.