Franca Maranò, riflessioni sulla Donna Senza Età - segnonline
Franca Maranò, Senza titolo, 1976. Tela medievale, filo di lana nera e filo di lana rosso, tela di coton 67 × 97 cm

Franca Maranò, riflessioni sulla Donna Senza Età

Franca Maranò (1920-2011), è stata inserita all’interno dell’elenco degli “artisti dimenticati”, abbandonata all’oblio per molti anni. Adesso viene riscoperta, grazie alla pioniera attività della Galleria Gracis di Milano, in collaborazione con la Galleria Richard Saltoun Roma-Londra, entrambe molto aperte a sfide di valorizzazione.

Sembra essersi interamente compiuto il percorso di un’artista che con l’oblio e la marginalità, ha combattuto tutta la vita. Franca Maranò, artista barese, infatti, ha lavorato in un’Italia meridionale tradizionalmente imbevuta di cultura patriarcale e in cui la voce femminile ha fatto più fatica a farsi ascoltare, a farsi comprendere e a ottenere i supporti necessari per farsi conoscere. 

Rivoluzionaria nel lavoro e nella vita, l’artista viene sempre sostenuta dal marito, Nicola De Benedictis, che non soltanto comprende subito il suo valore, ma contribuisce a creare in lei quel dubbio fecondo che porta all’evoluzione la sua arte. 

Nei primi anni Sessanta crea una serie di dipinti astratti; ma saranno le sue ceramiche ricche di elementi arcaici e primordiali che come dice l’artista stessa, “mi fecero ritornare a vivere e sorridere ancora”.  Rubava dalla terra i suoi segreti umori imprigionandoli nell’argilla, vedeva la forza del creato nello smalto rosso e nei grigi il significato del tempo infinito. Lavorò anche su lamine di alluminio e intonaci. Il segno continuava a svilupparsi, inciso, graffiato, esso stesso materico. L’informale prese il sopravvento per esprimere ciò che la figura non poteva arrivare a rappresentare. I lavori di Franca Maranò ci accompagnano a sentire ciò che vediamo. Sono le immagini che astratte e intoccabili, prendono il sopravvento su di noi. Ci direzionano, attraverso la materia, verso le emozioni, verso la percezione di forze completamente astratte. 

Furono i movimenti femministi che spinsero l’artista a utilizzare elementi provenienti da un’attività ancestralmente femminile: l’ago e il filo. Armi con qui la donna nel corso dei secoli, tesseva la sua stessa gabbia, la sua stessa prigione e angolo di tortura. Fendenti con cui tentava di annebbiare, dimenticare e reprimere le sue pene cercando di tenere la mente occupata. Franca Maranò, insieme a Maria Lai, Rosemarie Trockel e Yoko Ono, è stata una delle pioniere dell’utilizzo tessile nell’arte degli anni Settanta, come simbolo di libertà e riscatto femminile. L’artista stessa dichiarò che l’ago e il filo sono stati fondamentali: “anche al fine di soddisfare la mia esigenza di operare al di fuori della cultura del privilegio e senza più legami di attinenza con i codici del già fatto e con i tradizionali mezzi pittorici”. 

Ecco che nascono essenziali lavori osservabili negli spazi della Galleria Gracis, dove su tele medievali, fatte di lino e canapa, completamente spoglie, l’artista tesse trame e intrecci che appaiono vie intricate, tendenti a uscire fuori dai tessuti. In alcuni casi, questi percorsi vengono interrotti e diventano vicoli cechi, in altri ancora si osservano paralleli uno all’altro, fino a scontrarsi completamente. 

È il 1970 quando fonda con altri cinque artisti (Umberto Baldassarre, Mimmo Conenna, Sergio Da Molin, Michele Depalma e Vitantonio Russo) la Galleria Centrosei, primo polo dedicato all’avanguardia a Bari. Ed è qui che espone all’interno di ben nove personali, le sue recenti ricerche. In vent’anni di attività questo spazio accolse nomi quali Sol LeWitt, Luigi Ontani, Pier Paolo Calzolari e Joseph Beuys, dedicando particolare attenzione anche alle ricerche fotografiche di Giorgio Ciam, Giorgio Colombo, Plinio Martelli e Franco Summa. La galleria, inoltre, si apre immediatamente alle donne artiste e negli anni esporranno in quegli spazi: Mirella Bentivoglio, Lucia Romualdi, Tomaso Binga, Simona Weller, Renata Boero e Ketty La Rocca

Chiudono la mostra allestita dalla Galleria Gracis, due “Abiti Mentali”. L’artista stessa scrisse: “Con la maturità ho sentito il bisogno disperato di cogliere negli occhi degli altri un segno di comunicazione, e ho sperimentato un tipo di lavoro che rimandi a un costume nuovo, libero da archetipi, lisi da strutture strumentali e da paure ancestrali, che ci faccia sentire uniti in questo nostro destino di mortali: così è nato l’«Abito mentale» che in seguito ho aperto con chiari riferimenti figurali”. Appesi al muro come stendardi, necessitano di essere indossati per attivarsi. Dei sai dentro i quali celarsi, annullarsi e reprimere se stesse. Un tema, quello del corpo della donna, che come sottolinea il comunicato stampa della mostra, è ancora di una triste e tragica attualità. 

Franca Maranò, si sentiva una “donna senza età”, nella continua ricerca di se stessa e del suo linguaggio, dividendosi tra l’essere artista, gallerista, moglie e madre di famiglia. Ha riversato la sua costante insoddisfazione nella materia che nel corso degli anni è andata a costituire il suo lavoro, trovando nelle sue fragilità, forza e speranza.