Curiosamente, come era già avvenuto per il primo capitolo, l’uscita di Dune – Parte due [Dune: Part Two, Denis Villeneuve, 2024], tratto dal romanzo di Frank Herbert, è stata ritardata per una serie di contingenze; in parte a causa di conflitti sorti all’interno dell’industria cinematografica americana, e in parte per la preoccupazione dei lavoratori di essere sostituiti dall’intelligenza artificiale. Nel film, intanto, continua la storia di una civiltà esistente da circa 22.000 anni dove una società oligarchica si è diffusa su centinaia di pianeti e in cui i computer e l’intelligenza artificiale sono stati messi fuori legge a vantaggio di uno sviluppo cognitivo avanzato. Si tratta di un’ironica coincidenza con l’attualità, che fornisce un modello ideale per interpretare il conflitto che ha luogo su Arrakis nella parte finale del film.

Nella sua introduzione a Heretics of Dune, Frank Herbert sembra anticipare alcune caratteristiche dell’adattamento di Villeneuve: l’intenzione dichiarata dall’autore era infatti quella di raccontare una storia in grado di esplorare il mito del Messia, creare l’immagine di un pianeta occupato dall’uomo allo scopo di sfruttarne l’energia e sviscerare i meccanismi interconnessi della politica e dell’economia. Sebbene i due film siano diversi nei toni – il primo ha la qualità “mitica” di una narrazione orale o di un racconto popolare mentre il secondo abbraccia le convenzioni dell’epica storica e del film d’azione – in entrambi si privilegiano le preoccupazioni tematiche del romanzo rispetto a quelle narrative. In una recensione di Enemy [id., 2013] del 2015, la critica Amy Rich si è chiesta: «Villeneuve è un buon regista?». La sua risposta è stata appropriata: «Non penso che sia un buon narratore». Questa affermazione coinvolge indirettamente la discrasia che si crea tra il desiderio di uno spettacolo o di tematiche d’autore e quello di assistere a una narrazione di stampo tradizionale. Nel mio saggio sulla prima parte ho sostenuto che il film di Villeneuve “asciuga” gli elementi narrativi, le ambientazioni e il design del romanzo. Se il primo film ha dimostrato che Villeneuve aveva le carte in regola per distillare le suggestioni di Herbert, trasformando un libro relativamente “poco cinematografico” in un’opera narrativa “da studio” a tratti convenzionale e rispettosa delle regole del genere, il secondo capitolo affronta con maggior serietà le suggestioni filosofiche del romanzo. Villeneuve porta la sua visione “post-umana” del futuro delineata nel primo film fino alla sue logiche conseguenze, offrendo uno spettacolo ambizioso che ignora quasi completamente i pensieri e i sentimenti individuali. Lo fa in particolare quando descrive la religione, usata come “arma” in grado di mobilitare un’intera popolazione con apparente facilità. Una riflessione che s’innesta sullo sfondo di un altro importante spunto proveniente dalla seconda parte del romanzo: la violenza provocata dalla colonizzazione.

Nella seconda parte di Dune, Paul Atreides e sua madre Jessica (Timothée Chalamet e Rebecca Ferguson) arrivano nel Sietch Tabr del deserto di Arrakis con l’aiuto degli indigeni Fremen. Paul impara da Chani (Zendaya) a sopravvivere in un ambiente così ostile, mentre Jessica assume rapidamente il ruolo di alta sacerdotessa dei Fremen e convince questi ultimi che Paul è una figura messianica inviata per guidarli a riprendere il controllo del pianeta. Nel frattempo, i membri della Casa Harkonnen, che hanno spodestato il clan Atreides e ripreso il controllo della produzione della spezia (una sostanza vitale per la loro sussistenza economica), sperimentano una crisi amministrativa dopo che Rabban (Dave Bautista) non è riuscito a trovare e uccidere il Muad’Dib, nom de guerre assunto da Paul in qualità di guerrigliero Fremen. Ciò spinge il barone Vladimir (Stellan Skarsgård) a concedere la reggenza di Arrakis all’altro suo nipote, il sadico Feyd-Rautha (Austin Butler). La storia giunge al culmine quando i membri della Casa Atreides riescono a convincere i Fremen e la loro classe guerriera d’élite, i Feydakin, a reclamare il pianeta dagli Harkonnen attraverso una rivolta violenta, usando il territorio desertico a loro vantaggio.

Ancor più della prima parte, la seconda si attiene a codici narrativi consolidati e così facendo elude anch’essa la natura intrinsecamente non cinematografica del romanzo, fornendo spesso allo spettatore informazioni importanti senza appesantire troppo lo spettacolo. Kaitain non è raffigurato o descritto in nessuno dei libri, e il film di Villeneuve utilizza le scene tra l’imperatore Shaddam (Christopher Walken) e sua figlia, la principessa Irulan (Florence Pugh), come espediente per portare avanti la narrazione. Allo stesso tempo, il film ignora spesso la continuità narrativa col precedente. Mentre Jessica, nella prima parte, nutriva seri dubbi sulle motivazioni delle Bene Gesserit, Villeneuve ora la ritrae come fervida sostenitrice dell’idea fanatica dell’esistenza di un Messia, impiantata dalle stesse Bene Gesserit nelle menti del popolo Fremen, spesso intenta a rivolgere sermoni alla popolazione di Arrakis. Senza contare che il personaggio di Thufir Hawat, presente nel film del 2021, è stato qui completamente eliminato dal montaggio finale. Si tratta di modifiche che favoriscono però un impianto spettacolare ancora più sbalorditivo, basti pensare alla magistrale sequenza della corsa dei vermi della sabbia. Un momento che evoca certe epopee biblico/storiche della metà del secolo scorso come I dieci comandamenti [The Ten Commandments, Cecil B. De Mille, 1956] o Lawrence d’Arabia [Lawrence of Arabia, David Lean, 1962], fonte di ispirazione per Herbert nella stesura del romanzo.

