Cavour e l'unità d'Italia - Fondazione Camillo Cavour Santena

Cavour, dall’indipendenza all’unità d’Italia

di Pierangelo Gentile (Università di Torino)

Quei primi mesi del 1859 furono di lavoro spasmodico per Cavour. A Bianca Ronzani, l’amore che lo avrebbe accompagnato fino agli ultimi giorni, scriveva: «Ho lavorato come un martire, sono stremato di forze. Ho fede intera nell’esito finale dell’impresa, ma vi sono a vincere difficoltà molte, immense, terribili». L’impegno firmato con la Francia aveva necessità di essere “direzionato” per provocare il casus belli. Le parole e le intenzioni non erano sufficienti. Con il passare dei giorni poi, i venti di guerra si erano andati man mano affievolendo. La Russia addirittura si era fatta portavoce nel contesto delle potenze europee della proposta di un congresso che risolvesse pacificamente la questione italiana. Un’eventualità che, se fosse andata in porto, avrebbe inficiato tutta la politica fino ad allora intessuta dal Conte. Cavour era conscio della responsabilità che aveva assunto pubblicamente. Arrivò al punto di fare testamento a favore del nipote Ainardo, erede universale, e di prendere in considerazione, ancora una volta, il suicidio. Poi, inaspettato, giunse il colpo di scena.
Le sue provocazioni all’Austria non erano andate a vuoto: al posto di attendere il disarmo imposto da Napoleone III dei corpi di volontari dislocati al confine orientale – i Cacciatori delle Alpi, affidati al comando del generale Garibaldi – il governo austriaco aveva lanciato l’ultimatum. Era il 23 aprile 1859. Cominciava la Seconda guerra d’indipendenza, evento che per tre mesi fece concentrare nelle mani del Conte, oltre alla Presidenza del Consiglio, il ministero degli Esteri, degli Interni, della Guerra e della Marina. Per chi fu testimone di quei memorabili giorni, come il segretario di gabinetto Isacco Artom, Cavour fu in preda quasi a un delirio di onnipotenza: si era fatto portare un letto al ministero della Guerra, «e la notte, avvolto nella sua veste da camera, egli correva dall’uno all’altro ministero, per dar ordini relativi ora all’artiglieria, ora alla corrispondenza diplomatica, talora infine alla polizia».
Da Torino seguì febbrilmente l’avanzata dell’esercito franco-sardo, non senza urtarsi con il re, geloso delle proprie prerogative guerriere messe in discussione dal primo ministro. Montebello, 12 maggio; Palestro, 31 maggio; Magenta, 4 giugno. Queste sono le tre battaglie che aprirono all’esercito alleato, l’8 giugno, le porte di Milano. Sembrava una parata trionfale, sebbene avesse il suo prezzo di sangue; Garibaldi con i suoi Cacciatori avanzava a Nord occupando Varese, Como, Brescia e Salò; più a Sud, poco lontano dalle rive del lago di Garda, nelle località di Solferino e San Martino, il 24 giugno 1859 si consumava una delle più sanguinose battaglie del Risorgimento: 2400 morti e 12.000 feriti tra le fila dell’esercito alleato; 2300 morti e 10.000 feriti tra gli austriaci. Il ginevrino Jean Henri Dunant, testimone degli scontri, rimase sconvolto dalla violenza dei combattimenti e dall’insufficienza dei servizi sanitari; quel giorno pose le basi per l’istituzione della Croce Rossa Internazionale. Mancava poco a sconfiggere definitivamente l’imperatore d’Austria: le truppe asburgiche erano ormai strette dalla tenaglia franco-sarda attestata via terra sulla linea del Quadrilatero (le fortezze di Peschiera, Verona, Mantova, Legnago) e via mare a poche leghe da Venezia.

