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Le otto montagne Copertina flessibile – 8 novembre 2016


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Le otto montagne
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Dall'editore

Le otto montagne

Paolo Cognetti

La montagna non è solo neve e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita. Un passo davanti all'altro, silenzio, tempo e misura.

Lo sa bene Paolo Cognetti, che tra una vetta e una baita ambienta questo potentissimo romanzo. Una storia di amicizia tra due ragazzi - e poi due uomini - cosí diversi da assomigliarsi, un viaggio avventuroso e spirituale fatto di fughe e tentativi di ritorno, alla continua ricerca di una strada per riconoscersi.

«Si può dire che abbia cominciato a scrivere questa storia quand'ero bambino, perché è una storia che mi appartiene quanto mi appartengono i miei stessi ricordi. In questi anni, quando mi chiedevano di cosa parla, rispondevo sempre: di due amici e una montagna. Sí, parla proprio di questo».

Paolo Cognetti

L'autore

  • Paolo Cognetti (Milano, 1978) ha realizzato per minimum fax la serie Scrivere / New York, nove puntate su altrettanti scrittori newyorkesi, da cui è tratto il documentario Il lato sbagliato del ponte, viaggio tra gli scrittori di Brooklyn. La sua passione per New York si è concretizzata in due guide: «New York è una finestra senza tende» (Laterza 2010) e «Tutte le mie preghiere guardano verso ovest» (edt 2014). Per Einaudi ha curato l'antologia «New York Stories» (2015) e ha pubblicato il romanzo «Le otto montagne» (2016).

Descrizione prodotto

Dalla seconda/terza di copertina

Paolo Cognetti (Milano, 1978) ha realizzato per minimum fax la serie Scrivere / New York , nove puntate su altrettanti scrittori newyorkesi, da cui è tratto il documentario Il lato sbagliato del ponte , viaggio tra gli scrittori di Brooklyn. La sua passione per New York si è concretizzata in due guide: N ew York è una finestra senza tende (Laterza 2010) e Tutte le mie p

Dalla quarta di copertina

Pietro è un ragazzino di città, solitario e un po' scontroso. La madre lavora in un consultorio di periferia, e farsi carico degli altri è il suo talento. Il padre è un chimico, un uomo ombroso e affascinante, che torna a casa ogni sera dal lavoro carico di rabbia. I genitori di Pietro sono uniti da una passione comune, fondativa: in montagna si sono conosciuti, innamorati, si sono addirittura sposati ai piedi delle Tre Cime di Lavaredo. La montagna li ha uniti da sempre, anche nella tragedia, e l'orizzonte lineare di Milano li riempie ora di rimpianto e nostalgia. Quando scoprono il paesino di Grana, ai piedi del Monte Rosa, sentono di aver trovato il posto giusto: Pietro trascorrerà tutte le estati in quel luogo "chiuso a monte da creste grigio ferro e a valle da una rupe che ne ostacola l'accesso" ma attraversato da un torrente che lo incanta dal primo momento. E li, ad aspettarlo, c'è Bruno, capelli biondo canapa e collo bruciato dal sole: ha la sua stessa età ma invece di essere in vacanza si occupa del pascolo delle vacche. Iniziano così estati di esplorazioni e scoperte, tra le case abbandonate, il mulino e i sentieri più aspri. Sono anche gli anni in cui Pietro inizia a camminare con suo padre, "la cosa più simile a un'educazione che abbia ricevuto da lui". Perché la montagna è un sapere, un vero e proprio modo di respirare, e sarà il suo lascito più vero: "Eccola li, la mia eredità: una parete di roccia, neve, un mucchio di sassi squadrati, un pino". Un'eredità che dopo tanti anni lo riavvicinerà a Bruno.

