La finestra sul cortile Recensione

La finestra sul cortile, recensione del capolavoro eterno di Alfred Hitchcock

08 aprile 2020
5 di 5

Genio e umiltà s'intrecciano nella Finestra sul cortile di Hitchcock, uno dei suoi film più centrati, ma anche uno dei più belli della storia del cinema.

La finestra sul cortile, recensione del capolavoro eterno di Alfred Hitchcock

Costretto in sedia a rotelle da una frattura dovuta a un'imprudenza, il fotoreporter Jeff (Stewart) passa un'afosa estate spiando i vicini nel cortile, allietato dalle visite dell'altolocata Lisa (Kelly), innamorata di lui, e della sarcastica fisioterapista Stella (Thelma Ritter). A un certo punto però si convince che nel palazzo di fronte possa essere successo qualcosa di terribile... è solo la sua immaginazione?
Bisogna comprendere noi che scriviamo di cinema: è normale considerare La finestra sul cortile (1954) di Alfred Hitchcock un capolavoro senza tempo, perché il suo approccio è così sperimentale e coraggioso, da attivarci quelle derive di lettura dell'immagine che molti temono. Sì, parliamo di quei "pipponi" che uno dei gioielli di sir Alfred (forse IL gioiello) attiva in automatico. Forse non sono la maniera migliore di rendere omaggio a questo film, però ci perdonerete se almeno partiamo da quelli. Naturalmente nel testo ci sono spoiler: se per sventura ancora non avete visto La finestra sul cortile, è più importante vederlo ora, immediatamente, che leggere le nostre righe.

Ci sono due modalità di ripresa in La finestra sul cortile. All'interno dell'appartamento di Jeff c'è la normale dialettica cinematografica di campi, controcampi, movimenti di macchina leggeri, mentre la visione dell'esterno è "costretta" dalla visione limitata di Jeff, quindi è irrigidita nel suo punto di vista: in campo lungo o totale, a distanza, oppure in potenti riprese col tele, che corrisponde all'obiettivo che Jeff monta sulla sua macchina fotografica. La finestra sul cortile è cinema nel cinema, perché Jeff - uno che non a caso lavora con l'immagine - è il nostro tramite nella storia ma è anche un "secondo regista", col risultato che condividiamo con lui l'azione di scegliere cosa guardare e come inquadrarlo. Non è poco, specie perché in due casi Alfred riesce a costruire suspense proprio fornendo a noi spettatori un improvviso vantaggio di visione che Jeff non ha: una prima volta non nota una donna che esce dall'appartamento di fronte in piena notte, perché sta dormendo, una seconda volta nel climax non si accorge che Thorvald è già uscito e sta venendo proprio da lui. Quando la condivisione si spezza, il nostro naturale senso di protezione per il protagonista viene centuplicato. Perfetto.
Scegliendo di non riprendere ciò che è fuori con la normale dialettica cinematografica, Hitchcock priva lo spettatore delle sue certezze, torturandoci con una distanza che ci impedisce di rassicurarci con un dialogo interamente intellegibile. Cosa più sadica, in molti momenti di tensione rinuncia al commento musicale, che negli anni Cinquanta ma anche oggi fornisce una chiave emotiva nodale (meritata la nomination all'Oscar per il miglior suono, curato da Loren L. Ryder, molto più importante della musica di Franz Waxman). Accenniamo poi, senza approfondire, all'eterna interpretazione voyeuristica del mezzo cinematografico, che qui viene declinata attraverso l'azione vera e propria appunto di un "guardone", come sentenzia Stella. La malizia hitchcockiana e la filosofia del linguaggio possono andare d'amore e d'accordo.

Ok, abbiamo discusso delle cose meno importanti, ora parliamo di Grace Kelly e James Stewart. Intuizione geniale o meno nella messa in scena, La finestra sul cortile non esisterebbe senza di loro e senza il gioco a cui danno vita. Il copione di John Michael Hayes, pur nominato all'Oscar, non funzionerebbe con un casting diverso (vale anche per i comprimari) e senza l'intelligente ironia di sir Alfred: la rischiosa premessa, in cui un uomo continua a rifiutare l'attenzione di quella che fu e probabilmente rimane tra le donne più belle del mondo, è credibile solo perché i rifiuti arrivano dal Buon Senso Americano personificato, James Stewart. Se Hitchcock avesse scelto al suo posto Cary Grant, nessuno avrebbe creduto alla ritrosìa di Jeff, avremmo pensato a una sua pianificata manipolazione per risultare più seducente, facendo esasperare Lisa. Stewart è da sempre sinonimo di candida intraprendenza e senso civico, assenza di ambizione personale ma massima speranza nel contributo individuale per un'utopica convivenza civile. Effettivamente per un "eroe di tutti i giorni" come lui, Grace Kelly è un po' troppo, ma il genio è lì: anche per noi spettatori medi Grace "è troppo", quindi le quattro mura del monolocale, altrimenti claustrofobico, si spalancano verso orizzonti degni del più grande film epico hollywoodiano. Non servono grandi scene di massa: basta l'idea che la divina Lisa svegli Jeff baciandolo, in soggettiva. E che quindi baci noi, in una delle inquadrature più celebri di tutta la storia del cinema.

C'è infine però qualcosa di ancora più forte di tutto questo, una constatazione che scavalca l'analisi semiotica, scavalca la lettura storica del cast, scavalca persino il mix di suspense e commedia (senza che i due registri si annullino a vicenda!). Abbiamo parlato della peculiare modalità di ripresa del mondo esterno a quello di Jeff, "ingessata", è il caso di dirlo. Fate però caso a un momento magistrale: la scena in cui viene scoperto il cane assassinato. Per un breve attimo, Hitchcock riprende la reazione della ballerina Miss Torso e della malinconica Miss Cuore Solitario seguendo la classica grammatica filmica, da angolazioni libere, portando la cinepresa da loro, sconvolte e con le lacrime agli occhi. Certo, farà qualcosa di simile ancora nel finale, velocemente, quando Jeff sta soccombendo a Thorvald, perché ovviamente non possiamo più avere il suo punto di vista e in fondo il "film" è finito, quello vero e quello che Jeff stesso ha ripreso per se stesso. Ci sta, ma perché prima quel paio di inquadrature "scorrette" nella scena del cane? Me le spiego così: di fronte al soccombere dell'innocenza, quando l'emotività di un film chiama, anche la più geniale delle intuizioni di messa in scena deve saper farsi da parte.
Il genio vero è nel sapere quando vale la pena contraddirsi.



  • Giornalista specializzato in audiovisivi
  • Autore di "La stirpe di Topolino"
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