Fu a quel punto che avvenne l’imprevedibile colpo di scena; senza consultare l’alleato, Napoleone III, l’11 luglio 1859, si incontrava a Villafranca (località poco distante da Verona) con Francesco Giuseppe d’Asburgo per firmare un armistizio. Per Cavour si trattò di un fulmine a ciel sereno. Erano intervenuti alcuni fattori che avevano determinato quella decisione francese: le pressioni dell’opinione pubblica d’Oltralpe, scettica nei confronti di un conflitto in cui non vedeva alcun reale vantaggio; il timore, non così infondato, di un’invasione austro-prussiana sul confine renano; infine, una situazione del tutto imprevista creatasi nella Penisola, che scompaginava gli accordi presi a Plombières: le insurrezioni liberali scoppiate a Firenze, Modena e Parma, che avevano costretto i sovrani alla precipitosa fuga e dato vita a governi provvisori, decisi a chiedere l’annessione incondizionata al Regno di Sardegna.
Cavour si precipitò al quartier generale di Monzambano per dissuadere Vittorio Emanuele dall’apporre la sua firma a un trattato ritenuto «ignominioso». Fu tutto inutile. L’incontro avvenne all’insegna di una tensione che si tagliava con il coltello. Nigra ne fu testimone: Cavour ebbe un’esplosione d’ira nei confronti del sovrano. Vittorio Emanuele, deciso a dar corso ai risultati concreti fino ad allora ottenuti, lo fece allontanare. A Cavour non rimase altra scelta che rassegnare le dimissioni. Amareggiato, sfiduciato, fisicamente spossato per gli sforzi sostenuti negli ultimi mesi, si ritirò a Leri, deciso a restare ai margini degli eventi. Il suo governo fu sostituito da una compagine presieduta dal generale La Marmora, ma la cui colonna politica era Urbano Rattazzi, ministro dell’Interno; l’avvocato, grazie all’appoggio del re, era riuscito a consumare la sua personale vendetta nei confronti del Conte che qualche anno prima lo aveva rimosso dal governo. Ma il ministero passato alla storia come La Marmora-Rattazzi, del tutto inadeguato ad affrontare le sfide che si prospettavano, ebbe vita breve: sei mesi soltanto. Nel momento in cui a livello europeo si cominciò a ragionare di un possibile congresso internazionale che rimettesse ordine nelle cose d’Italia, era inevitabile che tornasse in auge il nome di Camillo Cavour. Il congresso non fu mai convocato; urgeva comunque richiamare il Conte, unico interlocutore autorevole in grado di risolvere i tanti problemi rimasti insoluti dopo l’annessione della Lombardia al Regno di Sardegna.

Il 16 gennaio 1860, grazie anche al sostegno del rappresentante inglese a Torino, sir James Hudson, Cavour ebbe nuovamente l’incarico di governo. Si lanciò nell’agone politico, con più impeto di prima. Artom lo ricorda: Cavour lavorava indefessamente fino alle tre del mattino, concedendosi due sole ore di sonno; alle prime luci dell’alba riprendeva con le udienze più delicate, quelle che dovevano svolgersi lontano da occhi indiscreti. Così, un primo grande risultato fu che riuscì a negoziare con Napoleone III la cessione di Nizza e della Savoia a fronte delle annessioni dell’Italia centrale. Cosicché, l’11 e il 12 marzo 1860 si tennero i plebisciti in Emilia e Toscana secondo la formula: «Unione alla monarchia costituzionale del re Vittorio Emanuele, ovvero regno separato»; in Emilia votarono in 426.006 per l’unione; 756 per un regno separato; in Toscana, 366.571 per l’unione e 14.925 per il regno separato. La conferma della sua saldezza politica Cavour l’ebbe durante le elezioni del 25 marzo 1860, le prime del regno esteso alle nuove province. Per lui fu un trionfo. Fu eletto in ben otto collegi: Torino, Milano, Genova, Firenze, Bologna, Brescia, Vercelli e Intra. Cominciò così a raccogliere i frutti dei suoi successi; ma si espose anche a pesanti critiche per la cessione delle province d’Oltralpe alla Francia, siglata con il trattato del 24 marzo. Era consapevole che, specialmente la cessione dell’italofona Nizza, gli avrebbe arrecato un grosso danno nell’opinione pubblica. A Nigra scriveva: «La vicenda di Nizza rappresenta per me una ripetizione di quella del matrimonio della principessa Clotilde. Non mi esporrò più a una terza faccenda del genere»; Vittorio Emanuele, per quella faccenda, tornò ai ferri corti con il suo primo ministro, proprio durante la visita ufficiale a Firenze. Proferì a Cavour parole tanto «villane», che il conte lo «mandò al diavolo». Poi, il Conte gli scrisse una lettera che è un capolavoro d’orgoglio: «Maestà, dopo le parole che Voi ieri pronunciaste, qualunque ministro avrebbe dovuto dare a quest’ora le sue dimissioni. Ma io non sono un ministro qualunque, perché sento che ho ancora troppi doveri verso la Dinastia e verso l’Italia […]. Pertanto rimango».

