I 6 triangoli amorosi più belli e piccanti nella storia del cinema

I 6 triangoli amorosi più belli e piccanti nella storia del cinema

Non solo Challengers di Luca Guadagnino: il triangolo amoroso al cinema è comparso spesso. Abbiamo selezionato allora 6 film per voi.

I 6 triangoli amorosi più belli e piccanti nella storia del cinema
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È un pensiero stupendo, per Patty Pravo, ma per molti rimane un desiderio silenzioso, un'immagine che stuzzica la fantasia, ammantando di erotismo l'ordinaria quotidianità. Il ménage à trois è un qualcosa da tenere a sé. Non dire, non mostrare, perché tenuto lontano dalla morale sociale. Eppure, quello che si gioca al cinema è a tutti gli effetti un rapporto a tre: c'è un regista, che osserva, seduce con lo sguardo, raccoglie per sempre corpi di attori che si prestano alle sue lusinghe; ci sono i personaggi che vivono illusoriamente una vita propria, unica, nello spazio di una visione; e poi ci sono gli spettatori, non più astanti, ma parte integrante di questo rapporto particolare: sono i tre vertici di un triangolo che spente le luci, nel buio della sala, soddisfa i propri desideri reconditi, stuzzica la fantasia, oppure lascia correre i fantasmi delle proprie paure.

E il cinema stesso, anche quello di stampo classico hollywoodiano, non si è mai tirato indietro, a volte edulcorando, limando con la forza della risata, gli angoli di una tematica altrimenti scottante come quello del ménage a trois. Quel pensiero stupendo, che va un poco strisciando, si fa pertanto da sempre parte integrante del linguaggio cinematografico, seducendolo, ammaliandolo, così da riservarsi uno spazio del tutto personale all'interno del proprio giacimento aureo. Da Woody Allen, a Jean-Luc Godard, passando per i recenti Celine Song e il suo Past Lives, e Luca Guadagnino con il suo Challengers (qui potete leggere la nostra recensione di Challengers), sono molti gli autori che si sono abbeverati da tale fonte, investendo di sensualità le proprie opere, facendo delle proprie coppie dei triangoli a tratti ammalianti, altri respingenti.

Scandalo a Filadelfia - The Philadelphia Story di George Cukor (1940)

Il cinema - lo abbiamo detto più e più volte - è come una finestra sulla realtà; ma c'è stato un periodo in cui tale apertura era limitata da inferriate, zanzariere, tende, che ne oscuravano la vista, o filtravano il passaggio di informazioni esterne. C'era una volta il cinema classico hollywoodiano, limitato nella sua costruzione narrativa da regole, filtri, codici (il famoso "Codice Hayes") che frenavano la fantasia, riducevano gli argomenti, edulcoravano i rapporti. Eppure, il triangolo amoroso è comunque riuscito a fare breccia tra queste immagini di celluloide.

Svestito del suo abito più sensuale, ha saputo sfruttare l'ingegno dei propri sceneggiatori per vivere sotto abiti più casti. Sono soprattutto storie di uomini che bramano la medesima donna, figura sognatrice, o forte della propria sicurezza, che seduce, scruta e poi sceglie (a volte autonomamente, altre per volere altrui). Così è stato per L'appartamento, A qualcuno piace caldo, Casablanca, ma soprattutto per Scandalo a Filadelfia, sfruttando il sottogenere delle commedie di rimatrimonio (o "comedy of remarriage") l'opera di George Cukor imbastisce le fragilità, le insicurezze, che attanagliano gli amanti, decisi ad allontanarsi per buttarsi tra le braccia altrui, eppure ancora così legati da un filo pronto a essere ricucito.

E la Tracy Lord di Katharine Hepburn saltella tra i raccordi di montaggio, insicura se abbandonare per sempre un marito pronto a riprendersela (C.K. Dexter Haven, interpretato da Cary Grant) oppure sposare come da programmi il ricco George Kittredge, o addirittura cedere alle lusinghe del giornalista Macaulay Connor (James Stewart). Commedia degli equivoci, suggellata da momenti esilaranti e di un'ironia caustica, Scandalo a Filadelfia sebbene riprenda e reiteri un canovaccio già sfruttato nella Hollywood d'oro, risemantizza il concetto di triangolo amoroso sotto un'ottica più comica e coinvolgente, scevra di sensualità, ma comunque viva, umana, credibile. Una vicinanza tra schermo e pubblico resa possibile soprattutto da quel carisma attoriale che solo interpreti come Hepburn, Stewart e Grant potevano vantare.

