Occhi di serpente

Occhi di serpente

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Speciale Senza il cinema. Con il cinema.
Incastonato in quegli anni Novanta che videro la piena fioritura del cinema morale di Abel Ferrara, girato tra Il cattivo tenente e The Addiction, Occhi di serpente è un penetrante e doloroso scavo interiore, quasi bergmaniano nel gioco di specchi riflettenti tra il feroce film da camera che Eddie Israel sta girando e le identità che si spezzano fuori dal set. Un’opera teorica e viscerale allo stesso tempo, con protagonista un eccellente Harvey Keitel.

Riflessi del padre (in uno specchio scuro)

Eddie Israel è un regista che sta per iniziare un nuovo film, La madre degli specchi, racconto di una coppia che si sta disintegrando dopo che la moglie ha scelto di rompere il patto di dissolutezza morale e orgiastica che aveva tenuto assieme il matrimonio. Durante le riprese anche i piani tra vita e finzione si disintegrano sia per gli attori che per Eddie che andrà in crisi con la moglie Madlyn. [sinossi]

Incastonato in quegli anni Novanta che videro la piena fioritura del cinema morale di Abel Ferrara, girato tra Il cattivo tenente e The Addiction, Occhi di serpente è un penetrante e doloroso scavo interiore, quasi bergmaniano nel gioco di specchi riflettenti tra il feroce film da camera che Eddie Israel (Harvey Keitel) sta girando e le identità che si spezzano fuori dal set, nella finzione filmica intitolata Occhi di serpente. Non è un caso che il film di Israel si intitoli La madre degli specchi (Mother of Mirrors) e che i piani del percorso narrativo siano tre: la “realtà” in cui vivono in personaggi; il backstage del set in cui il regista viene spesso intervistato per esprimere il suo punto di vista sulla storia che mette in scena; le riprese del film che diventano più vere del vero e a cui viene infatti affidata la chiusura della pellicola. Non esiste cinema senza viscere, senza la vita di chi lo fa, senza i dilemmi di chi lo crea e potremmo dire che il corpus principale dell’opera di Ferrara lo testimonia nella maniera più cristallina. Se le sue collaborazioni con il mitologico Nicholas St. John (che di Occhi di serpente firma soggetto e sceneggiatura) si svilupparono attorno ai fondamenti dell’etica nella ricerca disperata di una ragione che motivi le scelte umane o di una redenzione che le trasfiguri, dopo il passaggio nei corpi di Strauss-Kahn (Welcome to New York) e di Pasolini (Pasolini), Ferrara ha rifondato una poetica che ruota attorno al proprio stesso corpo, sublimato negli ultimi film (Tommaso e Siberia) da quello di Willem Dafoe.

Qui la carne di Keitel disegna una sorta di variazione, o forse un chiasmo, con Il cattivo tenente laddove lì la rivelazione e la morte ponevano fine all’abuso di sé e degli altri perpetuata dal protagonista mentre in Occhi di serpente la perdita completa dei punti saldi, identitari, del regista Eddie lo conduce ubriaco fradicio accanto al cesso di una camera d’albergo in preda al delirio. Eddie è un cineasta famoso, rispettato, un autore. Vive infatti nell’intellettuale New York con la sua famiglia ovvero la moglie Madlyn (Nancy Ferrara) e il figlioletto Tommy cui, prima di partire per il set a Los Angeles, sussurra: “Ciao piccolo, ricorda: sono tuo padre”. A differenza della coppia del suo film, Eddie nasconde alla moglie gran parte di sé, dai tradimenti all’uso di droghe; ne La madre degli specchi la coppia entra invece in violentissima collisione proprio perché la moglie ha deciso di interrompere un patto matrimoniale, dapprima condiviso, fondato sugli abusi di sostanze e sulla promiscuità sessuale. Incarnata magnificamente da Madonna (la cui casa di produzione contribuì alla realizzazione del film di Ferrara, prodotto inoltre da Cecchi Gori), l’attrice Sarah Jennings – una diva seguitissima anche dalle ragazzine – in scena è Claire, moglie che si è convertita addirittura alla religione per porre fine a una serie di azioni che non la rappresentano più e dalla cui memoria si sente umiliata. James Russo interpreta invece l’attore, violento e mezzo tossico, Francis Burns che in La madre degli specchi è Russell, il marito di Claire che si sente tradito dalla moglie con cui aveva condiviso precisi progetti nuziali. I piani tra realtà e film si confonderanno sempre più: Sarah andrà a letto con Burns, poi con Eddie e in scena Burns/Russell la punirà pesantemente stuprandola davvero e non per finta, portando il copione su un livello molto differente di verità. Il cortocircuito che si crea, inesorabile, tra regista e attori diventa carne viva su cui infliggere pesanti colpi.

