Ambient 2: The Plateaux Of Mirror - Brian Eno & Harold Budd - recensione

Storia essenziale della musica elettronica

 

VIII. Eno e la rivoluzione non-musicale

 

Decenni di diatribe si sonno consumati sulla questione più nota nell'ambito della musica moderna: più grandi gli americani o gli inglesi? Ci vorrebbe un eccesso di presunzione per sperare di sciogliere il nodo di Gordio, un'intuizione coraggiosa mirata a far pendere uno dei due piatti della bilancia sulla base di un supposto merito, una millantata dotazione. Non che la presunzione non abbia a che fare col mondo della critica musicale, ma in una disamina senza né arte né parte come questa, basterà constatare a mero scopo di cronaca che l'Inghilterra si è limitata ad avere in più Brian Eno.

Eno non è stato solo il rielaboratore di una nuova veste del rock, un eclettico musicista e polivalente prestatalento, ma è stato anche e soprattutto un esteta, una figura istrionica in grado di sapere inventare una nuova condizione di approccio alla musica nella controversa era del rock dei '70. Proprio in omaggio al brit-rock degli Who e dei Pink Floyd, dà alla luce Brian nella prima metà dei '70 una preziosa sequela di lavori musicali ove sulla base di un costante uso dell'elemento elettronico mescola rock, avanguardia e contaminazione etnica. Ciò che ne risulta è una forma rudimentale di electro-rock, il primo esempio effettivo di rock dall'impostazione tradizionale ma dalla strumentazione innovativa e atipica: "Taking Tiger Mountain By Strategy" (1974), "Another Green World" (1975) e "Before And After Science" (1977) compongono un encomiabile trittico in cui capolavori come "True Wheel", "Backwater", "King's Lead Hat" e "I'll Come Running" tradiscono una nuova lungimirante concezione del pop-rock, una nuova caratterizzazione della musica ricreativa attraverso sintetizzatori e tastiere elettroniche. E' in questo senso Brian Eno uno sperimentatore geniale, un musicista capace di rinnovare un genere partendo da quelle basi che ne hanno costituito il fondamento teorico, un artista in grado, nella sostanza, di legare al proprio nome le diramazioni di sorta di un intero contenitore musicale. In una talentuosa intuizione mistica Brian Eno, giusto un anno dopo l'ultimo capolavoro di rock sintetico che è "Before And After Science", è in grado di rimettersi in discussione cambiando totalmente registro. E' il 1978 quando, ispirato dalla lectio di Erik Satie, dà alle stampe il primo lungimirante esempio di quella che lui stesso definisce "musica ambient", il monolitico "Music for Airports", sinfonia sorda in quattro movimenti per piano, sintetizzatore e campionamento vocale. E' un'opera di importanza monumentale, un granitico opus elettroacustico attraverso cui viene teorizzata la nuova veste di approccio alla materia musicale: come lo stesso Eno afferma nelle note dell'album, la musica per aeroporti è una musica da concepirsi come background ambientale, una "tinta" in grado di arricchire i corredi spaziali generalmente stigmatizzati dalle normali produzioni musicali, un oggetto privo di attributi emotivi e patetici, non percepibile attraverso un particolare livello di attenzione se non quello personale a seconda del grado di interesse in essa speso. La musica ambientale è nella sostanza un oggetto da "sentire", e non da "ascoltare", da percepire in uno spazio tanto grande da non poter concepire un ascolto ad hoc, un aeroporto che è al contempo luogo fisico e spazio mentale. E' la vera e propria rivoluzione dell'approccio alla materia musicale, una nuova teoria in grado di ispirare folte pletore di interpreti degli anni '80 e '90, tutti coloro che si siano dedicati a generi quali elettronica da intrattenimento, chill-out, ambient house. L'uso dell'elettronica, tanto caro a Eno, si esplica nell'uso del piano elettrico e del synth (nel quarto movimento viene utilizzato un ARP 2600), mirabili exempla di un'esigenza, quella del musicista britannico, di ricorrere alla descrizione di acquerelli ambientali principalmente attraverso manipolazioni sintetiche. Il progetto ambient annovererà presto altri tre capitoli: "The Plateaux Of Mirror" scritto insieme al genio minimalista di Harold Budd, "Day Of Radiance" e "On Land"; di questi solo il secondo apparterrà poco al disegno elettronico di Eno, prestandosi alla ricca strumentazione personale del musicista americano Laraaji, collaboratore e coesecutore del progetto.

