HEREAFTER - Spietati - Recensioni e Novità sui Film
Drammatico, Focus, Recensione

HEREAFTER

Titolo OriginaleHereafter
NazioneU.S.A.
Anno Produzione2010
Durata126'
Sceneggiatura
Fotografia

TRAMA

In seguito ad uno tsunami, una giornalista francese cambia orientamento e inizia ad investigare l’esistenza dell’aldilà. La sua strada si incrocerà con quella di un sensitivo di San Francisco e di uno sventurato bambino inglese.

RECENSIONI

Se l’aldilà (hereafter) è forse un luogo senza corpo, la vita è sicuramente un fatto di corpi. Virginia Woolf diceva che «finché l’uncino della vita resta in noi, noi dobbiamo contorcerci» nel corpo; che se la letteratura aveva da sempre trascurato il tema “universale” della malattia fisica per andare a inseguire oggetti più «nobili» (gli amori, le battaglie, le gelosie), «la verità – assicurava – è tutto il contrario. Il corpo interviene giorno e notte […] La creatura che vi sta rinchiusa può solo vedere attraverso il vetro, imbrattato o roseo» del corpo. Hereafter, che nulla ha a che vedere con Virginia Woolf, dice però una cosa molto simile rappresentando l’aldilà: e cioè che l’aldilà esiste ed è più o meno così – più o meno una luce e più o meno una grande sensazione di pace –, ma che ciò è vero, «reale», solo dentro l’occhio di vetro che lo vede; perché quella umana è una visione quasi di nuvole – avrebbe detto la Woolf –, costantemente ancorata al corpo che guarda il cielo. Essa quindi non può regolare verità né promettere salvezze: può, al massimo, essere condivisa. Sarà poi l’eroe (eastwoodiano) a scegliere di salvare se stesso e probabilmente anche l’altro, rispondendo alle sue esigenze e volontà, e reagendo al mondo che immediatamente lo circonda.

Campo di condivisione sotteso all’agire dei personaggi di Hereafter è, appunto, l’aldilà, l’esperienza del regno dei morti da loro diversamente vissuta. George è un sensitivo che vive a San Francisco; avuto il “dono” di comunicare con i morti in seguito a una delicata operazione alla testa, George «ha chiuso» con le sedute, lavora in fabbrica e tenta di vivere una vita che vuole a tutti i costi “normale”. La francese Marie è una giornalista televisiva scampata a uno tsunami; dopo aver visto la morte in faccia (ha la visione dell’aldilà sott’acqua, mentre sta annegando), inizia a indagare la sua esperienza della morte e a ripensare quella della sua vita. Marcus è un bambino inglese figlio di una tossicodipendente; perduto in un incidente il fratello gemello Jason, Marcus è deciso a colmare il vuoto lasciato da quella morte, ricercando un modo per entrare in contatto con il fratello. L’aldilà in queste storie – e così esperito dal punto di visione dei vivi – è un evento traumatico. È lo spartiacque delle loro esistenze (perfettamente rappresentato dall’immagine dello tsunami) che causa una linea di distaccamento – non risanabile (non si può rimuovere dalla vita la morte) ma con-vivibile – tra due immagini di sé: tra il corpo del prima e il corpo del dopo, il primo fatto di legami familiari e interpersonali, di carriere professionali, di ambienti sociali e di vissuti quotidiani; il secondo riempito con i tanti silenzi dell’essere rimasti (vedi la scelta di Marie di non condividere la sua visione con il compagno, o la voce registrata delle letture di Dickens, o la buonanotte che, dal letto vuoto di Jason, non ritorna a Marcus). Dopo l’evento-aldilà, la vita dei tre protagonisti comincia a pendere sotto il peso della realtà-corpo della morte, il cui effetto compromette tutto. Ma la portata di questo trauma può e deve essere rovesciata (e in questa direzione si muove l’azione dei protagonisti) affinché si stabilisca ex novo, nella viva realtà-corpo dell’individuo, l’equilibrio vita-morte. In questo senso funziona magnificamente l’operazione eastwoodiana: qui si inserisce e comprende l’“ariosa” soluzione dell’happy end; qui si interpreta la narrazione neoclassica di Eastwood, che procedendo per gradi, senza passaggi bruschi (traumatici) e dal più grande (l’aldilà è la prima, grande visione che il film ci mostra) al più piccolo (il dettaglio della stretta di mano fra Marie e George), attraversa tutta la scala dei piani umani, fino a toccare la paura più grande dei suoi personaggi (la stessa confessata da Walt Kowalski in Gran Torino), quella di vivere «una vita che riguarda solo la morte»; qui infine si rappresenta il credo assoluto del regista: quello nell’impresa dell’Uomo.

