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Paolo Scquizzato: Per far fiorire il «vero sé»

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Qui l'introduzione a questo testo.

Limite 

Il termine “limite” deriva da due differenti sostantivi latini, limes (limitis) e limen (liminis). Il primo indicava la linea, il sentiero sul terreno che segnava la divisione, il confine di due campi, due territori, due domini. In termini militari era la strada presidiata dai soldati, la strada fortificata; pertanto un’accezione negativa di confine, di barriera invalicabile. D’altro canto, la parola limen significa “soglia”, nella duplice accezione di “varco”, “apertura” oppure qualcosa che impedisce di proseguire oltre, qualcosa di costrittivo, angusto, soffocante, castrante.

Erano detti limites anche i grossi massi che gli antichi romani posavano a margine del loro territorio, pietre che non potevano essere rimosse perché ritenute sotto protezione di divinità, chiamate Limite o Termine. Il limite è dunque qualcosa di sacro, luogo dove abita una presenza divina, perciò qualcosa di fecondo, di vivo. 

Quindi il concetto di limite si espande fino a comprendere anche quello di possibilità. C’è una possibilità: non oltre il limite, ma nel limite stesso. 

La questione non è dover sempre superare il limite per fare esperienza del nuovo, ma sapere che in quel preciso limite si possono esperire nuove possibilità. Abitando il limite, e non necessariamente scavalcandolo, si sperimentano forze, energie nuove. Accogliendo – ma assolutamente non accettando – il proprio limite, si fa esperienza di qualcosa di nuovo in noi. 

Il domenicano brasiliano, scrittore e teologo Carlo Alberto Libânio Christo (1944), più noto come Frei Betto, nel suo saggio Dai sotterranei della storia ha scritto: «L’uomo scopre sé stesso solo quando è collocato di fronte ai propri limiti». 

Etty Hillesum (1914-1943) scrive nel suo diario: «L’attività passiva del soffrire rettamente implica sopportazione ed accettazione di ciò che non può mutare e grazie a questo si liberano nuove forze» (Diario 17.3.1941). Nel vivere in maniera consapevole e attiva la situazione di limite, senza poter fuggire o rifugiarsi in luoghi consolatori, si sperimenteranno nuove forze, energie magari ritenute prima del tutto sconosciute. 

Riportiamo un’esperienza. Siamo nel 1975. Il grande pianista statunitense Keith Jarrett (1945) deve tenere un concerto all’Opera di Colonia. C’è sold out: i 1400 posti del teatro sono stati tutti venduti. Il concerto fa parte di un tour cominciato due anni prima. Giunto al teatro poche ore prima del concerto per provare il piano, Jarrett constatò che non vi era lo strumento pattuito. Jarrett suona solo su un Bösendorfer 290 Imperial da 97 tasti; i comuni pianoforti ne hanno 88. Jarrett ha bisogno di spaziare sia verso i bassi che verso gli alti con tutta libertà. Il pianoforte è sì un Bösendor fer ma non con quella estensione e soprattutto è incredibilmente scordato e ha un pedale rotto. Jarrett ha 29 anni ed è già molto famoso in tutto il mondo; non può permettersi di sbagliare un concerto nel suo primo grande tour europeo. Lascia il teatro indispettito. Ha deciso di non esibirsi. Va a cena. L’organizzatrice del concerto è una giovanissima donna di 19 anni. Quel concerto era l’occasione della sua vita. Supplica Jarrett di tenere il concerto, promettendo di farlo accordare; recuperare il pianoforte pattuito è impossibile. 

Ma il musicista è convinto. Non suonerà. La ragazza in pianto e disperata gli dice: fallo per me. Alla fine, Jarrett accetta. Lo strumento è accordato, ma molto al di sotto delle esigenze del pianista. Le ottave più basse e quelle più alte – oltre a non avere le ottave estese come desiderava – non erano accordate perfettamente. 

Alle 23.30 Keith Jarrett sale sul palco e succede l’incredibile. Per un’ora il pianista americano improvvisa musica. Usa esclusivamente la parte centrale e limitata della tastiera. Proprio perché sa che il pianoforte non è adatto, ci mette un’energia e un’intensità che i suoi fan non hanno mai visto e che non vedranno mai più. 

Jarrett ha accettato di muoversi nel limite impostogli dalle circostanze ed è nato un capolavoro. The Köln concert è considerato oggi il più famoso album jazz mai pubblicato, con 3 milioni e mezzo di copie vendute. 

