Fabrizio De André, una voce in direzione ostinata e contraria

"dalla parte degli ultimi"

Fabrizio De André, una voce in direzione ostinata e contraria

Cantautore genovese, racconta la fragilità umana in 131 brani. Le sue canzoni riscrivono la storia della musica italiana denunciando violenze, pregiudizi e soprusi, sempre “dalla parte degli ultimi”

«È bello che dove finiscono le mie dita, debba in qualche modo cominciare una chitarra». Con un ciuffo di capelli sul viso e lo sguardo schivo, Fabrizio De André si esibisce di fronte al pubblico del teatro Brancaccio di Roma. Canta Amico Fragile, uno dei brani più nudi e sinceri, in cui dissolve i confini tra vita e musica, tra uomo e cantautore. È il 1998 e “M’innamoravo di tutto” sarà per lui l’ultimo tour, ma ancora non lo sa. In quarant’anni di carriera, la sua opera rivoluziona la canzone italiana e influenza il tessuto sociale e culturale del proprio Paese, portando in musica temi fino a quel momento mai affrontati.

A venticinque anni dalla sua scomparsa, la forza delle sue idee è racchiusa in 131 brani come autore e co-autore, tra singoli e 14 album, che ancora oggi raccontano la fragilità umana. Faber si schiera dalla parte degli ultimi, raccontando storie di ribelli, reietti, antieroi, poveri diavoli, miserabili. Ispirati alle pagine di storia e letteratura, i suoi versi scavano tra le pieghe dell’umanità per cercarne il lato più autentico e farne poesia.

 

Fabrizio de André nel 1960

Fabrizio de André nel 1960

Foto: Pubblico dominio

Tutta un'altra musica

Fabrizio De André nasce a Genova il 18 febbraio 1940. La sua famiglia - di origine piemontese - abita a Pegli, quartiere residenziale del ponente. In casa si ascoltano i dischi del francese Georges Brassens, tra i maestri che negli anni successivi ispireranno ideali e poetica del cantautore. All’età di 8 anni Fabrizio prende lezioni di violino, cui presto preferisce la chitarra, ricevuta in regalo da mamma Luigia. Affiancato dal maestro colombiano Alex Giraldo, apprende stili e ritmi lontani dalla musica leggera italiana. In quegli anni, lo scenario musicale è dominato dai crooners, voci melodiche ispirate a celebrità come Frank Sinatra e Perry Como, mentre tra i giovani inizia a farsi strada una sensibilità diversa, che in una città portuale come Genova troverà interesse e respiro.

Il padre Giuseppe è un uomo di grande cultura, stimato e dedito al lavoro: prima insegnante, poi dirigente di un istituto tecnico, affianca alla carriera imprenditoriale l’impegno politico. Negli anni Cinquanta si avvicina al Partito Repubblicano Italiano, per cui diventa consigliere comunale, poi assessore e vicesindaco di Genova. Durante la Seconda guerra mondale la famiglia si rifugia a Revignano d’Asti, nelle campagne piemontesi, dove offre rifugio agli ebrei in fuga dai rastrellamenti fascisti. La fine del conflitto coincide con il ritorno dello zio Francesco dal campo di concentramento di Mannheim, mostrando agli occhi del piccolo Fabrizio di cosa è capace la crudeltà umana. Gli orrori della guerra tracciano in lui un solco silenzioso, da cui germoglierà il rifiuto verso ogni forma di violenza e sopruso.

Sulla "cattiva strada"

Dopo gli studi al liceo classico, il giovane frequenta Lettere e Medicina, poi tenta la strada di Giurisprudenza come il fratello Luigi, futuro avvocato, ma decide di non proseguire. Per qualche anno lavora come impiegato in uno degli istituti scolastici gestiti dal padre, mentre scrive le prime canzoni. La relazione conflittuale tra i due alimenta il desiderio di una via diversa da quella tracciata. Ha poco più di vent’anni e nessuna voglia d’indossare quella “camicia bianca”, che rappresenta il mondo da cui proviene.

Non è l’unico: sulla “cattiva strada” incontra altri figli ribelli dell’alta borghesia. Con loro s’intrufola nei carruggi della “Città vecchia”, in cerca dell’autenticità sgualcita che ne anima le viscere. Nei locali notturni condivide le prime esperienze musicali con altri cantautori della scuola genovese, come Gino Paoli e Luigi Tenco. Sarà l’amico Paolo Villaggio - scrittore e attore - a soprannominarlo Faber, ispirandosi alla marca di matite preferita dal giovane cantautore, che attraverso la musica costruisce un nuovo modo di raccontare ciò che fino ad allora non era mai stato racchiuso in una canzone.

 

Fabrizio De André assieme all'amico Paolo Villaggio, con cui ha condiviso gli anni dell'infanzia e della giovinezza

Fabrizio De André assieme all'amico Paolo Villaggio, con cui ha condiviso gli anni dell'infanzia e della giovinezza

Foto: Pubblico dominio

Il poeta degli sconfitti

Nel 1960 Fabrizio compone con Clelia Petracchi La ballata del Miché, il suo primo brano. Ispirato a un fatto di cronaca, racconta la storia un uomo immigrato dal sud Italia a Genova, incarcerato per omicidio e suicida per amore. Né la legge né la religione hanno pietà di lui. De André sfida la società a guardare con occhi diversi gli sconfitti e gli emarginati, in particolare le prostitute, che nei suoi brani ritrovano pudore e dignità. Lo fa con La canzone di Marinella (1966), con Bocca di Rosa e con le atmosfere di Via del Campo (1967), dove l’amore si acquista di nascosto, fino alla storia di Prinçesa (1996), giovane transgender brasiliana conosciuta in una comunità del sacerdote genovese don Andrea Gallo.