Eddie sembra “dirigere” l’azione, ma la sua saldezza è solo apparente. Il regista del resto racconta forse la storia interiore del suo matrimonio, lo sdoppiamento persino teorico su cui lui basa le proprie azioni e la giustificazione della propria ipocrisia. Ma quella storia non è quella del suo matrimonio che è, invece, la più meschina, trita, risaputa vicenda di disonestà verso la donna con cui si è sposati. La madre degli specchi è un film claustrofobico, costruito su una dialettica non più ricomponibile in cui nessuno dei personaggi ha veramente ragione poiché da una parte c’è l’amoralità in ogni sua forma (giustificata dal marito con il bisogno di rifuggire gli schemi borghesi), dall’altra una conversione religiosa che affida a un altrove e a un ribaltamento annichilente la responsabilità del proprio vissuto. Nella vita di Eddie non c’è però nessun patto matrimoniale peculiare se non l’accordo più semplice e ovvio della coppia borghese ossia di essere rispettosi e fedeli. Il soliloquio di Eddie con se stesso, ciò che dà vita al suo film, non è il dialogo reale che ha con Madlyn ma lentamente conduce il regista a un disvelamento con la moglie. Mentre gli attori o si fondono con il personaggio (Burns tutto sommato assomiglia a Russell) o iniziano a sentire il peso artificiale della propria rappresentazione sociale (Madonna, immortalata qui all’epoca di Sex e all’apice del successo), paradossalmente Eddie arriva a identificarsi in entrambi i protagonisti di La madre degli specchi. In Russell per la volontà di non mentire circa la ragionevole fondatezza di una vita etica e il disperato bisogno della moglie, in Claire per la ricerca di un cambiamento dopo anni di perdizione senza scopo e la necessità di confessarsi con il partner. Ma la moglie di Eddie è fuori dal film e non è dentro al cinema: vive sulla costa Atlantica tirando su il figlio, è molto comprensiva e paziente con il marito artista, lo sostiene e pensa di essere amata in maniera limpida. È dunque aliena da Eddie e dal suo mondo, dalla sua condotta personale e probabilmente anche dalla comprensione profonda o esistenziale dei suoi racconti cinematografici. Se nella finzione del film nel film c’è una condivisione matrimoniale, una simmetria spezzata che genera un baratro mortale, nella vita di Eddie c’è solo menzogna intima e semmai una verità rivelata al grande pubblico ma tutta interna al cinema. In fondo è proprio il trionfo della vita borghese e dell’artista borghese.