"The Plateaux Of Mirror" continua di fatto il discorso iniziato con "Music For Airports", indulgendo a rappresentazioni più melodiche e strutturate in grado di prendere parzialmente le distanze dall'uniformità ambientale del primo lavoro. Harold Budd è un sapiente cesellatore di suoni, un artista raffinato capace di forgiare piccoli haiku strumentali sospesi tra surreale e reale, memore della struggente lezione onirica di quel "The Pavilion Of Dreams" che quattro anni prima fu docile e mirabile esempio di musica subcoscienziale. "First Light" e "An Arc of Doves", dalla struggente bellezza, esprimono in una cifra prettamente minimalistica espressioni personali e raccolte, sorgive frugali che riconducono l'ascolto ad un'esperienza minuziosamente individuale. La musica ambientale di Eno si ridefinisce attraverso l'elemento emotivo, miscelando la base acustica del piano alla consueta manipolazione elettronica in grado di sporcare e dilatare spazialmente un suono elementare. La trama meta-melodica di "Above Chiangmai" e "Not Yet Remembered" riconduce chiaramente alla musica per aeroporti, nell'indulgenza a quelle inserzioni vocali e cellule minimali tanto care a Eno, ed attraverso la parata cosmicheggiante di "Wind In Lonely Fences" eziandio s'accede alle intuizioni che saranno proprie dell'iperuranico "On Land". "Failing Light", nel chiudere il florilegio iniziato puntualmente con "First Light", si appresta a definire il quadro, dando il la a quello che sarà il terzo capitolo della ambient music, l'"acustico" "Day Of Radiance". E', come detto, il più atipico dei quattro capitoli, sebbene squisitamente riempitivo e ambientale, al pari e più dei precedenti lavori: eseguito dall'artista americano Laraaji, è un lavoro performato attraverso le versioni elettroniche di alcuni strumenti a corda quali zither e dulcimero; l'impronta di Eno è qui presente solo a livello di produzione, e l'effetto complessivo, benché ancora magnificamente incentivato dall'innovazione elettronica, è sensibilmente acustico. In questo senso l'opera spezza il ritmo sordo dell'ambientazione metafisica di Eno, profilandosi invece come lungo mantra strumentale di ispirazione orientale.

Di tutt'altro piglio è infine "On Land", capitolo conclusivo dell'opera ambientale del britannico, cupa e mormorante descrizione di un paesaggio brulicante di suoni sottocutanei. Ancora una volta è il synth l'elemento chiave, la cucitura composta tramite cui vengono legate poche note di basso, accenni di fiati trasfigurati e musica concreta. In "On Land" Eno accede quindi alla descrizione più fedele della ambient music, registrando sul nastro i rumori che l'ambiente stesso produce: il fruscio del vento, il ronzio degli insetti, il gracchiare delle cornacchie. E' la lezione di Stockhausen e Boulez tradotta in musica concepita come arredamento, l'ulteriore dimostrazione di una cultura musicale, quella di Eno, capace di contemplare svariati e multiformi linguaggi. E' l'esasperazione definitiva di un percorso che ha appena trovato compimento, un excursus che muovendo dalle definizioni concettuali di "Music For Airports" è giunto prima all'espressionismo di "The Plateaux Of Mirror", poi alla trascendenza di "Day Of Radiance", infine alla musica concreta di "On Land".

Attraverso il genio versatile di Brian Eno si è concretizzata la veste ambientale dell'elettronica, l'utilizzo della musica come esperienza di non ascolto e di spazio psichico. E' un percorso alternativo senza eguali, in grado di determinare un'esperienza unica e imitabile nella storia della musica contemporanea. Artisti come Orb e Aphex Twin sapranno farne tesoro, ma questa è già un'altra storia...


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