Altre storie possono esprimere bene il significato dell’esperienza del limite. Per esempio, quella dell’attore Nicholas James Vujicic. Primogenito di una famiglia serba cristiana, Nick Vujicic è nato a Melbourne in Australia nel 1982 con una rara malattia genetica: la tetramelia. Ciò significa che è privo di arti, braccia e gambe, eccetto i suoi piccoli piedi, uno dei quali ha tre dita. Inizialmente, i suoi genitori rimasero sconvolti per le sue condizioni. Nick ha imparato a scrivere usando le due dita del suo “piede” sinistro, e un dispositivo speciale che si aggancia al suo grande alluce. Ha anche imparato a usare un computer e a scrivere usando il metodo “punta tacco” (come fa vedere durante i suoi discorsi), a lanciare palle da tennis, rispondere al telefono, radersi e versarsi un bicchiere d’acqua (mostra anche questo nei suoi discorsi). Ha cominciato a viaggiare come uno speaker motivazionale, concentrandosi sull’argomento dei giovani di oggi. Ha tenuto discorsi anche in molte aziende, in quanto il suo scopo era quello di diventare uno speaker ispiratore internazionale. Viaggia regolarmente per parlare a congregazioni cristiane, scuole, imprese. Fino a oggi ha parlato a più di due milioni di persone, in dodici Paesi di cinque continenti. 

Straordinario poi il cortometraggio Il circo della farfalla del 2009 per la regia di Joshua Weigel: si racconta la storia di un circo particolare, dove chi vi lavora vive una vera e propria metamorfosi. È un mondo nel quale ognuno, nella sua diversità, ha un posto. Dove tutti vengono incoraggiati a scoprire le proprie potenzialità e si aiuta chi ancora non ha avuto il coraggio o la capacità di trovarle. Dove non ci sono primi posti e ultimi. Dove non esistono raccomandazioni. Dove le persone non si sentono sminuite perché viene detto loro che non ce la faranno mai. Un mondo dove le persone non devono vergognarsi di mostrare le proprie fragilità. Dove i propri sogni non devono essere nascosti. I lavoratori rimangono sempre loro, ma il direttore li trasforma aiutandoli a scoprire tutte le loro potenzialità. Li fa sbocciare. Non li cambia ma li aiuta a trasformarsi. Ciascuno con i suoi limiti, ma proprio grazie a queste persone straordinarie, bellissime. 

«Se solo tu potessi vedere la bellezza che può nascere dalle ceneri, se tu potessi vedere ciò che di meraviglioso c’è in te. Più grande è la lotta e più glorioso sarà il trionfo! Non è importante dove sei ora, è importante dove stai guardando». 

La Chiesa dovrebbe essere proprio un “Circo della farfalla”. Una comunità educante, che aiuta le persone a trasformarsi in donne e uomini capaci di volare, in virtù della bellezza, delle potenzialità che portano dentro di sé. 

La Chiesa è la realtà, madre, che deve fornire ali di farfalla a chi si è sempre ritenuto un verme. La storia ci dice che spesso è stata l’istituzione matrigna a tarpare le ali. 

Ciò che per troppo tempo è stato insegnato e trasmesso è il dovere di angelicarsi. Diventare angeli. No. Viviamo nel limite, ma possiamo trasformarci attraverso quello che siamo e non malgrado ciò che siamo. Abitiamo il limite. 

Il giornalista e scrittore triestino Paolo Rumiz (1947) nel suo libro Il filo infinito scrive: «La felicità sta nel perimetro». A ciascuno di noi il compito di abitare il limite, stare dentro il nostro perimetro, ma non come tomba mortifera, ma come luogo di possibilità per poter spiccare il volo. 

Vuoto 

Siamo stati abituati a riempire la vita, l’agenda, le giornate di tante cose per non venire a contatto col vuoto che ci abita. E quando il tempo e le circostanze ci inducono finalmente ad abitarlo, ne proviamo orrore. È tipico dell’Occidente infatti l’horror vacui. 

Il primo a usare questa espressione è stato Aristotele per dire che «la natura rifugge il vuoto». 

L’angoscia per i luoghi molto ampi dove c’è senso di vuoto in psicologia è considerata una vera e propria patologia cui si è dato il nome di agorafobia o cenofobia. 

Del resto, tuttavia, anche se non si arriva a tanto, tutti abbiamo sperimentato talora come la sensazione di vuoto prenda alla gola e allo stomaco. Ci si ritrova disarcionati da ciò che si reputava incrollabile, sicuro e per sempre. 

Il sentimento che prevale è quello dell’angoscia e della disperazione. Ma è tutto così solamente drammatico? O nelle situazioni di indubbia difficoltà, il vuoto può costituire qual cosa di positivo? 

