Wall Street: recensione del film di Oliver Stone con Michael Douglas
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    Wall Street: recensione del film di Oliver Stone con Michael Douglas

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    Wall Street è un film del 1987, scritto e diretto da Oliver Stone, e interpretato da Michael Douglas, Charlie Sheen, Daryl Hannah e Martin Sheen, capace di conquistare numerosi riconoscimenti importanti, tra i quali il premio Oscar come miglior attore protagonista per lo stesso Douglas.

    Oliver Stone decide di affrontare una tematica rischiosa per trarne un’analisi aspra e realista della società del capitale e del libero mercato. E lo fa esponendo e misurandosi con due personaggi agli antipodi nel mondo della finanza: un ragazzo fresco di studi che tenta di imporsi come broker, Bud Fox, e un guru di Wall Street, lo squalo della finanza, Gordon Gekko.

    Questi due uomini, apparentemente così lontani, si trovano a lavorare assieme. Per Bud, Gordon è un mito, è il suo dio, ciò che vuole diventare; Gordon, dal suo lato, nota in lui una rabbia, una fame che gli somiglia, che gli appartiene. Gordon è un milionario, un predatore, un uomo che non dorme mai, che vive per il denaro, che cammina furiosamente nel suo ufficio abbaiando ordini e fumando sigarette, controllando le azioni. È un uomo a cui non piace perdere, che ha tutto ma che sembra non poter bastare, mai.

    Wall Street: la critica di Oliver Stone al capitalismo americanoWall Street

    Ma quanto è abbastanza? La domanda di Bud è essenziale per capire il senso che spinge la società del capitale a non fermarsi, a non esitare nemmeno davanti a compensi milionari, ed è qui che il monologo di Gekko, epocale, sull’avidità, trova l’apice di una pellicola che diventerà sempre più spietata, perché come i suoi protagonisti non conosce il concetto di troppo, di abbastanza. Gekko passa tutto il suo tempo e ogni attimo a cercare di guadagnare più denaro, dalle azioni, dalle aziende, dagli investimenti, infrangendo la legge, spesso, tenendo sempre a mente che ciò che guadagna è solo un trasferimento, sono solo numeri, che passano da persone ad altre persone, e in tutto questo nessuno si fa male perché è tutto illusorio. Il denaro è un bene immateriale, c’è ma non si vede, non si crea né si distrugge.

    L’avidità, non trovo una parola migliore, è valida, l’avidità è giusta, l’avidità funziona, l’avidità chiarifica, penetra e cattura l’essenza dello spirito evolutivo. L’avidità in tutte le sue forme: l’avidità di vita, di amore, di sapere, di denaro, ha impostato lo slancio in avanti di tutta l’umanità. E l’avidità, ascoltatemi bene, non salverà solamente la Teldar Carta, ma anche l’altra disfunzionante società che ha nome America.

    Un film spietatamente attuale

    Come un abile giocatore d’azzardo, ciò che conta per Gordon è la competizione, è vincere. Wall Street è una critica alla mentalità capitalista, e sostiene che ciò che uccide il mercato, ciò che affossa intere compagnie e decide l’andamento delle azioni sono gli squali come Gekko, che in modo illegale si lanciano nel libero mercato ingannando, persuadendo, e giustificandosi con frasi come “tutti lo stanno facendo”.

    Oliver Stone ritrae il profilo di un’America ingorda, sporca, ai limiti di una democrazia in disfacimento, all’interno dell’eldorado della finanza, un lavoro che ha dedicato al padre, agente di borsa, analizzando la speculazione, l’eccesso, il boom economico e lo yuppismo dilagante. Il risultato è una pellicola che risplende grazie al talento di formidabili attori, scritta in un modo accessibile a ogni tipo di pubblico, comprensibile sempre, che coinvolge grazie a un ritmo incalzante, una recitazione precisa, dinamica, potente che dà forma e vigore alla battaglia sempiterna tra bene e male.

    Un’opera che imperversa, viola, incede, ed è caratterizzata da un susseguirsi di giochi di potere, raggiri, derisioni, prevaricazioni, redenzioni e dannazioni; il percorso morale che il protagonista subisce lo declina in ogni aspetto, senza retoriche, mostrando il lato sapido e ingiusto del mondo della finanza. Wall Street è un film spietatamente attuale, intriso di immoralità, di squali, di arrivismo, che rivela il vero volto di un’America in demolizione, che Oliver Stone mette con le spalle al muro.

