Venuto al mondo

Venuto al mondo

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Tratto dal romanzo omonimo di Margaret Mazzantini, Venuto al mondo è la quarta regia di Sergio Castellitto: un film, ambientato negli anni della guerra nella ex Jugoslavia, che è appesantito da un racconto macchinoso tempestato di flashback.

Una cicogna sotto le bombe

Gemma decide di partire per Sarajevo, portando con sé il figlio sedicenne Pietro. All’aeroporto viene a prenderla il poeta bosniaco Gojko, che ai tempi delle Olimpiadi invernali del 1984 fece conoscere a Gemma il fotografo Diego, l’amore della sua vita… [sinossi]

Il sodalizio affettivo e lavorativo, fuori e dentro un set o il palcoscenico di qualche teatro, tra Sergio Castellitto e Margaret Mazzantini si alimenta di un nuovo tassello che approda nelle sale nostrane con Medusa in 350 copie alla vigilia dell’apertura della settima edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Si tratta di Venuto al mondo, adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo vincitore del Premio Campiello nel 2009 firmato dalla scrittrice nata a Dublino, portato sul grande schermo dall’attore e regista romano, presentato in anteprima mondiale all’ultimo Festival di Toronto. Un sodalizio che si rinnova a otto anni di distanza dalla trasposizione di Non ti muovere, pellicola dove le strade professionali di Castellitto e della Mazzantini hanno finito indubbiamente per consolidarsi dopo un primo tentativo avvenuto nel 1999 con Libero Burro, regalando al pubblico un’opera emozionante dal punto di vista delle interpretazioni attoriali e della messinscena, seppur satura e imperfetta narrativamente.

In Venuto al mondo quegli stessi pregi e difetti si manifestano in maniera ancora più evidente, messi da parte per un attimo dalla breve e piacevolmente spiazzante parentesi de La bellezza del somaro. La saturazione e l’accumulo narrativo pesano come un macigno sulla scorrevolezza di un racconto filmico che la discreta scrittura visiva (le riprese a piombo e l’uso della steadicam nella scena della visita alla mostra fotografica) e la convincente recitazione degli attori non riescono purtroppo ad attutire quanto avrebbero voluto. La coppia dimostra di non sapere lavorare di sottrazione in fase di riduzione, di non sapere o volere sacrificare più del dovuto pur di rispettare la sacrale ossatura della matrice originale, escludendo a priori l’ipotesi di un “tradimento” da essa. Di conseguenza il film dilata la storia in più di due ore che sembrano non avere mai fine, con rimbalzi temporali tra presente e passato che diventano prima motivo di interesse e poi macchinosi giri di parole per aggiungere legna al fuoco delle emozioni che nel frattempo si spegne e si riaccende ad oltranza. Queste, infatti, non mancano, ma arrivano alla platea come folate discontinue e aliti flebili di vento (vedi il monologo di Diego alla presenza della psicologo, lo stupro di Aska, ecc..).

È senza dubbio un film che mira in alto, ma che allo stesso tempo ha l’umiltà e l’intelligenza di non violentare o vomitare addosso allo spettatore proclami, teorie, ipotesi e morali. Questo quantomeno gli va riconosciuto Racconta gli archetipi della vita umana in una storia di verità non svelate, animata da personaggi salvati, salvi o desiderosi di essere salvati, in parte naufraghi e sopravvissuti, in parte dispersi. In mezzo, il desiderio divenuto poi ossessione della maternità, che oggi più che mai al cinema trova ampio spazio e acuti strazianti come Thy Womb di Brillante Mendoza o riflessioni alla Tutti i santi giorni di Paolo Virzì. Il tutto in un teatro di guerra che è stato tremendamente vero vent’anni fa e che nel film riemerge attraverso una messa in quadro che ci restituisce le ferite e le cicatrici sui corpi, nelle menti e nelle architetture ancora segnate dai bombardamenti dell’assedio di Sarajevo.
I protagonisti (brava e intensa la Cruz nel ruolo di Gemma, a tratti spaesato Hirch nei panni di Diego) si muovono in questi scenari spazio-temporali continuamente mutati dall’avvento, dallo scorrere e dal passaggio del “Dio della guerra”, come vittime e carnefici che tornano sul luogo del delitto. Sono di fatto parte integrante dell’orrore e della sofferenza, dello scontro interiore che vede da una parte il tentativo di dimenticare e dall’altra il bisogno di ricordare per non cancellare ciò che è stato. È il film stesso a dichiararlo attraverso la bocca del personaggio di Gojko: «Era più facile correre sotto le granate che camminare sulle rovine». Il resto non è altro che letteratura visiva della guerra, quella che l’occhio dello spettatore ha e continua a fagocitare da decenni, la stessa che al cinema per quanto riguarda il conflitto del 1992 abbiamo rivissuto attraverso le immagini di Benvenuti a Sarajevo e del recente In the Land of Blood and Honey.

Info
Il trailer di Venuto al mondo.
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