Dettagli prodotto

  • Editore ‏ : ‎ Einaudi; 1° edizione (8 novembre 2016)
  • Lingua ‏ : ‎ Italiano
  • Copertina flessibile ‏ : ‎ 199 pagine
  • ISBN-10 ‏ : ‎ 880622672X
  • ISBN-13 ‏ : ‎ 978-8806226725
  • Peso articolo ‏ : ‎ 380 g
  • Dimensioni ‏ : ‎ 14.5 x 2.2 x 22.5 cm
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Paolo Cognetti
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Recensioni migliori da Italia

Recensito in Italia il 3 aprile 2024
Definitelo uno scrittore di montagna e vedrete il Cognetti arrabbiarsi come una iena. E ne ha ben donde. Dice il nostro:
Ragazzi, ma voi i miei libri li leggete come Dio comanda o, come sospetto, li sfogliate senza criterio? Buona senz’altro la seconda, ma non preoccupatevi, vi do io adesso qualche dritta che vi chiarirà le idee.
Punto primo. Dei miei libri si deve dire ciò che diceva il mio amico Rabelais dei suoi, e cioè che bisogna rompere l’osso e succhiarne il sostanzioso midollo. Fuor di metafora, amici cari, voi non dovete rimanere alla superficie delle mie storie, non dovete limitarvi ad estasiarvi di fronte all’indubbio talento con cui vi propino le mie ambientazioni, si tratti delle faticose scarpinate alle quali mio padre mi costringeva alle falde del Monte Rosa ovvero dei panorami mozzafiato della mia Val d’Ayas, non basta che andiate in solluchero dinnanzi alla mirabile sapienza con cui vi dipingo lo squallore del fondovalle della Valsesia oppure che lanciate gridolini di soddisfazione davanti alla perfetta resa cinematografica di alcune parti del racconto (alludo alla vicenda del cane selvatico che fa strage di suoi simili per poi finire trucidato anche lui).
Conoscete senz’altro tutti il significato del termine filigrana. Ebbene, voi dovete mettere a fuoco la filigrana che si intravvede dietro alle mie pagine. Così facendo, vi accorgerete che quello che mi sta davvero a cuore e che mi preme raccontare non sono gli scenari alpestri tipo salta il camoscio tuona la valanga. Non sono né il Cervino formato grappa del Mike nazionale, né le alte quote da cui sgorga l’acqua levissima altissima e purissima di messneriana memoria. Altri sono i territori che a me interessa esplorare, altre le vette che mi attraggono, altri gli abissi che mi terrorizzano. A me interessa addentrarmi nei legami, spesso sotterranei e pertanto di difficile accesso, che mi legano o che mi hanno legato ai membri della mia famiglia, in particolare a mio padre buonanima, il padre costituisce la vera e propria chiave di volta per capire la mia esistenza e, di conseguenza, la mia narrazione e il mio mestiere di scrittore. E’ mio padre, meglio, sono l’analisi dei miei rapporti con lui e delle difficoltà che, come accade spesso ai figli, ho incontrato per rendermi autonomo da lui, che conferiscono coerente unità ai miei romanzi. (Tra parentesi io sono un inguaribile fan di Aristotele e della sua regola aurea dell’unità di azione). A questo proposito consiglio ai miei venticinque lettori di far precedere la lettura di Giù nella valle da quella di Le otto montagne.
Ma veniamo a bomba ed entriamo nel merito.
Ma davvero credete, amici cari, che il titolo “Le otto montagne” mi sia imputabile? Davvero pensate che un tale obbrobrio letterale semantico sia farina del mio sacco e non provenga piuttosto dal mulino del mio Editore? Buona evidentemente la seconda.
Ora converrete con me che il titolo di un romanzo deve avere un minimo di fascino letterario, deve catturare l’attenzione del lettore, deve far leva sul suo desiderio di sollevarsi dalla spesso faticosa realtà quotidiana per planare verso le sconfinate praterie della felicità. E’ una questione di marketing. Il titolo deve essere indizio della bontà del prodotto, il lettore consumatore deve convincersi ad acquistare quel tomo perché qualcosa nel titolo lo persuade della validità della scelta.
Di là dal fiume e tra gli alberi, Per chi suona la campana, Addio alle armi, Pian della Tortilla, Uomini e topi, I pascoli del cielo, La capanna dello zio Tom, Racconti straordinari, Viaggio al centro della terra, Fiorirà l’aspidistra, Vedrò Singapore?, La stanza del vescovo, Il sergente nella neve, La fattoria degli animali, Il conte di Montecristo, Gita a Tindari, Il mulino del Po, La ragazza di BUBE, Papillon, Cronache marziane, La regina d’Africa, Nome d’arte Doris Brilli, Sofia si veste sempre di nero, Sentieri sotto la neve, La felicità del lupo, Il campo del vasaro, L’ultimo dei Mohicani sono esempi di titoli accattivanti, la cui forza attrattiva mi pare risieda in una certa solida concretezza semantica, che suggerisce una pari solidità e concretezza del volume.
