La tragica grandezza di Gorbačëv - Treccani - Treccani

Michail Sergeevič Gorbačëv è stato una delle grandi, complesse e tragiche figure della storia del XX secolo. Su questo gli studiosi convergono a prescindere dal giudizio, critico o ammirato, che ne danno dell’azione politica a partire dal tentativo, fallito, di riformare  (e salvare) l’Unione Sovietica. Di riformare un esperimento, sociale e politico, che quando Gorbačëv giunse infine al potere era già entrato per molti aspetti nella sua fase terminale. Con un’economia centralizzata e di piano dai tassi di crescita sempre più modesti; una crescente dipendenza dai crediti occidentali; una classe dirigente gerontocratica; una presenza internazionale sempre più legata alla capacità di offrire hardware militare e non un modello di sviluppo e di modernità che a lungo aveva alimentato la forza mitopoietica globale dell’URSS; e una dipendenza dalle sue risorse naturali che negli anni precedenti degli shock petroliferi aveva occultato le sue fragilità strutturali. Un gigante solo all’apparenza – lo storico John Gaddis lo paragonò a un dinosauro – destinato in ultimo all’estinzione.

Una fine che Gorbačëv provò ad evitare con riforme coraggiose e spesso incoerenti, con uno sforzo – parziale ma senza precedenti – di liberare il Paese dalla soffocante cappa autoritaria che ne aveva segnato la storia, con un rinnovamento della sua leadership che creò spaccature forti e resistenze frequenti, soprattutto tra i falchi di un apparato militare e industriale ancora centrale nello Stato sovietico. E lo fece con iniziative di politica estera quelle sì straordinarie e in larga misura propedeutiche al superamento di una nuova fase di estrema tensione nella guerra fredda e nei rapporti con gli Stati Uniti. È sul terreno appunto delle relazioni internazionali che si può misurare l’importanza, e per molti aspetti la grandezza, di Michail Gorbačëv, che cercò di modificare alla radice gli assiomi di fondo della dottrina di sicurezza dell’URSS e con essi la natura stessa della guerra fredda. Una trasformazione, questa, fondata su tre pilastri fondamentali.

Il primo fu rappresentato dall’idea che per nessuno, nemmeno per le due grandi superpotenze nucleari, esistessero scorciatoie unilaterali per preservare la propria sicurezza. Che questa era di tutti o non era. Che meccanismi di sicurezza collettiva dovessero essere perseguiti e creati. I primi anni Ottanta avevano visto il rilancio della competizione bipolare – una sorta di “seconda”, ancorché breve, guerra fredda alcuni commentatori la definirono all’epoca – centrata su una nuova corsa agli armamenti, la riaffermazione negli Stati Uniti di Reagan degli schemi ideologici e della retorica della prima guerra fredda, e il ritorno di una paura, quella dell’Olocausto nucleare, che l’epoca precedente della Distensione aveva in larga misura anestetizzato. Gorbačëv rispose mettendo al centro della sua visione politica l’idea che le armi nucleari avessero creato una forma ineludibile d’interdipendenza alla quale nessuno poteva sottrarsi. Che anche con i monumentali arsenali di USA e URSS, con le loro migliaia di testate atomiche e i loro vettori a lunga gittata, da questa condizione di dipendenza non si potesse uscire. Che l’epoca nucleare avesse generato uno dei più straordinari paradossi delle relazioni internazionali contemporanee: la mutua vulnerabilità di due super-potenze, e due nemici totali, legati in un abbraccio mortale in virtù del quale la sicurezza, invero la stessa sopravvivenza, dell’una dipendesse da quel che l’altra avrebbe fatto o non fatto. Un’“interdipendenza per la sopravvivenza” l’aveva appunto definita Henry Kissinger. A questa condizione esistenziale conseguiva la necessità di ridurre il rischio, di perseguire forme di sicurezza collettiva centrate sul disarmo, lo scambio d’informazioni e una disponibilità senza precedenti al monitoraggio reciproco, e il mantenimento della logica che aveva ispirato la Distensione degli anni Settanta e gli accordi che ne erano conseguiti: l’istituzionalizzazione cioè della deterrenza nucleare, in cui la certezza della assoluta distruzione reciproca avrebbe inibito l’azione e preservato la pace. Per la prima volta dalla fine degli anni Quaranta, l’URSS apparve essere all’offensiva nella guerra di propaganda e diplomazia pubblica che costituiva uno dei tanti terreni di competizione della guerra fredda. Gorbačëv lanciò proposte temerarie (e non di rado irrealistiche) di riduzione degli armamenti, funzionali peraltro anche a liberare risorse da destinare alle riforme interne e a ridurre peso e influenza dei conservatori e dei militari che dentro l’URSS ostacolavano il suo progetto. E si scontrò inizialmente con la visione di Reagan, che in forma genuina ancorché straordinariamente naïf, sperava invece di uscire dalla logica di un’interdipendenza nucleare di cui faticava a comprendere le fondamenta concettuali e verso la quale provava sincero orrore morale, attraverso la creazione di un sistema antimissilistico (la Strategic Defense Initiative, SDI) che avrebbe permesso di difendersi da un eventuale attacco. Un disegno visionario e straordinariamente irrealistico, quello del presidente statunitense, destinato a costare cifre astronomiche al contribuente americano e, avremmo poi scoperto negli archivi, a rendere più impervio il disegno riformatore di Gorbačëv, rafforzando le posizioni dei falchi che in URSS ostacolavano le sue aperture. Il leader sovietico infine capitolò e dopo i famosi vertici di Ginevra e Reykjavík accettò di slegare i negoziati con gli USA dall’abbandono statunitense della SDI, permettendo il raggiungimento di un accordo storico – il trattato INF del dicembre del 1987 – che con l’eliminazione di migliaia di missili sovietici e statunitensi in Europa rappresenta ancor oggi uno dei più importanti momenti della storia contemporanea.

