Liv Ullmann: «Non sono una leggenda» | iO Donna
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Liv Ullmann: «Non sono una leggenda»

L’oscurità non fa parte del mondo di Liv Ullmann. Deve essere per questo che il progetto di libro, The Blue Hour, il suo terzo memoir dopo Cambiare del 1978 e Scelte del 1985, che avrebbe dovuto raccontare la sua vita tra i 70 e gli 80, quel momento «poco prima che diventi buio» è stato archiviato.

«Passati gli 80 ti rendi conto che il buio non esiste, è solo un’altra dimensione». Liv Ullmann, 84 anni, a giudicare dal lungo racconto di Liv Ulmann-A Road Less Travelled (“Una strada poco battuta”), il documentario che a lei ha dedicato il regista indiano Dheeraj Akolkar (che già aveva diretto Liv & Ingmar nel 2012), presentato all’ultimo festival di Cannes nella sezione Classics, non ha ancora esaurito la scorta di sense of humor che nella lotteria della vita ci viene assegnata alla nascita.

Molti sono stati i doni ricevuti dalla donna che nel 2022 si è vista consegnare l’Oscar alla carriera, e molte le asperità. Nel film parla di una «rabbia» che l’ha accompagnata per tutta la vita. E a vederla, splendidamente acconciata con uno chignon che lascia libere alcune ciocche, non c’è spazio per l’ombra su quel viso che in sessant’anni di carriera si è prestato a raccontare ogni possibile emozione.

Liv Ullmann riceve l’Oscar alla carriera nel 2022. (Photo by Michael Buckner/Variety/Penske Media via Getty Images)

«Adoro i primi piani» ci dice. «Permettono di vedere quello che c’è al di là della pelle». Timida («Parlo poco, devono rivolgermi la parola per primi gli altri, posso stare zitta anche molto a lungo»), eppure innamorata della macchina da presa. «Perché rivela, è un investigatore esperto». E ricorda un aneddoto – saranno molti nel corso dell’intervista – in cui con Ingmar Bergman durante le riprese di Passione (1969) ebbe una discussione riguardo il monologo del suo personaggio. «Per Bergman lei era un’assassina, l’incidente d’auto in cui erano morti marito e figlio l’aveva provocato. Io non ero d’accordo. Cominciammo a girare,la macchina da presa era molto vicina e Ingmar dalla comoda sedia del regista mi dice, in una pausa del monologo: “Me ne vado,ti lascio e porto via nostro figlio”. Ho provato una specie di furore, ho alzato la voce e mentre continuavo con le mie battute sentivo dentro di me crescere la convinzione che certo, non poteva essere andata che così. Li aveva uccisi lei. (Fa una pausa) Essere attori questo vuol dire».

Liv Ullmann, innamorata della macchina da presa

Non si è accontentata di essere attrice. Ha voluto essere anche regista. E non è stato facile all’inizio a giudicare da quel che racconta nel documentario.
È stato molto difficile farmi prendere sul serio. Mi è anche capitato di arrivare sul set e accorgermi che il mio assistente aveva iniziato a girare senza di me. Aveva infranto la prima regola del cinema. Non lo avrebbe mai fatto con un uomo.

Erland Josephson e Liv Ullmann in Scene da un matrimonio, serie tv diretta da Ingmar Bergman. (Photo by mk2/Sunset Boulevard/Corbis via Getty Images)

Viene da lì la rabbia di cui parla?
Quando ero giovane sono passata da un teatro provinciale a Oslo e ho avuto un discreto successo. Insieme a me anche un collega aveva ricevuto una scrittura dal National Theatre. Con una paga molto più alta della mia. Quando ho protestato mi è stato detto che lui aveva una famiglia da sfamare. E io allora? Ero una madre single con una figlia piccola! Ma a quel tempo non avevo in me il senso del giusto, dello sbagliato. E non ho replicato.

La peggior nemica di se stessa

I suoi esordi sono stati segnati dall’incontro con registe però.
Avevo fatto Anna Frank a teatro con una donna, ma determinante è stato l’incontro con Edith Carlmar che mi ha dato la parte della protagonista nel mio primo film ( Ung flukt, “Il volo giovane”), un personaggio con una sessualità molto disinvolta. Edith era una donna forte e credo mi vedesse un po’ perduta alle prese con il ruolo: «Quanto sai di queste cose?» mi chiese un giorno. «Non sarai vergine?». Avevo 18 anni e lo ero. Quel film mi servì a capire un sacco di cose.

Eppure, quando fu il suo turno di dirigere si rivelò la peggior nemica di se stessa: sul set portava il caffè al direttore della fotografia. Avrebbe dovuto farselo portare lei!
È vero, ed è stato Erland Josephson a dirmi: «Smettila Liv! Ora sei una regista, comportati come una regista!». Ero abituata a far piacere agli uomini, a portare loro il caffè. Ma è stato un uomo a farmi notare che era responsabilità mia se non mi prendevano sul serio.

Liv Ullmann e Ingmar Bergman.