    Overall
    8/10

    Verdetto

    Oliver Stone dipinge un’aspra analisi della società del capitale, rivelando il vero volto di un’America in demolizione. Un film che risplende grazie al talento degli attori, a una recitazione precisa e dinamica e alla scrittura, accessibile, comprensibile, coinvolgente e incalzante.

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    Eileen: recensione del film con Thomasin McKenzie e Anne Hathaway

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    Eileen

    Un thriller psicologico dalle atmosfere hitchcockiane, con un personaggio che si chiama Rebecca; una rivisitazione in chiave noir dell’appassionato intreccio di Carol; un torbido racconto sullo sguardo e sull’immaginazione, che strizza l’occhio al cinema di Brian De Palma. Tutto questo è Eileen, opera seconda di William Oldroyd, che dopo il suo Lady Macbeth, con cui ha imposto all’attenzione generale il talento di Florence Pugh, torna a dare vita a un dramma a trazione femminile con protagoniste due delle migliori attrici delle rispettive generazioni, Thomasin McKenzie e Anne Hathaway.

    Ci troviamo nel New England degli anni ’60, rigido sia dal punto di vista climatico che da quello etico e morale. Mentre si avvicina il Natale, la vita della giovane Eileen (Thomasin McKenzie), sospesa fra un insoddisfacente impiego in un carcere minorile e la cura del padre alcolizzato, viene improvvisamente sconvolta dall’arrivo nell’istituto della psicologa Rebecca (Anne Hathaway). Attraversata da una fortissima carica erotica nei confronti della nuova arrivata, Eileen inizia con lei un rapporto sempre più stretto, fatto di sottili sfumature e di emblematici non detti. La violenza che cinge il carcere irrompe però nella vita delle due donne, portandole in territori oscuri e pericolosi.

    Eileen: Thomasin McKenzie e Anne Hathaway in un torbido thriller psicologico

    Eileen

    Il lavoro di William Oldroyd (tratto dall’omonimo romanzo di Ottessa Moshfegh) è una storia di prigioni, fisiche ed emotive. La rigida e austera struttura del carcere riverbera infatti nell’animo delle protagoniste, entrambe insoddisfatte delle loro esistenze, anche se per motivi diversi. Da una parte abbiamo Eileen, assalita da dubbi, imbarazzi e pulsioni contrastanti, perfettamente tratteggiate da Thomasin McKenzie, che conferma le doti interpretative messe già in mostra in Jojo Rabbit, Old e Ultima notte a Soho. Dall’altra parte Rebecca, che è presenza eterea e aggraziata all’interno del carcere ma allo stesso tempo potenziale dark lady, grazie alla solita superba Anne Hathaway, di nuovo alle prese con un personaggio ambiguo e per certi versi inquietante dopo Mothers’ Instinct.

    Il sentimento fra le due cuoce a fuoco lento, con una sensualità lambita dal regista ma mai deflagrante, se non nell’immaginazione e nel desiderio represso di Eileen. Un labirinto di emozioni e di passioni, che proprio nel momento in cui crediamo di essere arrivati all’uscita si rigenera sterzando in direzione del thriller, pur mantenendo la sua carica erotica. Un cinema ambizioso e rischioso, e in quanto tale da difendere e proteggere anche quando i risultati si collocano al di sotto delle potenzialità, come in questo caso.

    L’ottimo lavoro delle protagoniste

    In un continuo peregrinare fra suggestioni pruriginose e tensione sentimentale e criminale, con la cornice dell’America bigotta e puritana dell’epoca, William Oldroyd trasforma il film in un racconto a immagine e somiglianza della sua impacciata giovane protagonista, che proprio come lei non riesce mai a spiccare definitivamente il volo, nonostante le ottime premesse. Un’opera costantemente e volutamente trattenuta, con risultati contrastanti.

    Non si può che lodare il lavoro svolto dalle due protagoniste e in particolare da Thomasin McKenzie, che non soffre minimamente il confronto con la più celebre ed esperta collega, ma al contrario le tiene testa con un’interpretazione dai registri opposti e complementari, fatta di sguardi ammaliati, di piccoli tic nervosi e di tante malcelate fragilità. La svolta che dà il via a un terzo a un terzo atto intriso di violenza, inganni e sogni infranti raccoglie i frutti di questo lavoro sulle interpreti, lasciando spiazzati e al contempo amareggiati per una parabola esistenziale condannata al crimine e alla frustrazione.