Jules e Jim di François Truffaut (1962)

«Jim pensava: abbiamo giocato con la sostanza della vita, e abbiamo perso». Così chiosa con tono fermo, eppure commosso, la voce narrante di uno dei film più amati e conclamati di François Truffaut, Jules & Jim. Se quella di Jim è una sfida con la vita, il film di Truffaut non ha paura di rivelare ogni ostacolo, limite e soddisfazione fondanti questa Odissea personale. Jules & Jim non è solo una storia su una donna e la sua incapacità di scegliere tra due uomini: è una storia di amicizia, ambientata prima, durante e dopo la Prima guerra mondiale, con in mezzo un matrimonio e la nascita di un bambino. Un'opera girata con una troupe composta solo da quindici persone a Parigi, dove tutto prende inizio attorno al 1912. Il tedesco Jules e il francese Jim sono diventati amici inseparabili uniti dalla passione per la letteratura, per le lingue e per le donne.

Il destino porrà sul loro cammino Catherine: Jules ne è attratto e avverte Jim che non vuole condividerla con lui. L'amico si ritrae ma, dopo il conflitto che li impegna su fronti opposti, i due si ritrovano. Ora la coppia vive in campagna ed è nata una bambina, Sabine. Ma Catherine non ama più Jules; Jim si fa avanti e Jules non può far altro che accettare la situazione. Quello di Jules, Jim e Catherine è un vortice che prende, attira, sbatte i corpi gli uni agli altri come i condannati lussuriosi del V canto dell'Inferno dantesco; è quel "tourbillon de la vie" cantato dalla Moreu che affascina, fa conoscere, perdere di vista, ritrovare e far innamorare, tra imprevisti e battiti del cuore che ora si fermano, poi ripartono, al ritmo di una musica orchestrata dalle emozioni. Una musica senza lieto fine.

Y tu mamá también di Alfonso Cuarón (2001)

Non è un Messico da cartolina quello di Y tu mamá también, perché la terra immortalata dalla cinepresa di Alfonso Cuarón si sveste di filtri migliorativi, di frammenti da paradisi terrestri, per interessarsi ai corpi che quel mondo lo abita. Sono i sogni disillusi, la ricerca del proprio posto nel mondo, le insicurezze e le incertezze di giovani, messisi in cammino tra canne, sesso, rapporti di fedele amicizia ed epiloghi amari a fare da trainante all'opera del regista messicano. Julio (Gael Garcia Bernal) e Tenoch (Diego Luna) sono due amici di diciassette anni che bramano l'età adulta.

La desiderano, la aspettano, perché incapaci di essere dei semplici ragazzini. Nel corso di una festa conoscono una ventottenne spagnola, Louisa (Luisa Cortés), che con spirito di avventura accetta di mettersi in viaggio insieme ai due (che intanto hanno iniziato a corteggiarla) verso una spiaggia denominata Boca del Cielo che né Julio, né Tenoch sanno dove sia. Prenderà così il là una quest personale, un coming of age sotto forma di viaggio, dove l'edonismo sfrenato, il piacere, l'erotismo, il triangolo amoroso, le risate e le lacrime, non faranno mai da scudi protettivi al passaggio del dolore. La sofferenza troverà sempre un varco libero per infettare la bellezza della vita, e noi tutti, proprio come i protagonisti di Cuarón, non possiamo far altro che accettarlo. Dopotutto, "la vita è come la schiuma: per questo bisogna abbandonarsi come il mare".

The Dreamers di Bernardo Bertolucci (2003)

Bernardo Bertolucci è stato un regista coraggioso. Con le sue opere non ha mai temuto il giudizio altrui: ha osato, sfidato, e a tratti vinto contro un certo pensiero ipocritamente benpensante e alquanto bigotto e pudico tanto di ieri, quanto di oggi. La morale cattolica si piega e si spezza dinnanzi alla cinepresa del regista di Parma; uno sguardo, il suo, che tutto prende e ammanta di erotismo, proprio come farà quel suo allievo prediletto, quel Luca Guadagnino che tanto deve a Bernardo Bertolucci. E in effetti c'è molto di Bertolucci e del suo The Dreamers in Challengers, così come in The Dreamers c'è molto di quella corrente cinematografica - la Nouvelle Vague - che tanto ha influenzato e segnato l'opera del regista venuto a mancare nel 2018.

Più che il triangolo amoroso di denuncia morale che vive tra i raccordi di Ossessione di Luchino Visconti, o di Cronaca di un amore di Michelangelo Antonioni, in The Dreamers respirano i ricordi di Jules et Jim e Bande à Part; una riconoscenza mai velata, ma resa esplicita con continue citazioni, che rafforza ulteriormente il senso di ossessione, dipendenza e paura dei legami che scorre nel mènage à trois tra i fratelli Isabelle (Eva Green) e Theo (Louis Garrell), e l'americano Matthew (Michael Pitt).