Garibaldi, nato a Nizza nel 1807, mandò i suoi strali per la decisione presa dal governo. Ma l’Eroe dei Due Mondi, in quella primavera del 1860, era destinato a destare ben altre preoccupazioni nel Conte. Il generale decise di mettersi a capo della ripresa democratica della rivoluzione. Sottobanco lavorarono due esuli siciliani a Torino: Rosolino Pilo e Francesco Crispi. Convinsero Garibaldi a mettersi a capo di una spedizione che colpisse il regno dei Borbone nel suo punto più debole: la Sicilia, terra che si era sempre dimostrata riottosa al dominio di Napoli. Nella notte tra il 5 e il 6 maggio 1860, dal porto di Quarto, a Genova, partivano i due piroscafi Piemonte e Lombardo carichi di un migliaio di uomini vestiti con l’inconfondibile camicia rossa. I Mille, appunto: tutti volontari, provenienti da molte regioni (in prevalenza del Nord), di diversa estrazione sociale (metà borghesi e intellettuali, metà operai e artigiani), veterani delle campagne del ’48 e del ’59, armati alla bell’e meglio. Cavour era naturalmente informato della spedizione, ritenuta «fatto gravissimo», ma «che non si poteva né si doveva impedire», così com’era «apertamente favorita dall’Inghilterra, e mollemente contrastata dalla Francia». Sbarcato Garibaldi a Marsala, Cavour rimase in una posizione attendista. A Ricasoli, governatore della Toscana, scriveva: «Che [Garibaldi] faccia guerra al Re di Napoli non si può impedire. Sarà un bene, sarà un male, ma era inevitabile. Garibaldi trattenuto violentemente sarebbe diventato pericoloso all’interno. Ora cosa accadrà? È impossibile prevederlo. La Francia lo contrasterà? Non lo credo. E noi? Il secondarlo apertamente non si può, il comprimere gli sforzi individuali in suo favore nemmeno; abbiamo quindi deciso di non permettere che si facciano nuove spedizioni dai porti di Genova e di Livorno; ma di non impedire l’invio di armi e munizioni, purché si eseguiscano con una certa prudenza. Non disconosco tutti gli inconvenienti della linea mal definita che seguiamo, ma pure non saprei segnarne un’altra che non ne presenti dei più gravi e più pericolosi».
La forza di Garibaldi, proclamatosi dittatore a Salemi in nome di Vittorio Emanuele, si vide in battaglia: Calatafimi; Palermo; Milazzo; Messina. In poco tempo l’isola fu sotto il controllo del generale. A vedere questa incontrastata avanzata della democrazia, molte cancellerie europee furono allarmate. Cavour dunque si trovò costretto a rivedere la propria strategia. Qualcuno arrivò a consigliargli di dare battaglia in Parlamento, di proclamare l’annessione della Sicilia togliendo l’iniziativa alle camicie rosse; ma Cavour conosceva tutti i pericoli di una tale mossa, per lui e per l’Italia: avrebbe salvato il suo prestigio, ma perduto l’Italia. Preferiva perdere la popolarità e la reputazione, ma non la Causa in cui aveva fino ad allora creduto. Era conscio della grandezza di Garibaldi: «Se domani venissi in lotta con Garibaldi, potrei pure avere dalla mia parte la maggioranza dei vecchi diplomatici, ma l’opinione pubblica europea sarebbe contro di me, e avrebbe ragione, perché Garibaldi ha reso all’Italia i più grandi servigi che un uomo potesse renderle: ha dato agli italiani la fiducia in se stessi, ha dimostrato all’Europa che gli italiani sapevano battersi e morire sui campi di battaglia per riconquistare una patria».