    Eileen

    Nonostante ciò, si ha la sensazione che il risultato sia minore della somma delle sue notevoli parti, principalmente a causa di una scrittura in eccessivo controllo, che si limita ad alludere senza mai scavare a fondo. Del sublime cinema di Alfred Hitchcock resta così solo l’ossatura, con esiti comunque apprezzabili ma non travolgenti.

    Eileen è disponibile nelle sale italiane dal 30 maggio, distribuito da Lucky Red e Universal Pictures.

    Dove vedere Eileen in streaming

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    6.5/10

    Valutazione

    William Oldroyd firma un thriller psicologico dalle buone potenzialità e con due ottime protagoniste, che tuttavia non riesce mai a spiccare definitivamente il volo.

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    Essi vivono: recensione del film di John Carpenter

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    Essi vivono

    «Dovete capire una cosa: è un documentario. Non è fantascienza». È John Carpenter in persona a chiarire nel corso di un’intervista la sua personale visione di Essi vivono, una delle sue opere più conosciute e amate. Una posizione netta e limpida, come netto e limpido è questo straordinario film del 1988 che, anche se nel corso del tempo è stato scioccamente tirato per la giacchetta per sostenere le più disparate fesserie o le più bizzarre teorie del complotto, non ha perso una virgola del suo fascino incendiario, diventando al contrario sempre più lucido e attuale.

    Essi vivono prende spunto da Alle otto del mattino, un racconto del 1963 di Ray Nelson, ma la sua principale fonte di ispirazione è la società statunitense dell’epoca, all’apice della Reaganomics e dello yuppismo, a loro volta discendenti diretti del più cinico e bieco capitalismo. Un sistema marcio e corrotto, che cavalcando gli ultimi resti del famigerato sogno americano ha spinto l’intero Occidente a un consumismo sfrenato, in direzione di uno stile di vita al di sopra delle proprie possibilità economiche e verso il mito del successo professionale a ogni costo, lasciando soltanto macerie e aumentando le disparità sociali.

    In questo desolante quadro facciamo la conoscenza di un personaggio che è letteralmente nessuno, ovvero John Nada, perfetto per l’attore feticcio di John Carpenter, Kurt Russell, ma interpretato invece Roddy Piper, di professione wrestler ma prestato con successo alla recitazione, anche se privo di particolari doti espressive.

    Essi vivono non è un film di fantascienza, è un documentario

    Nada è l’emblema della metà del cielo di cui il capitalismo non si interessa, ovvero un’impressionante moltitudine di poveri e precari, privi di qualsiasi tipologia di tutela o sussidio. Lo vediamo spostarsi da Denver a una fosca Los Angeles, munito solo di uno zaino e di un sacco a pelo, alla speranzosa ricerca di un lavoro. Dopo essersi scontrato con l’insensatezza del sistema, sotto forma di ufficio di collocamento, l’uomo trova un instabile impiego come operaio in un cantiere edile nei pressi di una baraccopoli, stringendo inoltre amicizia con il suo collega nero Frank Armitage (Keith David, già diretto da John Carpenter ne La cosa). Mentre la sua esistenza sembra incanalarsi verso una pallida imitazione della normalità, Nada si imbatte fortuitamente nelle misteriose attività di una chiesa situata in mezzo al più totale degrado.

    Fra predicatori che esortano a un risveglio, messaggi televisivi che si sovrappongono brevemente alle normali trasmissioni e inquietanti messaggi registrati, Nada trova una scatola piena di occhiali da sole. Dirigendosi verso un’area popolata, indossa uno di questi oggetti, che gli rivela l’agghiacciante realtà. Sotto le sembianza di cartelloni pubblicitari, schermi e riviste, si celano messaggi subliminali come “Obbedite“, “Restate addormentati“, “Non pensate“, “Consumate“, “Sposatevi e riproducetevi“, “Non mettete in dubbio l’autorità“. Nada scopre inoltre che fra le persone benestanti, le forze dell’ordine e le figure di potere si nascondono esseri alieni dalla testa di zombie, tutti parte della medesima cospirazione, nonché allarmati nel momento in cui scoprono che l’uomo è in grado di riconoscerli.

    Lo sguardo aspro e corrosivo di John Carpenter

    Non è un caso che questa epifania su un mondo in cui informazione, intrattenimento e istituzioni fanno tutte parte di un sistema volto a controllare e soggiogare il popolo arrivi dal basso, per la precisione da un uomo di cui non sappiamo nulla ma che ha chiaramente perso tutto, ancora fedele alla propria patria («Io credo nell’America. Io seguo le regole», dice) nonostante la palese assenza di qualsiasi forma di ascensore sociale per una persona nelle sue condizioni.