Come spiega molto bene nel libro Vivere le parole, dove ha raccolto i suoi interventi pubblicati nel corso degli anni nella rubrica “Abitare le parole” de Il Sole 24 ore, monsignor Nunzio Galantino (1948), che cita in proposito una considerazione di quel prete straordinario che è don Angelo Casati, scrive: 

«Il vuoto cercato, accolto e custodito non è mancanza. È spazio denso, carico di dolore e di aspettative, di prospettive e di risorse. È spazio di libertà e di creatività. Può essere inizio di vita autentica e grembo di vita piena. A patto che siamo disposti a non privarci della “forza del vuoto, del privilegio della solitudine, della ricchezza della contemplazione e del lusso impagabile della distrazione” (A. Casati), diradando la fitta foresta di impegni e tornando a vivere nel regno dell’autentico». 

Quindi c’è una positività del vuoto, come grembo fecondo, come possibilità, come forza a patto che se ne sappia diventare consapevoli. Fin da piccoli siamo stati educati a non lasciare spazi vuoti, a non essere inattivi. 

La filosofa Simone Weil (1909-1943) afferma: «La grazia è senza sforzo». Semplicemente accade e non perché si sia posto previamente un atto – «non si può fare un solo passo verso il cielo» – ma perché, continua la filosofa – «se si contempla il cielo alla fine il cielo arriverà». 

Viene alla mente, subito, un libro cult della cultura zen contemporanea, Lo zen e il tiro con l’arco del filosofo tedesco Eugen Herrigel (1884-1955). In questo breve prezioso romanzo si afferma che esiste una modalità di essere, precisamente uno stato «in cui non si pensa, non ci si propone, non si persegue, non si desidera né si attende più nulla di definito, che non tende verso nessuna particolare direzione ma che per la sua forza indivisa sa di essere capace del possibile come dell’impossibile – questo stato interamente libero da intenzioni, dall’Io, il Maestro lo chiama propriamente “spirituale”». 

La trovo una definizione splendida di ciò che possiamo intendere per spiritualità, o meglio per vita spirituale. Se si vive a questo livello, si sperimenterà prima o poi l’accadimento della grazia, per dirla con la Weil. 

La vera arte, esclamò allora il Maestro, è senza scopo, senza intenzione! Quanto più lei si ostinerà a voler imparare a far partire la freccia per colpire sicuramente il bersaglio, tanto meno le riuscirà l’una cosa, tanto più si allontanerà l’altra. Le è d’ostacolo una volontà troppo volitiva. Lei pensa che ciò che non fa non avvenga (da Lo zen e il tiro con l’arco). 

Bellissimo: «Lei pensa che ciò che non fa non avvenga». Ma in fondo lo pensiamo tutti. Se non facciamo come può avvenire qualcosa? 

La grazia è senza sforzo, appunto. È ciò che dice Lao Tse, il filosofo cinese vissuto nel VI secolo a.C. e fondatore del taoismo: «Il saggio, senza agire, opera». 

E che ha detto anche Leonardo da Vinci: «L’artista, quanto meno opera, tanto più crea». 

Il vuoto è aver eliminato l’ostacolo di una volontà troppo volitiva. Essersi sbarazzati del voler conseguire lo scopo a tutti i costi, del voler vedere realizzati i propri desideri. In fondo Gesù ci ha sempre messo in guardia da tutto ciò: «Chi perderà la propria vita la salverà» (Mc 8,35). 

Il vuoto non è “niente”, è grembo della possibilità. Fare tana nel vuoto significa “mollare la presa”, stupendosi – come detto sopra – che esiste una creatività indipendentemente dall’opera compiuta. 

Mollare la presa significa vivere il distacco. Se ci distacchiamo da tutto – ci ricorda la tradizione mistica – emergerà ciò che è l’essenza vera dell’uomo, che non è né il corpo, né la psiche, ma il fondamento che non conosce mutamento, «la sostanza dell’anima» come direbbe il grande mistico spagnolo del XVI secolo Giovanni della Croce, Dio stesso. In questo modo si è giunti alla beatitudine, che non è semplice pia cere o felicità. È qualcosa che non dipende da fattori esterni, che rimane comunque, anche se tutto il resto crolla, e per questo non si ha più paura di nulla. La vita può conoscere eventi tragici, ma noi sappiamo che nel profondo dell’essere umano riposa un centro, il Logos, il divino stesso, un inalienabile fondo dell’anima che è ancoraggio, stabilità, grande beatitudine che non viene toccata neanche dall’esperienza più negativa che si possa verificare. 