Intendiamoci, non vi è nulla di matematicamente certo in quello che dico, qui siamo in un campo, quello della suggestione commercial pubblicitaria, che non appartiene all’universo delle scienze esatte ma piuttosto confina con quello dei messaggi subliminali.
Detto questo non vi è ombra di dubbio che un titolo quale “Le otto montagne” possieda il fascino evocatore di un bilancio societario o di un inventario notarile. Mi vengono in mente rassegne numeriche dall’indiscutibile charme ragionieristico quali I dieci comandamenti, Le sette virtù cardinali, I sette vizi capitali, Le dieci piaghe d’Egitto e via elencando.
Ad essere sotto accusa è l’uso dell’articolo determinativo seguito dall’aggettivo numerale cardinale che dovrebbero qualificare un sostantivo, montagne, estremamente generico e anonimo, e che lasciano il lettore imbarazzato e disorientato. Si chiede il lettore: di quali montagne stiamo parlando? Il termine spazia dagli Appennini alle Ande, dalle Alpi agli Urali, dalle Cevennes alla catena himalayana, dai Pirenei agli ALLEGANI. E perché le montagne sono otto e non dieci o cinquanta?
Ben altra potenza evocativa riveste il titolo “La montagna incantata”. La curiosità del lettore è stimolata dall’aggettivo qualificativo, che fa riemergere dai meandri della memoria echi di fiabe che lo riportano indietro nel tempo: l’aspettativa è che il libro compia il miracolo, annullando il trascorrere del tempo, di consegnarlo ad una eterna fanciullezza.
Io non ho letto il romanzo di Mann e può darsi che, leggendolo, le mie aspettative sarebbero disattese. Certo è che il clamoroso successo della mia penultima fatica non è dipeso dal suo titolo bensì dalla intrinseca bontà del prodotto oltre che, se mi permettete, dal forte richiamo pubblicitario rappresentato dalla mia persona e dagli indubbi exploit dei miei precedenti romanzi.
“La settima montagna” come titolo sarebbe stato più seduttivo, anche perché avrebbe riecheggiato il capolavoro bergmaniano Il settimo sigillo e il romanzo di evasione Il settimo papiro.
Insomma, amici cari, qui non stiamo a disquisire dell’elefante nel corridoio. E’ vero che esistono sempiterni capolavori della letteratura con un titolo privo di qualunque attrattiva. Ma nessun editor con un minimo di sensibilità commerciale si sognerebbe oggigiorno di pubblicare La divina commedia o La Gerusalemme liberata con siffatti titoli.
Ma passiamo adesso alla mia ultima fatica, costituita appunto dal romanzo Giù nella valle.
Non sfuggirà certo ai miei venticinque milioni di lettori il palese richiamo contenuto nel titolo ad una celeberrima canzone degli alpini risalente alla prima guerra mondiale, ma che fa ancora prepotentemente parte dell’immaginario collettivo canoro degli alpini . Eccone alcune strofe:
Giù nella valle
c’è un’osteria
l’è l’allegria
l’è l’allegria
giù nella valle
c’è un’osteria
l’è l’allegria
di noi Alpin.
E se son pallida
nei miei colori
non voglio dottori
non voglio dottori
e se son pallida
come una strassa
vinassa vinassa
e fiaschi de vin.
Giù nella valle
c’è un punto nero
l’è il cimitero
l’è il cimitero
giù nella valle
c’è un punto nero
l’è il cimitero
di noi Alpin.
E se son pallida
nei miei colori
non voglio dottori
non voglio dottori
e se son pallida
come una strassa
vinassa vinassa
e fiaschi de vin.
A dirla tutta, in realtà la canzone recita Là nella valle e non Giù nella valle, ma per piacere fatemi la cortesia di non sottilizzare troppo. Su, giù, qui, là, lì sempre di avverbi di luogo si tratta e poi guardiamo alla sostanza del discorso. Siamo in presenza di una geniale strategia di marketing. I lettori consumatori che hanno avuto, ed hanno, la fortuna di fare il servizio militare nel corpo degli Alpini si contano ancora a milioni. Per ognuno di essi il termine Giù nella valle è un riflesso condizionato di tipo pavloviano che li catapulta immediatamente in un passato fatto di amicizie virili, marce, di muli, di omeriche bevute e di altrettante omeriche cantate. Lo stimolo a fiondarsi in libreria per accaparrarsi il prezioso cimelio della memoria sarà irrefrenabile, facendo schizzare alle stelle le quotazioni delle mie royalties. Va da se che rivendico questo titolo come esclusiva farina del mio sacco, a differenza di quello su cui vi ho intrattenuto sopra che, ripeto, disconosco in toto.