    La prospettiva perfetta per lo sguardo aspro e corrosivo di John Carpenter, che non risparmia nessuno: persone che in televisione ambiscono a diventare famose e a essere seguite e ammirate (decenni prima di influencer e content creator), forze dell’ordine pronte a reprimere con la forza qualsiasi forma di dissenso (nulla è cambiato in questo senso), mass media pronti a fare la loro parte per ammansire il popolo, con sinistri richiami all’altrettanto formidabile Videodrome di David Cronenberg. Uno scenario disarmante e diretto a folle velocità verso l’apocalisse (tema portante dell’ideale trilogia di John Carpenter composta da La cosa, Il signore del male e Il seme della follia), che ha il merito di anticipare anche i disastri ambientali odierni, parte del piano di sfruttamento del pianeta da parte degli alieni.

    Fra Lovecraft e i B-Movie

    Essi vivono

    Essi vivono procede con il passo del B-Movie, fra richiami alla fantascienza sociale di Ultimatum alla terra a L’invasione degli ultracorpi, uno sfrontato e acido umorismo («I have come here to chew bubblegum and kick ass. And I’m all out of bubblegum», afferma Nada, adattato in italiano nel non altrettanto efficace «Raccomandate l’anima al vostro creatore: sono venuto ad annientarvi… Anche perché ne ho le palle piene!») e volute esagerazioni visive e narrative. Fra queste c’è sicuramente la celeberrima rissa fra il protagonista e Frank Armitage, nome che costituisce un omaggio a L’orrore di Dunwich di Howard Phillips Lovecraft e che lo stesso John Carpenter sceglie come proprio pseudonimo per la sceneggiatura.

    In questa lunga scazzottata, in cui Roddy Piper sfrutta nel migliore dei modi le sue doti di lottatore professionista, Nada impone con la forza a Frank di guardare una realtà che semplicemente non vuole vedere, per quieto vivere e per la propria stabilità emotiva. Una vera e propria opera di convincimento fatta di calci e pugni, dalla valenza simbolica ben più profonda di un semplice scontro fisico, che il regista non a caso colloca al centro del racconto, dividendolo idealmente in due segmenti, uno più concettuale e l’altro più sbilanciato verso l’azione.

    Una digressione volutamente esasperata da John Carpenter, che nel corso degli anni gli ha procurato numerose critiche per la presunta durata eccessiva di 6 minuti scarsi. Ci aspettiamo che lo stesso metro di giudizio venga riservato ad alcune serie televisive contemporanee dalla narrazione dilatata a dismisura per diverse ore, ma rischiamo di rimanere delusi.

    Essi vivono: un attacco diretto al capitalismo

    Essi vivono

    Il regista fonde la sua radicale visione politica con un racconto di invidiabile purezza, capace di soddisfare sia le esigenze in termini di narrazione e spettacolo, sia gli spettatori in cerca di un intrattenimento più concettuale. La metafora è scoperta, come la critica a un sistema che arriva nel momento del suo massimo e illusorio splendore, quindi ancora più acuta e lungimirante. Essi vivono ci invita infatti ad aprire gli occhi per guardare veramente un sistema che si nasconde solo in parte e che ognuno di noi non fa che alimentare continuamente. Un circolo vizioso fatto di annullamento degli istinti, delle passioni e delle aspirazioni delle persone, di indottrinamento in direzione di modelli insostenibili e di emarginazione di ogni voce discorde.

    They Live, We Sleep“, legge Nada, esplicitando una dinamica che non accenna a indebolirsi e che solo gli spettatori più ingenui e prevenuti possono scambiare per una mera allegoria dei presunti poteri forti di turno, in ambito economico, politico, tecnologico, etnico o scientifico. Come ribadito da John Carpenter in un tweet del 2017, Essi vivono ha un solo grande bersaglio, cioè il capitalismo, sostenuto involontariamente anche da chi capitalista non è (o non pensa di essere). Nella sua percorso di violenza e alienazione, Nada non si scontra solo con pericolosi e inquietanti extraterrestri, ma anche con tanti umani che li appoggiano e collaborano con loro, perché inconsapevoli del quadro generale, troppo debolì per resistere o convinti di ricevere favori o ricompense per il loro doppio gioco.