Il secondo pilastro costituisce in una certa misura il corollario del primo. Se la sicurezza è collettiva e l’interdipendenza nucleare crea una vulnerabilità (e quindi un interesse) comuni, allora l’elemento fondativo delle politiche di sicurezza sovietiche della guerra fredda – l’istituzione di una sfera d’influenza, un “blocco” in Europa centro-orientale – non ha più ragione d’essere. Anzi, quel blocco da risorsa si è trasformato in fardello: un onere politico, a maggior ragione per le torsioni ancor più autoritarie di alcuni regimi socialisti della regione, inutile alla protezione dell’URSS e che Mosca non può più sfruttare come aveva invece fatto nelle fasi iniziali della guerra fredda. È con Gorbačëv che può avvenire quell’affrancamento dei Paesi dell’Europa centro-orientale dall’URSS senza il quale non avremmo avuto la fine pacifica della guerra fredda in Europa e la rapida riunificazione della Germania. Ed è Gorbačëv, infine, a promuovere e gestire l’uscita dell’URSS dalla tragica esperienza afghana.

Il terzo e ultimo pilastro consegue a sua volta ai primi due. Nelle intenzioni, la sicurezza collettiva e la fine della sfera d’influenza sovietica sono funzionali all’integrazione dell’URSS in un ordine globale e, soprattutto, “paneuropeo”. In uno dei discorsi più alti e sofisticati di Gorbačëv, quello pronunciato al Consiglio d’Europa il 6 luglio 1989, il leader sovietico ricorse a uno slogan, la “casa comune europea”, già utilizzato in precedenza (anche da uno dei suoi predecessori, il sottostimato Leonid Brežnev). Una “casa comune” di cui l’URSS deve fare necessariamente parte: per avere accesso a tecnologie (e, anche crediti) indispensabili alle riforme gorbačëviane; per contribuire alla sicurezza collettiva; per partecipare alle indispensabili forme di dialogo multilaterale; perché lo spazio europeo era la casa naturale e storica dell’URSS e del suo socialismo ora riformato.

Questo disegno ambizioso – lungimirante e coraggioso in alcune sue componenti, ingenuo e superficiale in altre – si scontrò con ostacoli in ultimo insormontabili che ne avrebbero decretato il fallimento ultimo. Altre dinamiche d’integrazione globale, quelle capitalistiche in primis, stavano alterando l’ordine internazionale e generando interdipendenze alle quali il disegno gorbačëviano non offriva risposta. Alla relazione per molti aspetti straordinaria costruita con Reagan fece seguito quella più problematica con un presidente, George H. Bush, preoccupato dalla destabilizzazione dell’ordine della guerra fredda e al contempo più diffidente e incline a considerare l’URSS ancora un nemico. L’interlocutore naturale del suo disegno paneuropeo, l’Europa socialista e del comunismo democratico – quello italiano in particolare, che Gorbačëv ammirava e prendeva a modello – stava a sua volta entrando in una crisi profonda. La speranza di costruire una nuova architettura securitaria in Europa si scontrava con la volontà di preservare la NATO, le promesse disattese sul suo mancato allargamento e le modalità della riunificazione tedesca. E ovviamente il malcontento interno ne erodeva popolarità e consenso in patria, dove le sofferenze generate dalle sue riforme, il riemergere del nazionalismo e, anche, la persistente opposizione dei falchi e di tanti militari lo costringeva a compromessi pesanti e decisioni incoerenti.

Critiche plurime possono essere mosse a Gorbačëv. E tante isole di opacità ancora rimangono nell’analisi storica del personaggio, delle sue politiche e dei suoi fallimenti. Come è inevitabile che sia per figure storiche grandi, importanti e tragiche quale è stato l’ex leader sovietico.

Immagine: A destra, Michail Sergeevič Gorbačëv e, al centro, Ronald Reagan durante il vertice di Reykjavík, Islanda (11 ottobre 1986). Crediti: The Official CTBTO Photostream. Courtesy of Ronald Reagan Library [Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)], attraverso www.flickr.com

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