Ci sono, come altrove in Eastwood (Blood Work, Mystic River, Million Dollar Baby, Gran Torino), corpi particolari. Contusi nella catastrofe, operati nella malattia, mutilati nell'essere gemelli, quelli di Hereafter sono: 1. corpi fisicamente compromessi con l'aldilà. Corpi dotati di un peso specifico, essi si presentano dapprima come agenti frenanti l'esperienza della vita: Marie rivive (rivede) continuamente l'esperienza dell'aldilà, George ha le sue visioni toccando gli altri, Marcus assume su di sé (indossando il cappello di Jason) il corpo del gemello morto; 2. corpi profondamente distanti. Essi vivono tra San Francisco, Parigi e Londra e abitano interni che drammatizzano la distanza (pensiamo alle stanze illuminate accanto a quelle buie; ai posti lasciati vuoti; agli sguardi gettati fuori dalle finestre); 3. corpi distanti perché rimasti. Gli oggetti che li affiancano nello spazio, mentre il resto o è già passato o continua a passare al di fuori del campo della condivisione, ritornano e 'resistono' insieme a loro (vedi la composizione di calle che, centro del tavolo del ristorante, resiste tra i piani di Marie e quelli del compagno). Sono oggetti che 'pesano' nel quadro, caricati di una luce significativa come supporti estetici empaticamente vicini ai personaggi; 4. corpi vicini. Una volta riuniti a Londra, nei saloni della Fiera del Libro, le loro vicende si intrecciano a tal punto - e senza forzature - da far sì che esse si completino l'un l'altra: come se l'incontro con l'altro (altro a cui l'universo eastwoodiano ha destinato il soggetto dal principio) fosse il peso reale e necessario - e il film ci dice che lo è - a riequilibrare la storia e l'esistenza. C'è tutto Eastwood in questo finale rassicurante e completo: ché non importa se alla fine del viaggio, dopo la visione, ritroviamo le stesse domande di partenza (che cosa c'è dopo la morte?). L'importante è chiudere gli occhi e riuscire a vedere la vita. 5. corpi vivi.

L'aldilà è un concetto liquido. Se tenti di afferrarlo ti sfugge tra le mani, se ti fermi ad osservarlo finirai per vedere il tuo riflesso, più o meno distorto ma comunque tuo. Al termine della impetuosa sequenza d'apertura di Hereafter, ennesimo grande film 'minore' di Clint Eastwood, agli occhi sbarrati nella morte-non morte di Marie si palesa un oltremondo in cui le sagome dei sopravvissuti si fondono con quelle dei defunti, il baluginio della terra (forse) appena lasciata scolora nell'indistinto chiarore di uno spazio altro e possibile, spegnersi è venire (nuovamente) alla luce. La visionarietà di Hereafter è marcata da una indelebile umanissima immanenza, radicata e confinata nei corpi dei protagonisti (l'origine 'medica' delle capacità sensitive di George). La sequenza iniziale è d'altronde anche la sola concessione di Eastwood allo spettacolo, formidabile segmento di disaster-movie quasi stupito di se stesso, nota alta suonata per accordare gli strumenti della sinfonia a tre voci che seguirà, squarcio dalle forme spielberghiane (Spielberg è uno dei produttori) incastonato nell'incipit di un racconto che procede come un dramma da camera (anzi da camere, le numerose che costellano la narrazione) annullando le distanze geografiche e il determinismo ambientale (la San Francisco operaia, gli spazi proletari londinesi, la ricca borghesia intellettuale della capitale francese) in un'unica mappatura emotiva. Nessuna guerra dei mondi (altro film 'minore', stavolta di Spielberg, ipotetico controcanto del film di Eastwood nel suo essere cupa e metaforica metabolizzazione di paure globali): in Hereafter i mondi non si scontrano ma cercano un contatto.

Lo si era già detto a proposito di Invictus: da Gran Torino in poi (le avvisaglie erano nel dittico su Iwo Jima) il cinema della lacerazione di Eastwood ha intrapreso con coerenza la strada del cinema della conciliazione, che non è cinema conciliatorio. Se il Mandela di Invictus è un revenant che decide di restare, i protagonisti di Hereafter sono uomini, donne, bambini che cercano di capire il senso del loro essere ora nel mondo attraverso l'esperienza vissuta o sperimentata da vicino della morte, sfuggendo più o meno consapevolmente all'essere fantasmi in vita. Con accorata asciuttezza e dimessa eleganza (di impareggiabile e semplice intensità le riprese negli interni, in una sapiente modulazione di buio e punti luce), Eastwood prosciuga la polifonica struttura narrativa firmata da Peter Morgan di qualsiasi manierismo (complice un sopraffino montaggio invisibile) e riporta grandi tragedie dalla risonanza mondiale a una dimensione intima, privata ma condivisa. Il potenziale e forse atteso thriller soprannaturale viene rimodellato quindi in un mélo domestico (tinelli, stanze da letto, corsi di cucina) che si accosta alla dimensione post-mortem con spirito dubbiosamente laico (si veda la toccante ambiguità del colloquio tra George e Marcus, quando il medium riporta/immagina le parole del fratello scomparso). Ecco allora che in Hereafter affiorano il rispetto del mistero (e del mistero del cuore umano) di Mezzanotte nel giardino del bene e del male, l'etica 'amorosa' de I ponti di Madison County, l'abbraccio di Invictus: la cognizione del dolore passa attraverso la gentilezza del tocco, il dolce domani è adesso.