Parigi non solo si fa sfondo delle proteste studentesche del 1968, ma si eleva a corpo pulsante, vivente, quasi tangibile, che inspira il vortice della rivoluzione, per innestarlo nello spazio di una relazione viva di quella libertà (soprattutto sessuale) da tanti urlata, richiesta, e non sempre ottenuta. Tra i sogni sotto forma di 24 fotogrammi al secondo, alla bellezza estetica dell'arte e dei corpi da essa ritratti, fino all'ossessione, alla pulsione sessuale, al rilascio dei freni inibitori di caratura sociale, The Dreamers si fa giostra di anarchia e dichiarazione di libertà, gioventù e dipendenza affettiva, fobie e timori che accompagnano i giovani di ieri, quanto quelli di oggi. Tutti sognatori cullati dalla speranza (a tratti disillusa) del domani.

Ferro 3 - La casa vuota di Kim Ki Duk (2004)

In termini sportivi, il "ferro 3" è una mazza da golf, statisticamente la meno usata, la più ignorata. Proprio come ignorato, invisibile agli occhi, impara a essere il protagonista del film di Kim Ki-Duk, Ferro 3 - La casa vuota, presentato alla Mostra del cinema di Venezia del 2004. il protagonista Tae-suk è un'ombra che cammina indisturbata tra le vie della notte; senza dimora, ritrova un posto da chiamare momentaneamente casa in abitazioni temporaneamente vuote.

Ma Tae-suk non ruba, non rovina, non distrugge; Tae-suk abita le stanze, le riempie sostituendosi alla vita degli altri. E per un attimo si sostituisce anche al ruolo di amante e marito per Sunhwa, giovane maltrattata dal compagno e incontrata per caso in una lussuosa villa ritenuta erroneamente vuota. Come nutre le piante, o aggiusta vasi, Tae-suk ripristina anche un cuore che aveva ormai smesso di battere. Insieme a Sunhwa stringe un rapporto unico, di reciproco sentimento, destinato ad aprirsi a quel terzo elemento esterno che grazie ai giochi di illusionismo ottico appresi in carcere dal giovane, sarà cieco dinnanzi alla presenza di Tae-suk. E così i due potranno baciarsi letteralmente alle spalle del marito di Sunhwa, immaginandosi che quel triangolo ritorni a essere un filo rosso che unirà per sempre i due giovani. Nonostante le botte, nonostante l'eccitante paura di essere scoperti.

Vicky Cristina Barcelona (2008)

Niente sogni a occhi aperti tra le vie di una Parigi notturna; e nemmeno le elucubrazioni mentali lasciate vagare nel traffico di New York. Ora è la città di Barcellona a farsi cuore caldo e braccia umide pronte a cullare, stringere, il corpo dei protagonisti di Vicky Cristina Barcelona. Il cinema torna per Woody Allen a farsi taccuino su cui inscrivere le proprie sedute psicanalitiche, ascoltando, segnando, imprimendo su pellicola, le proprie riflessioni su quello che ci ostiniamo a chiamare e individuare come amore, ma che forse altri non è che un semplice trucco di magia, un'illusione dei sensi, uno spettacolo del cuore a sfavore della mente.

Sfidando ragione, tradizione, identità collettive e valori morali acquisiti dal costrutto sociale che ci ingloba, - ma forse mai del tutto interiorizzati - il regista sfrutta il triangolo amoroso tra Cristina (Scarlett Johansson), Juan Antonio (Javier Bardem) e Maria Elena (Penélope Cruz) per tradurre in linguaggio visivo i desideri, le ossessioni, i traumi e le dipendenze affettive che ci portiamo dentro, fino a lacerarci e deflagrare il rapporto con gli altri. Senza tanti sotterfugi, l'opera dichiara sin dall'inizio, partendo dalla forza esplicita del proprio titolo, che a tracciare i confini del proprio racconto sarà il triangolo: un triangolo continuo, che si auto-riproduce in tanti, costanti, triangoli. C'è quello fra Juan Antonio, Vicky e il suo fidanzato/marito, quello originario, fra Cristina, Juan Antonio e la sua impetuosa ex-moglie María Elena. Come calamite, i corpi si attraggono per poi allontanarsi, in un gioco alla seduzione e alla trasgressione messo in dubbio, frenato e ostacolato dal pensiero borghese.

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