Faber spoglia la società da maschere e convenzioni: celebra le incrinature dell’animo umano, ne condanna le piccolezze, esalta l’eroismo degli umili, l’anarchia come forma di libertà e la follia come un’irriverente ribellione. Ironia e rime taglienti affossano i potenti e riscattano le vittime di sopruso, in una sorta di contrappasso contemporaneo. Ne fanno le spese personaggi come re Carlo Martello, sacerdoti, giudici, chiunque incarni l’ordine costituito. Nelle sue opere vita e morte sono spesso intrecciate, figlie della stessa storia, in cui il potere versa il sangue degli innocenti. Tra questi anche i soldati che, come ricorda La guerra di Piero, sono al contempo fiamma e vittima della paura altrui.

L'amore che salva

Nel 1962 Fabrizio sposa Enrica Rignon, detta Puny. Con lei ha il primo figlio, Cristiano, che seguirà le sue orme. Il loro matrimonio dura tredici anni: Faber ne racconta la tenerezza e la complicità, scintille di un sentimento infranto con la fine della relazione, quando i sogni sono stanchi, logorati dal tempo e dai silenzi. Ritrova l’amore pochi anni più tardi con Dori Ghezzi: la loro unione diventa ufficiale nel 1977 - dopo il divorzio da Puny - e dà alla luce la figlia Luisa Vittoria (Luvi). La famiglia si trasferisce a Tempio Pausania, in Sardegna, terra indomita e selvaggia come l’animo dei popoli che Faber ama raccontare nelle proprie canzoni.

Il 27 agosto 1979 la coppia viene rapita dall’Anonima sarda, organizzazione criminale che li tiene in ostaggio per 117 giorni, incappucciati e soli con i propri aguzzini. La loro cella è un fazzoletto di bosco di due metri per tre, dalle parti della Gallura occidentale. «Ci hanno tenuto compagnia le emozioni - racconta De André nelle interviste successive -, poi è prevalsa al monotonia». Da quell’esperienza nasce Hotel Supramonte, dove sulla violenza prevale una sorprendente dolcezza e l’assenza di rancore per l’orrore subìto.

Leggi anche: Piccole e grandi storie nei brani di Fabrizio De André

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I concept album e la lingua del sogno

L’opera matura di De André si distingue per la capacità di realizzare concept album giocati su assonanze e contrasti tematici. Tra questi La buona novella (1970) ispirato ai vangeli apocrifi e Non al denaro, Non all'amore né al cielo (1971), in cui prende spunto dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters. In uno dei più recenti (Fabrizio de André, 1981) accosta il popolo sardo e gli indiani d’America, cercando ancora una volta di raccontare l’altro lato della storia, quella travolta dai vincitori, in cui il supplizio degli oppressi quasi non fa rumore.

Negli anni Ottanta collabora con parolieri e cantautori contemporanei, tra cui Mauro Pagani, Ivano Fossati e Massimo Bubola. Si lascia ispirare dalla musica etnica e popolare nobilitando il dialetto, considerato la lingua dell’anima. Sceglie il napoletano per interpretare Don Raffaé (1990), ispirato dal camorrista Raffaele Cutolo, detenuto nella “reggia” di Poggioreale. Torna al genovese per Dolcenera (1996), in cui racconta la tragica alluvione che travolge Genova negli anni Settanta, e per Creuza de ma (1984), che ricorda il vociare della gente di mare e l’atmosfera dei porti, crocevia del mondo. Definitivamente consacrato alla fama con l’ultimo album Anime Salve (1996), Faber  celebra la solitudine, la diversità, spesso unite nel destino di chi si allontana, libero di essere, libero di partire.

 

De André con Francesco Guccini nel 1991 al Club Tenco

De André con Francesco Guccini nel 1991 al Club Tenco

Foto: Pubblico dominio

In direzione ostinata e contraria

Nel 1998, dopo il concerto al teatro Brancaccio di Roma, la malattia lo costringe ad abbandonare il palcoscenico. Nell’agosto dello stesso anno annulla la tappa a Saint-Vincent, cui segue la diagnosi tardiva: carcinoma ai polmoni. Nei mesi successivi lavora con Oliviero Malaspina ai Notturni, l’ultima raccolta, che rimarrà incompiuta. L’11 gennaio 1999 Fabrizio De André incontra la morte. «Non serve colpirla nel cuore», cantava in uno dei brani a lei dedicati. Stavolta le cede il passo, ma solo per continuare a cantare la vita nella musica che lascia dietro sé. Tornando ad essere vento, in direzione ostinata e contraria.

De André al teatro Brancaccio di Roma nel febbraio 1998, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche

De André al teatro Brancaccio di Roma nel febbraio 1998, in una delle sue ultime apparizioni pubbliche

Foto: Pubblico dominio

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