Mani pulite, gli 'intoccabili' del pool 30 anni dopo Tangentopoli - la Repubblica

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Tangentopoli 30 anni dopo, la parabola degli 'intoccabili' che fecero sognare l'Italia degli onesti

Che cosa resta del pool Mani pulite: Di Pietro si è ritirato tra i vigneti, Davigo è rimasto impigliato nei verbali del caso Amara ed è in rotta con Greco, Colombo non crede più nel carcere
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Il pool 'Mani pulite', ei fu. A trent'anni di distanza dall'inchiesta che ha cambiato per sempre la storia d'Italia, è impossibile non osservare, con qualche sconcerto, l'amaro testacoda del più famoso gruppo di magistrati italiani. Cinque anni prima del cruciale 1992 era uscito un magnifico film, The Untouchables, Gli intoccabili: e c'era uno scherzoso manifesto, incollato dietro una porta del quarto piano, che lo citava. Aveva sostituito i volti degli attori con quelli dei protagonisti della pubblica accusa. Gerardo D'Ambrosio, l'aggiunto, era al posto di Sean Connery; Antonio Di Pietro, che aveva arrestato Mario Chiesa e andava avanti come una ruspa, era Kevin Kostner, il grande investigatore; la faccia del contabile era quella di Piercamillo Davigo; e Gherardo Colombo era Andy Garcia. Il volto di Al Capone mancava. Lo si poteva immaginare.

C'era un'esagerazione nell'esaltare il lavoro della procura milanese. E c'è dell'acredine oggi, e molta soddisfazione specie nel centrodestra, nello stare in riva al fiume a guardare la corrente della cronaca che si porta via il metaforico cadavere delle toghe, non più intoccabili: e che si sono fatte male, anche da sole.
Antonio Di Pietro ha passato i 70 e nei giorni del trentennale è a Montenero di Bisaccia a potare vigne e alberi. Aveva annunciato già nel '94 di salire sul "trattore rosso": in effetti c'è salito. Prima della scelta agricola, ha però compiuto un lunghissimo giro di giostra: imputato, ministro, parlamentare, fondatore di partiti, amico nobile dei grillini. Un turbine a tratti fortunato e a tratti autodistruttivo. Era stato lui, con uno staff di collaboratori scelti uno per uno, a far avanzare l'inchiesta e a condurre processi micidiali per gli imputati. A cominciare da Sergio Cusani, finanziere al top del successo e del potere, inchiodato nell'aula del processo che lui stesso aveva chiesto.

Il declino di Di Pietro era cominciato con le dimissioni dalla magistratura, più 'spintanee' che spontanee: gli stavano apparecchiando dietro le quinte un piattino avvelenato, trasformando in reati (cosa che non erano) i suoi comportamenti (prestiti, uso di auto, lavori), alcuni troppo disinvolti per un magistrato descritto come "il" servitore della legalità. La sua idea primigenia, dopo l'addio alla toga, era stata ingenua: voleva costruire, all'interno del ministero delle Finanze, una sorta di stazione di 'super-controllo' dei funzionari pubblici. Con tanto di anagrafe patrimoniale del dipendente dello Stato: nel paese delle frodi fiscali a go-go ovviamente non era concepibile. Il suo passaggio alla politica attiva gli diventò quindi necessario, ma irto di spine: travolto dai cambi di casacca dei suoi parlamentari e da discussioni e polemiche, anche accese, sui soldi del finanziamento pubblico al suo partito, ha perso il 'quid' del leader politico.

Su Piercamillo Davigo, ai tempi abile scrittore di richieste di autorizzazioni a procedere contro senatori e deputati, diventato giudice di Cassazione, se ne sono dette troppe e ci sono indagini in corso. Certo è che, da membro autorevole del Consiglio superiore della magistratura, oggi si è messo nelle condizioni di farsi smentire da altri colleghi sulla complessa storia dei verbali dell'avvocato Piero Amara e della 'loggia Ungheria', che allungherebbe i tentacoli sulle nomine dei magistrati e i risultati dei processi. Aveva dato sin da giovanissimo l'immagine di un 'dottore' sicuro di sé, competente, abile con i codici e sottilmente feroce battutista. Il più cinico e spiritoso. Il migliore conferenziere e 'ospite tv'. Uno 'stile' ormai impallidito: sembra difficilissimo recuperarlo.

Ed è stato pazzesco vedere Davigo contrapposto all'ex collega Francesco Greco. Lo stesso Greco ha subito una stramba conversione: aveva in mano la lotta ai crimini finanziari ai tempi del pool, è stato l'abile consigliere di giovani colleghi ma anche dei vari procuratori capo: e capo è diventato a sua volta. Ma le sue scelte strategiche da numero uno hanno lasciato non pochi colleghi più che perplessi. Non a caso il suo nome è finito sui media più spesso per le critiche (specie per il caso Eni) che per i risultati raggiunti. Seduto alla sedia che fu di Francesco Saverio Borrelli, il grande scudo del pool negli anni di Mani Pulite, aveva superato nel 'concorso' Ilda Boccassini e Alberto Nobili, e lascia al successore un ufficio psicologicamente un po' provato.

Gherardo Colombo, alla fine, è quello rimasto più 'in sintonia' con il vecchio pool e con se stesso. Era un magistrato sconfitto: negli anni Ottanta, il porto delle nebbie del palazzo di giustizia di Roma gli aveva scippato sia l'inchiesta su Licio Gelli e la Loggia P 2, sia quella sui fondi neri dell'Iri (azienda di Stato). Ripescato da Borrelli e affiancato a Di Pietro agli inizi di Tangentopoli, ha cominciato a 'vincere' ed è sempre stato in grado di 'leggere' con lucidità il mondo circostante. Con Ilda Boccassini, tornata dalle inchieste antimafia di Palermo, era stato lui a reggere i processi vittoriosi contro Cesare Previti, avvocato di Silvio Berlusconi, e contro le sentenze comprate. Poi era andato in Cassazione e dopo un po', stufo delle carte, s'era dimesso: il suo pallino è diventato parlare di legalità, confrontarsi con ex terroristi e professori, diffondere la cultura dell'onestà nelle scuole. Ha assunto una sorta di sguardo benevolo sul mondo del crimine, arrivando a sostenere - nonostante il suo curriculum - l'inutilità del carcere. Dice che "prima vengono le persone": però, ci permettiamo di notare, sinora non ha spiegato mai se prima viene Caino o Abele.