Vi è poi un aspetto che giudico di grande interesse e sul quale voglio attirare la vostra attenzione.
Sia nella canzone che nel mio romanzo si respira un’atmosfera profondamente dionisiaca, ma di segno opposto.
La canzone parla di un’osteria che fa rima con allegria, parla del vino che è non solo fonte di allegria ma anche un toccasana, un rimedio per curare i mali del corpo e dello spirito. La potenza salvifica del vino ha la meglio sul pallore fisico ma anche sul pallore dell’animo, entrambi destinati a riacquistare colore e vivacità.
In parte diverso è il ruolo delle osterie, del vino e, in genere, dell’alcool, nel mio romanzo. Le osterie, trattorie, ristoranti, locande e bettole sono sì luogo di ritrovo e di socializzazione, dove peraltro il rito della bevuta trascende sovente in atti di cieca e insensata violenza. L’assunzione di alcool in quantità industriali e condotta con metodo meticoloso è la nota caratteristica e identitaria dei due fratelli protagonisti della storia.
Alfredo, il più debole dei due, quello al quale ho assegnato il ruolo un po’ bohemien di bello e dannato, si stordirà a tal punto da compiere un tentativo di omicidio assolutamente gratuito, tra l’altro nei confronti di un suo amico, la cui unica spiegazione risiede nello stato di totale ottundimento causato da un mix micidiale di gin e prosecco.
Ma anche Luigi, il fratello buono, al quale ho assegnato un posto di guardia forestale tutore della legalità soprattutto ambientale, è un convinto seguace del dio Dioniso.
Va peraltro aggiunto che con l’aiuto di Dioniso i due riusciranno comunque a superare le difficoltà caratteriali di instaurare un rapporto positivo tra di loro e saranno in grado di manifestarsi reciprocamente un simulacro di stima e di affetto.
Poi mi preme evidenziare che nella canzone degli alpini è presente un altro elemento che ritroviamo altresì nel mio romanzo.
Parlo della morte. Nella canzone la morte è rappresentata dal cimitero che raccoglie le spoglie dei soldati caduti in guerra.
Nel romanzo la morte fa la sua apparizione in molteplici occasioni.
Fin dall’esordio muoiono otto cani (e dagli con la cabala dell’otto!) assassinati da un loro collega, forse un incrocio con un lupo, assatanato e desideroso di sfogare sui suoi simili la rabbia accumulata in corpo, rabbia che trova probabilmente origine nelle sevizie e maltrattamenti cui è stato sottoposto.
Di ognuno descrivo il decesso con dovizia di particolari, sembra quasi che io provi un qualche morboso piacere nel rendicontare queste morti.
Descrivo poi la morte del killer ad opera di un branco di cacciatori e anche qui non mi risparmio i particolari.
Ma la morte che nell’economia del romanzo riveste una rilevanza particolare è la morte del padre dei due fratelli, Grato, che si suicida sparandosi il fucile da cacciatore in gola.
Anche in Le otto montagne vi è un padre protagonista. E’ un padre invadente, egoista, preoccupato unicamente di gareggiare con se stesso e con gli altri per il gusto di arrivare primo in cima alle vette. E’ un padre che il protagonista di quel romanzo mal sopporta, ma che un malinteso senso di devozione figliale costringe a rispettare e ad assecondare.
In Giù nella valle, questo padre finalmente si toglie di mezzo, libera i figli della sua ingombrante presenza e i figli possono finalmente respirare. In particolare Luigi riuscirà a dare una positiva svolta alla sua esistenza, supportato dalla gradevole e benefica presenza della moglie Elisabetta, che lo renderà padre di un bel maschietto, e colla quale ricomincerà una nuova e forse appagante esistenza nella casa di montagna ereditata dal padre, che provvederà a ristrutturare.
Diversa la sorte di Alfredo, condannato ad una esistenza di perpetuo fuggiasco latitante.
Per concludere, dirò, “pappagallando” Flaubert, che sia Le otto montagne che Giù nella valle c’est moi.