Se è vero che la divinità giace nel fondo dell’anima come ci ricorda la mistica, e se il nostro piccolo io, il nostro ego non sarà più ancorato, attaccato a qualcosa di esterno – aspettative, desideri, posizioni sociali, titoli – allora l’uomo cadrà inevitabilmente come la mela di Newton. Dove? Nella divinità. La divinità per natura, come la sabbia, l’acqua, riempirà tutto ciò che è vuoto. Possiamo dire che Dio rifugge il vuoto perché lo riempie. Meister Eckhart ha scritto: «Dove e quando egli ti trova pronto, cioè vuoto, deve operare ed effondersi in te, proprio come il sole non può fare a meno di effondersi, e nulla può trattenerlo, quando l’aria è limpida e pura». 

Con la religione abbiamo tentato di creare, edificare, costruire per poter in qualche modo legarci alla divinità. Ma abbiamo sortito l’effetto contrario. Abbiamo offuscato la divinità, perché per farne esperienza è chiesto piuttosto un atto di decostruzione, fare spazio, sottrarre, e soprattutto sprofondare nel non-sapere di Dio. 

Il primo libro della Bibbia ci ricorda che Dio ha “creato” il sabato, ovvero il giorno vuoto di attività umana; ogni lavoro è vietato. La sapienza ebraica si rese conto che è necessario per l’uomo vivere almeno un giorno alla settimana una dimensione di vuoto, astenendosi dall’opera, dai traffici, dall’edificazione per lasciarsi finalmente raggiungere. La vita è data da ciò che riceviamo e non tanto da ciò che produciamo. Si provi a pensare l’aria che respiriamo, l’acqua che beviamo, l’amore che ci salva: non produciamo nulla: accogliamo tutto e ci compiamo. 

Sempre la sapienza ebraica ci parla dell’obbligo della circoncisione per ogni figlio maschio. A otto giorni, il bambino ebreo viene circonciso, e attraverso questo taglio della pelle, l’asportazione del prepuzio egli entra nell’Alleanza, nell’abbraccio della divinità. A dire che l’esistenza proviene dal vuoto. Questa mancanza di pelle, ormai indelebile, questo vuoto, ricorderà per tutta la vita all’uomo, da una parte la sua incompiutezza, dall’altra il bisogno di lasciarsi raggiungere da ciò che è essenziale. La circoncisione è memoria costante che il vuoto, la mancanza è possibilità di unirsi in una relazione e lì compiersi. 

Simone Weil insiste sulla necessità di rimanere nella situazione di non-ricompensa, che sia naturale o sovrannaturale. Attendersi qualcosa, dopo aver posto l’azione, in realtà non appartiene alla spiritualità, inficia la possibilità che possa raggiungerci ciò di cui abbisogniamo. 

Questa rinuncia a una ricompensa – fosse anche Dio – è la conditio sine qua non perché qualcosa in realtà possa accadere. Questo non significa uccidere il desiderio, ma piuttosto desiderare senza aspirazione, senza aspettativa. Attesa vuota di oggetto. Desiderio senza desiderare qualcosa, nella consapevolezza che nel momento in cui vivremo questo vuoto di aspettativa, potrà finalmente raggiungerci qualcosa che avrà il sapore anche dell’impossibile. La Weil nel suo saggio L’ombra e la grazia scrive: 

 «La grazia colma, ma può entrare soltanto là dove c’è un vuoto a riceverla; e, quel vuoto, è essa a farlo. Necessità di una ricompensa, di ricevere l’equivalente di quel che si dà. Ma se, facendo violenza a questa necessità, si lascia un vuoto, si produce come una corrente d’aria; e sopravviene una ricompensa sovrannaturale. Non verrebbe se si avesse un diverso salario: è quel vuoto a farla venire. Accade lo stesso con la remissione dei debiti (cosa che concerne non solo il male che gli altri ci hanno fatto, ma anche il bene che abbiamo fatto loro). Anche in questo caso si accetta un vuoto in se stessi. Accettare un vuoto in se stessi è cosa sovrannaturale. Dove trovar l’energia per un atto che non ha contropartita? L’energia deve venire da un altro luogo. E, tuttavia, ci vuole dapprima come uno strappo, qualcosa di disperato; bisogna, anzitutto, che quel vuoto si produca. Vuoto: notte oscura. L’ammirazione, la pietà (l’unione di questi due elementi, soprattutto) conferiscono una energia reale. Ma bisogna farne a meno. Bisogna rimanere qualche tempo senza ricompensa, naturale o sovrannaturale. È necessario farsi una rappresentazione del mondo in cui ci sia del vuoto, perché il mondo abbia bisogno di Dio. Ciò suppone il male. Amare la verità significa sopportare il vuoto; e quindi accettare la morte. La verità sta dalla parte della morte. L’uomo sfugge alle leggi di questo mondo solo per la durata di un attimo. Istanti di sosta, di contemplazione, d’intuizione pura, di vuoto mentale, di accettazione del vuoto morale. Sono questi istanti a renderci capaci di sovrannaturale. Chi sopporta per un momento il vuoto, o riceve il pane sovrannaturale, o cade. Terribile rischio, ma è necessario correrlo; e persino, per un momento, senza speranza. Ma non bisogna precipitarvisi. […] Nel mio diventare nulla, Dio ama se stesso, in questo nulla. Ama il vuoto. L’attaccamento alle cose mi fa vedere le cose, me stesso, in un certo modo. Un modo distorto. Illusione». 