    Essi vivono e le sue sbalorditive intuizioni

    Essi vivono

    Ragione per cui è ingiusto ridurre a un semplice concentrato d’azione a sfondo fantascientifico la seconda parte di Essi vivono, che ha al contrario il merito di scoprire gli ingranaggi del complotto ai danni dei terrestri. Fra sbalorditive intuizioni (il porto intergalattico tramite il quale gli esseri alieni si spostano, che non può che ricordare gli sforzi odierni sempre più insistiti in direzione di un possibile turismo spaziale) e una spinta rabbiosa e ribelle sempre più dirompente, emerge la doppiezza del personaggio di Holly Thompson (Meg Foster), che prima viene presa in ostaggio da Nada, poi finge di essere dalla stessa parte del protagonista e infine rivela la sua vera natura di collaborazionista, seguita a ruota da uno degli abitanti della baraccopoli, fiero della sua nuova ripulita immagine.

    Un quadro umano e sociale raggelante, perfettamente in linea con il pessimismo che contraddistingue il cinema di John Carpenter, alleggerito però dallo sferzante umorismo del regista, che con orgoglio e irriverenza arriva addirittura ad autocitarsi nel momento in cui un opinionista televisivo (ovviamente alieno) sproloquia «Tutto quel sesso e quella violenza che si vedono sullo schermo si sono spinti troppo oltre per me. Ne ho abbastanza. Registi come George Romero o John Carpenter, ecco, si può dire che sono semplicemente…», interrotto dallo svelamento finale della cospirazione.

    Il finale di Essi vivono

    Con l’ultimo folle e autodistruttivo atto di ribellione di Nada si chiude questo capolavoro dal basso budget (appena 3 milioni di dollari) ma forte di una visione ben precisa del mondo e della narrazione, che ne fanno ancora oggi un’esperienza indispensabile per la cinefilia. Un’opera che continua a scolpire nell’immaginario collettivo (anche nel campo dell’abbigliamento), a stimolare riflessioni sempre più urgenti e a cercare di squarciare il velo di Maya che ci separa da un mondo più equo e sereno.

    «Oggi possiamo dimostrare che avendo seguito fedelmente il nostro schema ideologico, siamo riusciti nell’intento di mettere l’economia americana al servizio dei nostri obiettivi politici. Se i nostri alleati terrestri manterranno la loro attuale linea politica nei nostri confronti, il loro cammino economico sarà in ascesa. Infatti, riducendo la spesa dei nostri armamenti, abbasseremo enormemente l’inflazione interna perché la nostra politica sociale, oltre a salvaguardare la sicurezza della nostra sopravvivenza, desidera anche collaborare per il progresso del Paese che ci sta ospitando. Il nostro esercito è riuscito a sterminare quasi tutti i rivoltosi e la loro emittente televisiva è stata distrutta; resteremo forti e uniti per difendere la pace, continueremo a lavorare per la prosperità».

    Essi vivono

    Essi vivono in Home Video

    Dove vedere Essi vivono in streaming

    Al momento non disponibile su nessuna piattaforma.
    Overall
    10/10

    Valutazione

    John Carpenter firma un’incendiaria e amara riflessione sul capitalismo, con un disperato action fantascientifico più attuale che mai.

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    Eric: recensione della miniserie Netflix con Benedict Cumberbatch

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    Eric

    È curioso che una pietra miliare del cinema narrativo classico come Harvey, con protagonista il solito formidabile James Stewart, riemerga per la seconda volta nel giro di pochi giorni come fonte di ispirazione esplicita o implicita per un prodotto audiovisivo contemporaneo. Prima grazie a John Krasinski, che lo cita apertamente nel suo gradevole film per famiglie IF – Gli amici immaginari, poi in Eric, miniserie Netflix con protagonista Benedict Cumberbatch, con intreccio e toni decisamente più cupi.

    Stavolta non ci sono né simpatici conigli parlanti, né pittoresche creature animate, ma un gigantesco pupazzo di nome Eric che accompagna il protagonista Vincent nel momento più difficile e angosciante della sua vita. Benedict Cumberbatch, di ritorno alla serialità dopo il travolgente successo di Sherlock, dà infatti vita a un uomo ambiguo e tormentato, diviso fra il suo lavoro di burattinaio per un popolare show per bambini e la scomparsa del figlio di nove anni Edgar (Ivan Morris Howe), svanito nel nulla durante il tragitto verso la scuola, nella turbolenta New York degli anni ’80.