Cavour cercò comunque di riprendere l’iniziativa: fallita la possibilità di provocare un moto a Napoli, decise, con la raccomandazione di Napoleone III «a fare in fretta», di prevenire le mosse del generale che, liberata Napoli il 7 settembre 1860, puntava ormai a Roma. Un’eventualità, la conquista della Città Eterna da parte dei democratici, che avrebbe seriamente messo in imbarazzo il governo piemontese verso la Francia (che dal 1849 aveva lasciato un suo contingente a difesa del papa), e fatto perdere il primato nazionale all’idea moderata. Così, l’11 settembre Cavour ordinava al generale Manfredo Fanti di invadere lo Stato della Chiesa. La campagna regia nelle Marche e in Umbria fu lampo: il 18 settembre l’esercito piemontese ebbe la meglio sbaragliando i papalini a Castelfidardo; il 29 settembre capitolava la fortezza di Ancona. Aggirato il Lazio, si trattava ora di “riportare alla ragione” Garibaldi, impegnato nella battaglia del Volturno, con le truppe di Francesco II e Maria Sofia di Baviera asserragliate a Gaeta e Capua. Ma ottobre era il mese del Conte: lavorò assiduamente in parlamento per far passare la legge per le annessioni delle province dell’Italia meridionale. Fu così che il 21-22 ottobre 1860 si tennero i plebisciti al Sud con una formula che non lasciava alternative: «Il popolo vuole l’Italia una e indivisibile, con Vittorio Emanuele, re costituzionale e i suoi legittimi discendenti». Con una votazione pubblica, fatta in piazza su un palco, con due urne, una per il sì, l’altra per il no, i risultati non poterono che essere strabilianti: in Sicilia votarono 432.053 per il sì, e 667 per il no; nel Mezzogiorno continentale 1.302.064 per il sì, 10.312 per il no. Con l’incontro di Teano tra Vittorio Emanuele II e Garibaldi, avvenuto il 26 ottobre 1860, il pericolo democratico era scongiurato: salutando il monarca piemontese quale “primo re d’Italia”, il generale – salutato a sua volta come “migliore amico” del re – consegnava l’Italia ai Savoia e di riflesso a Cavour. Questi bandiva prima i plebisciti, il 4 novembre, nelle Marche e nell’Umbria; poi riprendeva il momento politico, con le prime elezioni a livello nazionale, che si tennero il 27 gennaio 1861. Ancora una volta qualcuno lo aveva tentato a proclamare una “dittatura” per il pericolo di qualche sorpresa dalle urne. Ma le parole perentorie da lui pronunciate non lasciavano dubbi: «Credo che con un Parlamento si possano fare molte cose, che sarebbero impossibili a un potere assoluto. […] Non mi sono mai sentito così debole come quando le Camere sono chiuse. Del resto non potrei tradire la mia origine, rinnegare i principi di tutta la mia vita. Sono figlio della libertà, è a lei che devo tutto quello che sono».
La fede nella libertà gli diede ragione, anche se furono solo in 240.000 a scegliere (su un Paese che ora contava 22 milioni di abitanti) i 443 rappresentanti della nazione. Tra questi Giuseppe Verdi, eletto nel collegio di Borgo San Donnino, invitato dal Conte a contribuire «al decoro del Parlamento dentro e fuori l’Italia». Altra gloria nazionale, dopo Manzoni, nominato senatore il 29 febbraio dell’anno precedente. Il 18 febbraio 1861, nella Camera provvisoria approntata nel cortile di Palazzo Carignano, oggi non più esistente, si apriva l’VIII legislatura, la prima dell’Italia Unita. Un mese dopo, il 17 marzo, veniva promulgata l’ultima legge del regno di Sardegna, la n. 4671: Vittorio Emanuele II assumeva per sé e i suoi successori il titolo di Re d’Italia. Era l’apogeo della grandezza di Cavour: l’Italia era compiuta.

Camillo Cavour, primo ministro del Regno d’Italia, nel suo studio