Quando poco sopra consigliavo di leggere i due romanzi uno di seguito all’altro volevo dire questo: nel primo il protagonista si muove un po’ alla cieca, a tentoni. Pietro cerca disperatamente di annullare le barriere che lo dividono dal padre, ma senza successo. E’ così che cerca un surrogato di padre, o di fratello maggiore, nella figura di Bruno, col quale stringerà una amicizia solida e inossidabile, fino alla morte dell’amico. Si tratta peraltro di un rapporto senz’altro autentico ma che, nella sua essenza simbiotica, evidenzia un rapporto di dipendenza psicologica di Pietro da Bruno.
Per contro, in Giù nella valle Luigi diventa adulto, finisce per non avere più bisogno né di padri, né di fratelli, né di amici. La stella polare che da allora in avanti lo guiderà sarà una donna, Betta, e la prospettiva di diventare a breve padre.
Leggo pertanto in entrambi i romanzi una filigrana di tipo psicoanalitico.
Le montagne, come potete vedere, rivestono pertanto un ruolo decisamente da comparsa e non da protagonista.
Il primo che si azzarderà a darmi dello scrittore di montagna, giuro che lo diseredo.
Ma voglio concludere questo ameno florilegio di sproloqui con una confessione.
In realtà io sono perfettamente consapevole che la montagna non ha mai avuto finora una grande fortuna nella storia della letteratura, non ha mai praticamente funzionato come set di particolare successo.
Gli autori la cui Musa alberga sulle innevate vette sono rarissimi e ho qualche difficoltà ad individuarne qualcuno di qualche spessore.
C’è il vecchio buon Rigoni con le sue cronache di alpino in guerra sulle montagne della Valle d’Aosta e dell’Albania, c’è qualche passo del buon vecchio Ernst che va a sciare in Svizzera, c’è il caro buon vecchio Buzzati e la sua fortezza Bastiani arroccata in montagna ma in verità qui a rubare la scena non è tanto la montagna in quanto tale, quanto il deserto che la circonda. Vi sono i raccontini del buon Giacosa ambientati in Valle d’Aosta, ma sono talmente sbiaditi e privi di charme che è meglio non parlarne.
Le colline, Pavese insegna, devo dire che hanno riscosso maggiore successo e sono decisamente più gettonate.
E se passiamo dalla prosa alla poesia le cose non vanno poi meglio, anzi. A parte il camoscio che salta e la valanga che tuona non vedo altri grandi exploit.
Rimanendo in tema di valanghe, la montagna ha avuto invece maggior successo nella cinematografia, soprattutto in quella catastrofista, con la pletora di valanghe assassine. Per non parlare del vecchio Herzog, beninteso su di un piano decisamente più alto.
Per contro, volete mettere invece la popolarità di cui mari e oceani hanno goduto e continuano a godere in letteratura ?.
A cominciare dal buon vecchio Omero e dalla sua Odissea ambientata nel Mediterraneo.
E che ne dite di:
Il vecchio e il mare, L’isola misteriosa, L’isola del tesoro, I mari del sud del vecchio Jack, buona parte dei romanzi del buon vecchio Salgari e del buon vecchio Cecil Scott Forester col suo capitano di lungo corso Hornblower, per non parlare di Moby Dick , di Conrad, di Melville, di Ventimila leghe sotto i mari e via veleggiando ?
Il mare è evidentemente più fotogenico rispetto alla montagna, attira di più il pubblico.
Il vecchio caro buon Sigmund spiegherebbe che forse il mare, e soprattutto la mer, rimandano alla madre (mère), all’inconscia nostalgia del grembo materno e via disquisendo.
Tanto premesso, non stupitevi se il mio prossimo romanzo deciderò di ambientarlo sull’isola d’Elba.
P.S.
Voi tutti accaniti frequentatori di blog social fessbuc e amenità simili sapete che uno dei miei Virgili, lo mio principale duca e lo mio autore, il padre letterario di cui mi compiaccio di essere figlio, erede e fedele esecutore testamentario è il buon vecchio Jack LONDON. Sapete anche che al secondo posto figura il caro Ernst. Sapete anche, e se non lo sapete, vi aggiorno io, che entrambi hanno lasciato questa valle di lacrime suicidandosi.
Hemingway sparandosi col fucile da caccia, LONDON come ultimo atto di una vita passata a nuotare nell’alcool. In somma, un po’ la fine che ha fatto il padre di Luigi e che probabilmente è destinato a fare suo fratello Alfredo.
Buona sera a tutti.
Claudio GARD
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Recensito in Italia il 29 aprile 2024
Non sempre di semplice lettura, ma mi è piaciuto tanto. Peccato non sapere la fine di Bruno, il montanaro doc.