Le riprese del backstage, in cui vediamo Eddie parlare del proprio lavoro e indirizzare gli attori nell’interpretazione, hanno come corollario un inserto tratto dal documentario Burden of Dreams di Les Blank sulle riprese di Fitzcarraldo in cui Werner Herzog dice che dovrebbe smetterla di fare film e rinchiudersi in manicomio. “Quello che faccio è folle, non è quello che un uomo dovrebbe fare nella vita. E sento che anche se dovessi portare la barca sulla montagna e tutti si congratulassero con me dicendomi che sono fantastico, nessuno al mondo riuscirà a farmi sentire felice”. A questa dichiarazione di impossibilità di redenzione attraverso l’arte segue in Occhi di serpente l’ennesima insopportabile spiegazione narcisistica di Eddie, intervistato nel backstage, in cui il regista cerca di darsi un tono, di dare spessore alla propria creazione. Rivedersi dopo le parole di Herzog è un testacoda letale, una condanna ironica e crudele che Eddie si autoinfligge, guardandosi mentre rivela le ragioni personali della storia che ha messo in scena ma senza dichiararle tali (il marito del suo film vorrebbe non aver bisogno della moglie ma ce l’ha e disperatamente), celandosi attraverso la menzogna del cinema. Ferrara racconta così lo smascheramento, l’ipocrisia di un costrutto intellettuale incapace di rivolgere a se stesso la potente intuizione che rivolge allo spettatore. Occhi di serpente è una preghiera, forse, per essere perdonati del fatto che non si possa che falsificare la realtà facendo cinema. O forse per il fatto che creare non comporti necessariamente la forza di essere o divenire. In una delle ultime scene dal set de La madre degli specchi, mentre Eddie incalza Sarah per farle avere una reazione più forte in un dialogo, l’attrice dirà rivolgendosi al personaggio di Russell e allo stesso tempo al regista: “Non puoi sfuggire alle conseguenze delle tue azioni. Voglio che tu faccia qualcosa per difendere le cazzate in cui credi”. La tragica richiesta di coerenza tra arte e vita, tra ciò che si osa solleticare su uno schermo e non si osa fare nella realtà, porta il regista a una tensione che conduce alla confessione: dirà alla coniuge di averla tradita con chiunque e da sempre. Di essersi scopato attrici, truccatrici, chiunque capitasse a tiro, di essersi drogato. Sbattuto fuori di casa, Eddie si ritrova sbronzo in albergo e immagina il fantasma della moglie dirgli le uniche parole sulle quali, probabilmente, può ripensare la propria posizione morale. Parole che fanno da controcanto con il saluto di Eddie al figlio, all’inizio del film (“Ricorda: sono tuo padre”): “Se trovi che la menzogna sia tanto ammirevole, voglio che insegni a nostro figlio a mentire. Se pensi che la droga sia meravigliosa, voglio che tu vada a comprarne per nostro figlio. Se sei convinto che l’infedeltà sia una virtù, voglio che tu vada a prendere una delle tue amiche e la scopi davanti a nostro figlio”. La moglie, unico personaggio che vive un piano di realtà indubitabile, non pare avere l’incrinatura interiore di chi rappresenta se stesso senza essere, ritenendo magari in questo modo di aver consegnato altrove una coerenza di cui non deve più rendere conto nella vita. Il superomismo dell’artista è crocefisso in Occhi di serpente, asfissiante e tetro lavoro sull’ipocrisia del creatore, sulla sua pretesa di superiorità extramorale. Se gli attori si confondono subendo il gioco di specchi creato dal regista, quest’ultimo parrebbe una divinità che presume di potere tutto e di uscirne impunito. Redimendosi Keitel chiede invece un castigo. E nella sua carne, ancor più che nel volto tumefatto per il trucco di Madonna o nella mano realmente sanguinante di James Russo, sono ancora una volta impresse le tracce di una colpa inemendabile, di un gioco inaccettabile, quello di consegnare ai propri figli (e agli spettatori) qualcosa che non si è in grado di maneggiare da sé, i dubbi più atroci esteriorizzati che solo con una dose di coraggio disperato possiamo rivolgere al nostro interno. Ancora una volta per Ferrara bisogna autodistruggersi per essere degni degli interrogativi etici consegnati al cinema.

Russell uccide Claire nel finale de La madre degli specchi che coincide con il finale di Occhi di serpente: in una ricomposizione mortale si riflette la coincidenza tra espressione esteriore e inconscio del protagonista, tra pulsioni e rappresentazione, si annienta lo spazio che le separa e nel quale soltanto vive l’atto creativo, che è dunque un esilio da sé, un’alienazione. La preghiera laica di Ferrara è un ammorbante film girato con fluidità noir e nevrotica, un andirivieni su tre livelli di auto-rappresentazione che deflagrano in una disgregazione necessaria e non rinviabile, con la quale Eddie deve annientare tutto se vuole risorgere, ritornare padre, ricominciare a cannibalizzare, ritentare un nuovo inizio. E soprattutto un altro film.

Info
Il trailer di Occhi di serpente.

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