Marie, Marcus, George (egregia in particolar modo la prova di Matt Damon) sono personaggi soli in cerca di un controcampo che prima reificato (il letto di Jason, il libro-inchiesta della giornalista televisiva, i romanzi dickensiani ascoltati dal sensitivo) rivela infine la sua irrinunciabile e non più rimandabile umanità, che sia una madre persa e ritrovata o una possibile storia d'amore (consapevolezza che nel caso di George passa attraverso la 'scuola' dei sensi del corso di cucina durante il quale l'incontro con l'altro, una rimarchevole Bryce Dallas Howard, è mediato dal cibo condiviso e assaporato insieme, per essere poi vanificato dall'intrusione violenta del gesto medianico che risveglia il dolore passato negando la costruzione di un presente). Non a caso nella cruciale fiera editoriale londinese, quando le tre traiettorie narrative finiscono per intrecciarsi, perfino la voce ascoltata tutte le sere da George ritrova il suo corpo reale, quello dell'attore Derek Jacobi.

Nel procedere della storia, i protagonisti imparano quindi a introiettare la morte non come germe distruttore ma come ingrediente naturale della propria finitezza, a considerarla non più evento esterno a sé ma elemento inscindibile del proprio esistere, a ricordare i propri morti lasciandoli andar via. Parallelamente si riappropriano anche della propria immagine più autentica il cui statuto nel corso della narrazione era stato più volte messo in crisi: la gemellarità fotografica e indistinta di Marcus, il ruolo interscambiabile di Marie quale anchor-woman o testimonial pubblicitario, il volto di George, operaio dismesso quindi 'corpo sociale' in esilio, reso artatamente fantasmatico nel sito che ne promuove il 'dono' (vissuto però dal suo possessore come una maledizione). In poche parole, imparano a vivere. Straordinario film sentimentale (che sia proprio questo l'elemento che ha disorientato gran parte di critica e pubblico?), vitalissima opera testamentaria, Hereafter suggella il suo percorso con una delle sequenze più romantiche del cinema eastwoodiano e del cinema recente tout court. L'ultima visione di George è un abbagliante frammento di discorso amoroso, uno shining di audace dolcezza: l'amore sognato, l'amore possibile, qui, ora.

Clint Eastwood, in quest’ultimo scorcio di attività, si è spesso fatto domande sulla Morte, soprattutto in Mezzanotte nel Giardino del Bene e del Male e Million Dollar Baby: Peter Morgan gli fornisce uno script che affronta di petto il momento del trapasso, interrogandosi su cosa c’è dopo, ma l’inglese è senz’altro più dotato quando aggancia la propria prosa a fatti storici (la trilogia su Tony Blair) che quando inventa ex-novo, come qui, personaggi e situazioni emblematiche per evocare lo stupore nelle rivelazioni di chi torna dalla Morte o la commozione nel “panteismo” che concilia quest’ultima con la Vita, magari creando ponti con i cari defunti. Lo stesso Morgan ha, candidamente, dichiarato di averlo scritto di getto e di essersi stupito quando Eastwood ha voluto adattarlo senza modifiche: oltre a scimmiottare, senza gli stessi talenti (nei dialoghi, nello spessore, nelle intersezioni), gli script ad incastro di episodi di Guillermo Arriaga, la sua sceneggiatura manca di “magia”, di “sguardo dall’alto”, di vera consapevolezza, di morale dell’apologo. Non apre porte né sull’aldilà né sull’aldiquà e pare limitarsi ad affermare che esiste qualcosa dopo la Morte perché è “scientifico”, per quanto gli esseri umani non vogliano sentirselo dire: ne consegue che vanno vissuti la Vita e l’Amore accanto alle persone giuste, lasciando in pace i morti (Morgan: “Non sono credente. Per me il film è una storia d’amore che ha anche a che fare con la morte”). Eastwood crea aspettative filosofiche ma ha per mano solo un affare sentimentale e appesantisce, con il suo cinema “classico”, piano, serenamente volto a dispiegare gli eventi senza artifici, la materia di per sé povera (ha dichiarato di aver girato il suo primo film alla francese e/ma fa venire in mente Claude Lelouch): ha il dono della sobrietà nei passaggi più ricattatori, regala momenti intensi attraverso le recitazioni e compone un’apertura notevole da film catastrofico, ma non ha l’accortezza di aggiungere notazioni a margine, piccoli dettagli significativi che permettano, da subito, di immergersi nel fulcro della dissertazione, anziché vagare a lungo nei rivoli di tre racconti spossanti nell’assenza di meta.