    Totalmente alienato e vittima delle sue dipendenze, Vincent si allontana dalla moglie e dai colleghi, dedicandosi alla ricerca del figlio insieme a Eric, una sua creazione con cui comunica continuamente, nell’imbarazzo di chi gli sta intorno. Sul caso c’è anche Michael Ledroit (McKinley Belcher III), detective nero e gay che deve convivere con i pregiudizi e con l’odio razziale.

    Eric: Benedict Cumberbatch in un dramma esistenziale in bilico fra realtà e immaginazione

    La creatrice Abi Morgan (The Hour) e la regista Lucy Forbes ci immergono in una New York torbida e a tratti angosciante, devastata dalla diffusione del crack, sconvolta dal dilagare dell’AIDS e impegnata a nascondere il suo lato meno scintillante, come i senzatetto e i tossicodipendenti. Uno scenario perfettamente in linea con la dolorosa parabola esistenziale di Vincent che, dopo aver vissuto un’infanzia all’insegna dell’anaffettività e dei farmaci a lui somministrati dai suoi ricchi genitori, in un perfetto contrappasso ha deciso di dedicare un’importante fetta del suo tempo alla missione di rendere felici i bambini, attraverso la creazione di buffi personaggi. Una scelta che non lo mette però al riparo dai suoi demoni personali e dalle conseguenze di un beffardo destino, acuite dal senso di colpa per non aver accompagnato a scuola Edgar nel maledetto giorno della sua scomparsa.

    Nel corso di 6 asciutti episodi, Eric segue le ricerche del piccolo Edgar, mascherandosi da crime per poi allargare progressivamente il campo di azione, spaziando liberamente fra cospirazioni governative e lucida analisi sociale. Temi che ruotano soprattutto intorno alla figura di Michael Ledroit, sempre più centrale all’interno della narrazione. Grazie alla convincente prova di McKinley Belcher III, seguiamo la dolorosa lotta quotidiana di questo detective, che deve scontrarsi sia con la discriminazione nei confronti della comunità afroamericana, sia con quella legata alla sua omosessualità, che è costretto a celare non solo per l’arretrata morale dell’epoca, ma anche per la paura generale per la diffusione dell’AIDS, accompagnata dall’ignoranza.

    I protagonisti di Eric

    Eric

    Dal canto suo, Benedict Cumberbatch aggiunge un’altra pregevole interpretazione al suo già formidabile curriculum, tratteggiando con invidiabile espressività la discesa agli inferi di un uomo mentalmente instabile, che paradossalmente riesce a scorgere una flebile luce in fondo al tunnel proprio grazie agli abissi della sua psiche e ai dialoghi con un personaggio immaginario, unica sua ancora di salvezza. Un personaggio riuscito e tridimensionale, grazie anche a un ottimo lavoro di scrittura, che non indora mai la pillola ma al contrario mette in evidenza tutti gli aspetti negativi e respingenti di questo personaggio, valorizzandone così anche gli slanci di umanità.

    Eric trae forza e intensità dai suoi personaggi principali, delineando due solitudini diverse ma complementari, in una cornice umana e sociale desolante, all’interno della quale proliferano violenza, corruzione e dipendenza. La miniserie non è però altrettanto centrata nella sua componente prettamente investigativa, che risente in particolare di una scelta narrativa abbastanza discutibile sul personaggio di Edgar, colpevole di togliere un’importante fetta di fascino e mistero all’intera vicenda. Sorprendentemente, ci si ritrova così ad appassionarsi più alle dinamiche personali di Michael Ledroit e Vincent che alla sparizione di un bambino innocente, cioè la principale leva emotiva dell’intera miniserie.

    Un epilogo non del tutto riuscito

    Eric

    Fra sospetti, false piste, deflagrazioni familiari e squallore generalizzato, Eric sfocia in un epilogo eccessivamente conciliatorio, che stona con la miserie umana e sociale esposta con dovizia di particolari negli episodi precedenti. Una conclusione che non priva dei suoi meriti una miniserie ben sopra alla media delle produzioni omologhe recenti, ma che toglie incisività a un racconto a tratti particolarmente toccante, capace di scavare nei più reconditi anfratti dell’animo umano e di dare diverse sfumature di senso alla follia e al concetto di sotterraneo, veri e propri protagonisti aggiuntivi di una New York asfittica e malsana.

    Eric è disponibile dal 30 maggio su Netflix.

    Overall
    7/10

    Valutazione

    Eric si rivela una toccante e dolorosa riflessione sul lato oscuro dell’animo umano e della New York degli anni ’80, penalizzata però da qualche scelta narrativa non del tutto efficace.

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