C’è del buono nel non prendersi troppo sul serio: lei è sempre stata un’attrice e non è mai diventata una celebrity. Volevano che si truccasse di più quando è sbarcata a Hollywood e lei rispondeva: «Non mi trucco, sono norvegese». E quando confrontava la sua condizione con quella della scandinava più celebre della storia del cinema, Greta Garbo, si diceva fortunata: «Io posso sempre tornare a Oslo e mangiare i waffle al formaggio, lei no».
Ho avuto successo in America, ma ho anche fatto cose spaventose. Non ho mai capito perché mi hanno voluta per certi film, come La signora a 40 carati (1973): non ero una star e quel ruolo lo voleva anche Liz Taylor. Dovevo interpretare una newyorchese 40enne che si innamora di un ventenne, avevamo entrambi 35 anni e io avevo un forte accento norvegese. Ma in quel film c’era Gene Kelly. Purtroppo, io non sapevo ballare…

L’incontro con Greta Garbo

Sapeva correre però, ha inseguito Greta Garbo a Central Park.
Questo dice molto del mio narcisismo. Ero felice in quel periodo. Avevo avuto successo a teatro, il Time aveva scritto che ero la nuova Garbo, e non era vero. Però ero a Broadway con Anna Christie (Greta Garbo aveva interpretato il dramma di Eugene O’Neill al cinema nel 1930, ndr) perciò quando l’ho riconosciuta mi sono detta che doveva saperlo a ogni costo. Ma non appena mi sono mossa verso di lei, ha accelerato il passo e quando ha visto che non mollavo si è messa a correre. Mi ha seminato.Mi sono vergognata di me per aver messo in difficoltà quella povera donna che chiedeva solo di essere lasciata in pace. Il mio era solo orgoglio, vanità.

Tra le etichette più difficili da rimuovere per lei ci deve essere stata la definizione di “musa di Ingmar Bergman”.
Abbiamo fatto insieme 12 film e una figlia (Linn,56 anni, scrittrice e giornalista, ndr),ho diretto 3 testi suoi. Ma quando ci siamo incontrati io avevo 25 anni e lui 21 di più: certo la mia vita è stata quello che è stata grazie a quell’incontro. Ma John Lithgow quando mi ha consegnato l’Oscar ha detto una cosa che mi ha fatto molto piacere: «A chi ritiene che Liv non sarebbe mai diventata una delle nostre più grandi attrici senza Ingmar Bergman, rispondo che Bergman probabilmente non sarebbe mai stato uno dei nostri più grandi registi senza Liv Ullman». Tutti hanno applaudito, perciò credo di potermi prendere questo merito.

Max Von Sydow non amava le domande su Bergman e a un cronista una volta rispose di malagrazia: «Sono stufo di essere il segretario di Bergman». A lei è mai successo?
No, e hanno certamente fatto più domande a me su Bergman di quante ne abbiano fatte a Max. Ma Max era un uomo genuino, e un attore meraviglioso, ha dovuto portare quel peso a lungo. Entrambi abbiamo trovato il modo di affrancarci e lo abbiamo fatto insieme. Fanny e Alexander era stato scritto per noi due. Max disse di no, era stanco, aveva ragione. E io dissi a Ingmar che avevo già ricevuto una proposta per fare un altro film, non avrei potuto fare il suo. Non mi perdonò mai. Mi scriveva lettere in cui mi chiamava per nome e cognome, “Cara Liv Ullmann” . Mi faceva telefonate indignate dicendo che avevo rinunciato al “diritto di primogenitura” degli attori, era molto drammatico. Per un anno non mi ha parlato, ma io ero convinta della mia scelta, sapevo che sia io sia Max avevamo fatto bene. Poi quando ho visto il film finito insieme a Ingmar, ho trovato che era bellissimo, aveva riscritto la parte per fare del personaggio destinato a me una donna più giovane. Allora ho pianto, perché avrei voluto così tanto far parte di quel film. Ma in quel momento avevo bisogno di dire a lui che volevo fare commedie, film norvegesi, cose diverse.

Ha rimpianti?
Sì, moltissimi. Forse è stata una scelta sbagliata.

Liv Ullmann con la figlia Linn. Photo: Ivar Aaserud / Current / NTB

Bergman aveva fatto un sogno all’inizio della vostra storia d’amore in cui le rivelava che eravate «dolorosamente connessi». Forse lei aveva bisogno di liberarsi del fardello.
Max sentiva di avere un peso sulle spalle, io no: volevo solo mostrare che ero indipendente.
Ha dichiarato che per lei non è più tempo di dirigere, ma di parlare, nel ruolo di fondatrice della Women’s Refugee Commission, ma non solo. Perché?
È un mondo spaventoso quello in cui viviamo, nulla è al posto giusto come ci sembrava quando eravamo giovani. Perciò ho deciso che dopo essere stata molto zitta voglio parlare con le persone, perché sono vecchia, ho il dovere di farlo. Mi hanno detto che dovevo imparare a usare Siri e ho imparato a parlare anche con lei. Le dico «Ciao Siri» quasi tutti i giorni ( ride ). Dobbiamo imparare a stare insieme da esseri umani e parlare di quello che ci succede e di quello che proviamo. Facendoci aiutare se non ci riusciamo. Quando interpretavo Groucha a teatro ( Il cerchio di gesso del Caucaso di Bertoldt Brecht, ndr) avevo un bravissimo regista che mi diceva: «Liv, non c’è niente di eroico nel suo gesto» (Groucha è la balia che salva un neonato abbandonato dalla madre durante una rivolta, ndr ). «Sei povera, devi farlo». Non siamo meravigliosi noi umani, siamo solo umani. E ci serve gente che abbia il talento di ricordarcelo. Se hai la fortuna di essere attore, impari una cosa nuova al giorno.

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