"La montagna non è solo neve e dirupi, creste, torrenti, laghi, pascoli. La montagna è un modo di vivere la vita."

Chi c'è nato, c'è abituato. Chi in qualche momento della sua vita ci arriva, ci si abitua. La montagna avrà sempre un grande richiamo per tutti, perché montagna significa vita, natura, pace, equilibrio, resistenza. La montagna e il deserto sono 2 opposti, opposti che però richiamano la primordialitá, qualcosa di cui c'è un grande bisogno in questa vita di corsa e rincorsa alle cose sbagliate.
Recensito in Italia il 18 luglio 2017
Le otto montagne, credo sia stato uno dei libri più discussi di quest’anno – e non solo perchè Paolo Cognetti ha vinto il Premio Strega 2017. L’ho letto a maggio, questo libro, e mi ha lasciato nell’anima una sensazione strana, contesa tra emozioni opposte. Ho preferito procrastinare una recensione su questo libro proprio per questo, anziché darne un giudizio imparziale e istintivo – ho preferito sorvolare anche sull’onda dell’entusiasmo della vittoria dello Strega. Ma ieri sono andata in montagna, sulle mie montagne, e credo sia venuto il momento di dirvi cosa ne penso – non che abbia una qualche rilevanza, si intende.

Il problema di fondo è che non esistono le montagne. O perlomeno: non esiste una definizione unica di montagna. Le montagne sono luoghi di vita o di vacanza, luoghi indifferenti o luoghi che ci restano nel cuore – ma c’è ben poco di razionale in tutto questo. Non esistono le montagne, perché ognuno di noi ha il suo modo di vivere le montagne – un modo unico che difficilmente può essere confinato in una frase, un modo che spesso è complicato condividere anche con le persone che ci sono già vicine.

E giustamente, Cognetti in questo libro parla delle sue montagne, del suo modo di vivere la montagna – e forse in sottofondo ci sembra di sentire una vocina che dice “Vabbè, ma voi che non l’avete vissuta così, cosa ne potete capire?”. Cognetti racconta di un mondo di montagne deserte e di anime solitarie, inerpicato alle pendici del Monte Rosa. Cognetti parla di un’amicizia che dura trent’anni, di una famiglia che si allarga e si spezza mantenendo sempre il legame indissolubile con la montagna. Cognetti ci parla di estate, di mucche, di neve e di baite, e in fondo al cuore ci piacerebbe prendere una macchina e raggiungerlo lì, nei dintorni di Grana, a rincorrere due ragazzini che giocano lungo un torrente.

Ma la montagna, dicevo, è una esperienza personale – e arrivo in fondo al libro pensando che io ho perso tutto il mondo di Cognetti, ma lui ha perso tutto il mio. Perché, in fondo, in quelle montagne solitarie io non mi ci ritrovo: per me la montagna è un mondo di persone, una comunità forte e unita tanto d’estate quanto d’inverno – ed è natura, sì, ma è natura addomesticata e resa accessibile a tutti, un continuum di verdi e azzurri che non viene inframezzato dalle costruzioni delle città. Le mie montagne sono vive, sono un brulicare di gente allegra, sono piene di attività volte a valorizzare il territorio e a far spendere ai turisti quei soldi che sono indispensabili per mandare avanti la baracca e superare l’inverno. Perché la montagna da sola non sta in piedi: serve il turismo, serve l’attività, servono soldi per consentire alla gente di vivere, e di arrivare alla prossima estate. Le montagne, abbandonate a loro stesse, diventano uno spettacolo impervio e inospitale – e l’uomo ne fugge, l’uomo scende in pianura quando non riesce a vivere sulle montagne. E per questo io, abituata a amare quelle montagne probabilmente molto turistiche ma sicuramente vissute e valorizzate, io in questo racconto non mi ci ritrovo.

