LA TRILOGIA DELL’APPARTAMENTO DI POLANSKI – 1

REPULSION di ROMAN POLANSKI (1965)

La casa, l’uomo e la psiche.

I tre elementi che Polanski pone al centro della sua opera visionaria si pongono, nella normalità, quali vertici di un triangolo armonicamente coesistenti tra di loro. 
Io posso pienamente realizzare ogni attimo della vita, all’interno della mia casa, inteso come prolungamento artificiale dell’alveo materno simbolo della sicurezza spezzata dalla nascita, alla sola condizione che la mia psiche possa amalgamarsi con gli altri due elementi. Ma se questo non avviene, l’alveo può drammaticamente mutarsi nel mio personalissimo inferno.

Carole (Catherine Deneuve), estetista, soffre di una forte nevrosi con la quale rigetta ogni rapporto con l’altro sesso. I lunghissimi silenzi, lo sguardo assente, la sua perseverante riservatezza e timidezza nei confronti degli uomini, sono sintomi di un deficit probabilmente esistente dalla nascita e mai affrontato. Nei confronti della sorella Helene, con la quale condivide l’abitazione, mantiene un rapporto caratterizzato dalla forte gelosia della libertà di quest’ultima e soprattutto del rapporto con il suo uomo, Ian. Identica chiusura relazionale Carole ha con John, un uomo innamorato di lei, ma che non riesce a comprendere il suo atteggiamento ostile.

La palese criticità psichica, di cui il regista ci offre una lenta, ma incisiva evoluzione, si trasferisce nelle quattro mura domestiche, le quali, trasformatesi in un corpo vivente, proiettano fisicamente le fobie inconsce di Carol. 
Le crepe reali tendono immaginificamente ad allargarsi sempre di più, uomini appaiono allo specchio, altri, uscendo dalle stanze o nascosti nel letto, la violentano. E le stesse mura rincarano materialmente la dose di quella perversione sessuale solo presente nella mente di Carole, toccata e bloccata da varie braccia che compaiano improvvisamente dal tetro corridoio, in una scena, sicuramente la più bella del film, ma probabilmente anche seminale per le produzioni cinematografiche a seguire.

La casa, da alveo, da cantuccio sicuro per la fragilità di Carole, gli “restituisce” l’ossessione, materializzandola, e quindi espandendola e penetrandola nel suo inconscio. E quando Carole, durante i dieci giorni nei quali resta a casa da sola perché la sorella è andata fuori con Ian, ucciderà l’amico ed il padrone di casa, entrati in quella casa con intenzioni diametralmente opposte, non farà nient’altro che concretizzare le sue paure eliminandone le immaginarie cause.

L’opera di Polanski eleva la figura di Carole a simbolo psicotico, ma inabissandola quasi esclusivamente in uno spazio chiuso, alienandola anche dai frivoli costumi borghesi in cui vive, divisi dalle chiacchiere di uomini e donne che si accusano vicendevolmente, anche separatamente, di approfittare gli uni dagli altri dei rispettivi sentimenti.

Senza ombra di dubbio, l’incredibile interpretazione di Catherine Deneuve sublima l’intero percorso fobico ed onirico del regista, relegando gli altri attori a mere comparse. Biondissima, algida, assente, prende su di sé il pesantissimo onere di trasferire sullo spettatore una nevrosi ossessiva che lentamente erode la propria volontà ma senza cedimenti sul piano estetico.

Le altre due eccellenze del film fanno il resto: una fotografia in bianco e nero magistrale, ma soprattutto una colonna sonora capace di saldare le lunghe pause e silenzi che celano, dietro una porta chiusa, lo scricchiolio dei pavimenti e del soffitto, gli squilli del telefono, le paure di Carole e le nostre.