Giovanni della Croce, in tutte le sue opere e in particolare nella Salita del Monte Carmelo, dice che per giungere al vuoto – e quindi per lasciarsi abitare dalla divinità – bisogna attraversare la notte e le notti. Per compiere la salita al Monte di Dio, occorre fare il vuoto, passando attraverso numerose notti. Ecco uno dei passi più noti di questo suo trattato, che si gioca tutto sul paradosso: 

«Per giungere a gustare il tutto, non cercare il gusto in niente. Per giungere al possesso del tutto, non voler possedere niente. Per giungere a essere tutto, non voler essere niente. Per giungere alla conoscenza del tutto, non cercare di sapere qualche cosa in niente. Per venire a ciò che ora non godi, devi passare per dove non godi. Per giungere a ciò che non sai, devi passare per dove non sai. Per giungere al possesso di ciò che non hai, devi passare per dove ora niente hai. Per giungere a ciò che non sei, devi passare per dove ora non sei. Quando ti fermi su qualche cosa, tralasci di slanciarti verso il tutto. E quando tu giunga ad avere il tutto, devi possederlo senza voler niente, poiché se tu vuoi possedere qualche cosa del tutto, non hai il tuo solo tesoro in Dio. 

In questa nudità lo spirito trova il suo riposo poiché non desiderando niente, niente lo appesantisce nella sua ascesa verso l’alto e niente lo spinge verso il basso, perché si trova nel centro della sua umiltà. Quando invece desidera qualche cosa, proprio in essa si affatica» (Da Salita del Monte Carmelo, libro I, cap. 13, 11-13). 

Giovanni dice: la fede non è una credenza. Può cominciare come credenza, un atteggiamento tipico del bambino, ma poi matura sino al non-credere-nulla. La fede è semplicemente conoscenza dello Spirito nello Spirito. Non si tratta di credere a questo e a quello, sarebbe dogmatismo, immagini, fantasie. Il santo carmelitano invita a togliere via tutto questo, perché questo è ancora finito, quindi non infinito e quindi non Dio. Un Dio costretto nel finito è idolo. Sì – ecco l’estrema conseguenza – occorre toglier via anche le immagini del divino, quindi la religione, il religioso. La rappresentazione. 

«L’immaginazione, la raffigurazione chiude le fessure dalle quali potrebbe giungerci la grazia», dice la Weil. La grazia, si è detto, è dono impossibile che si rivela nell’impossibile. 

Taulero (1300-1361), un altro grande mistico tedesco contemporaneo di Meister Eckhart, in uno dei suoi sermoni par la della pesca notturna e miracolosa di Gesù coi discepoli (Lc 5,3-8). Tutta la notte i discepoli lavorano, s’affaticano ma non prendono nulla. Ma proprio perché hanno sperimentato questo nulla hanno potuto trovare il Nulla, ossia Dio, che è il puro nulla. È l’esperienza del servo inutile del vangelo: «Un servo inutile compie opere inutili. No, veramente, nessuno vuol essere un servo inutile. Ognuno vuol sempre sapere di aver fatto qualcosa e là sopra egli costruisce segretamente e vuol esserne consapevole. No, cara figlia, non costruire che sul tuo puro nulla e gettati con ciò nell’abisso della divina volontà, qualsiasi cosa Dio voglia fare di te. […] Inabissati nella tua piccolezza, nella tua impotenza e ignoranza, e con ciò abbandonati all’alta nobiltà della volontà divina, e non lasciarti mescolare nell’altro, ma mantieniti misera e povera nella sua volontà» (Taulero, Sermone 63).


Stralci tratti dal recente libro di don Paolo Scquizzato, “Venire alla luce. Riflessioni per un tempo di crisi”, Collana Il Giardino del Silenzio (diretta da Paolo Scquizzato), Gabrielli editori 2024 https://bit.ly/3SN4883


Fonte: Adista


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