Dall’altro lato, però, in Cognetti troviamo personaggi descritti con la stessa ruvidezza delle montagne, con se fossero scolpiti in un ghiacciaio e ne emergessero i tratti poco per volta, man mano che la neve si scioglie. In Cognetti troviamo uomini senza padre e padri che non sono mai stati figli; e troviamo figli che fuggono, e che poi si ritrovano sulle orme dei padri. E le donne, sì: le donne funzionano da collante, limano gli spigoli e ammorbidiscono questi uomini ruvidi – sempre per scelta però, mai per sottomissione, e mai sentendosi chiuse in gabbia. In tutto il libro scorre una vena di libertà: nessuno è davvero ingabbiato tra quelle montagne, e chi ci resta lo fa per scelta, lo fa perché isolarsi sulle montagne è il suo modo per cercare la libertà.

Splendida la narrazione, dunque, splendidi i personaggi e lo stile – anche se non parla del mio mondo, anche se queste non sono le mie montagne. Ma andando oltre il racconto in sé, tramite la splendida scrittura di Cognetti possiamo trovare nuove domande, possiamo chiederci se il sentiero tracciato sia quello giusto, e possiamo scegliere quale sia la nostra prossima montagna da scalare. Perché non serve avere un paio di scarponi ai piedi: la montagna è una filosofia di vita, è l’idea che serva fatica per arrivare in cima, ma che poi ne valga la pena.

"Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia. E che non resta che vagare per le otto montagne per chi, come noi, sulla prima e più alta ha perso un amico."
42 persone l'hanno trovato utile
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Recensito in Italia il 16 maggio 2024
Bella narrazione, rilegatura sufficiente, consegna veloce.
Recensito in Italia il 1 dicembre 2023
La storia non mi ha appassionato più di tanto l ho ttovata un pochino piatta
2 persone l'hanno trovato utile
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Recensito in Italia il 4 maggio 2024
L'ho regalato a mio figlio e lo ha molto apprezzato.
Recensito in Italia il 21 aprile 2024
Ti fa rivivere le giornate di trekking. Riesci ad immedesimarsi nelle vicende dei protagonisti....letto in 3 giorni....

Le recensioni migliori da altri paesi

S Mays
5,0 su 5 stelle Beautifully written - evocative of life in mountain purity
Recensito negli Stati Uniti il 1 ottobre 2021
I admired the portrait of Bruno, the mountain boy - in contrast to the narrator, son of an intellectual professor who, nevertheless, felt at his greatest ease and peace in the mountains.
Client d'Amazon
5,0 su 5 stelle Les huit montagnes
Recensito in Belgio il 11 febbraio 2024
Le récit simple et touchant d'un gamin des montagnes et l'autre de Milan qui se retrouvent chaque été pour de aventures de gamins. A l'âge adulte, leurs vies en miroir va révèler ses limites et sa face cachée.
Un récit qui laisse le coeur serré et des images plein la tête
Laura
4,0 su 5 stelle READ THE BOOK AFTER THE MOVIE
Recensito in Germania il 26 marzo 2023
WISHED TO READ THE BOOK AFTER HAVING SEEN THE MOVIE: VERY WELL WRITTEN, STORYLINE SIMILAR TO MOVIE.
mpf
5,0 su 5 stelle parfait
Recensito in Francia il 12 maggio 2022
Parfaitement satisfaite de mon achat.
Serena Giammattei
5,0 su 5 stelle Intenso
Recensito nel Regno Unito il 10 ottobre 2021
Bellissimo libro adoro sia la scrittura sia la profondità dei sentimenti descritti, in più amo le montagne un libro perfetto