«Doveva essere una storia che esplorava il mito del Messia»

Villeneuve riflette qui soprattuto sull’essenza profonda del racconto, utilizzando a tal scopo anche l’espediente del romanzo scritto sotto dettatura da Irulan – stratagemma già presente in Herbert e a sua volta basato sulla narrazione di Scheherazade in Le mille e una notte – e riguardante l’assedio di Arrakis. Forse non è una coincidenza che il ruolo del narratore in entrambi i film – storie orali, profezie, miti e così via – sia affidato a figure femminili e non alle controparti maschili, essendo proprio il genere a codificare l’ordine “paterno” degli eventi attraverso il “linguaggio” simbolico. La seconda parte risulta infatti piuttosto interessante se filtrata attraverso la prospettiva dell’“ordine paterno” – e del suo conseguente abbandono – definito da Julia Kristeva in La rivoluzione del linguaggio poetico (1974). L’assenza o, più in generale, l’atteggiamento distaccato dei padri e delle figure paterne (Leto, Shaddam, Vladimir, ecc.), che per Kristeva rappresentano “il pilastro della legge”, apre la strada al predominio delle madri e delle figure materne in qualità “prototipo dell’oggetto”, giacché esse costituiscono il primo oggetto del desiderio della loro prole. La sorellanza delle Bene Gesserit funziona figurativamente come una struttura semiotico-materna, grazie anche al ricorso a una tecnica di manipolazione mentale nota come Missionaria Protectiva (a cui si fa riferimento nei romanzi e non nel film). Un dato ancor più sorprendente se si pensa che l’universo descritto è sostanzialmente basato sul simbolico-paterno, come dimostrano i titoli aristocratici assunti dalle Grandi Case del Landsraad.

A questo proposito non è peregrino considerare la profonda inquietudine di alcuni personaggi maschili del film – in particolare Paul e Feyd-Rautha – come un tentativo di separazione dalla figura materna, verso la quale nutrono un profondo risentimento che si colora anche di latenze misogine. Tale risentimento si manifesta come una forma di violenza psichica. Paul, per esempio, sperimenta alcune visioni indotte dalla spezia in cui vede se stesso inseguire attraverso il deserto la figura di una donna  – apparentemente sua madre – mentre tutt’intorno si combatte una guerra santa che si diffonde a centinaia di altri pianeti e provoca la morte di miliardi di persone. La scena in cui sbraita contro Jessica, sfidando e implicitamente minando la sua autorità genitoriale, è assai emblematica in proposito.

lawrence d'arabiaLawrence d’Arabia

dune parte dueDune – Parte due

Allo stesso modo, l’introduzione del personaggio di Feyd-Rautha avviene in un’altra scena-chiave del film, ambientata sul pianeta Giedi Prime, dove vengono a galla i conflitti edipici impliciti nel romanzo. Margot Fenring (Léa Seydoux) è una figura secondaria nei romanzi, mentre nel film di Villeneuve viene presentata come una sorta di Mata-Hari o femme fatale del 220° secolo in quella che è probabilmente la migliore sequenza del film, ovvero quella in cui viene inviata su Giedi Prime per iniziare una relazione con il nipote del barone Feyd-Rautha. Margot si rivolge a Feyd dapprima con una voce suadente (che ricorda Marilyn Monroe) e poi evocando una sorta di autorità materna attraverso La Voce (una sottile forma di ipnosi sviluppata dalle Bene Gesserit) allo scopo di attirare Feyd nella stanza degli ospiti. La voce femminile come strumento di seduzione sessuale, in questa scena, può essere interpreta come l’appello rivolto a Margot al desiderio inconscio e incestuoso che Feyd nutre per sua madre, poiché, secondo la storica dell’arte Kaja Silverman, lo sviluppo di una «voce» narrativo-simbolica maschile proietta «tutto ciò che è inassimilabile alla voce paterna» sulla voce della figura materna. La scena progredisce in uno scenario sadomasochistico in cui Margot somministra a Feyd uno strumento di tortura, il gom jabbar, proprio come la Bene Gesserit Helen aveva fatto con Paul nella prima parte.

dune - parte due denis <span style=Seduzione

Risulta quindi decisamente appropriato il fatto che, nella scena successiva, Margot riveli alle sorelle Bene Gesserit che Feyd ha ucciso sua madre. Mentre il primo film supera il test di Bechdel che misura l’impatto dei personaggi femminili sulla narrazione (c’è infatti una scena in cui due donne parlano di qualcosa che non coinvolge un uomo, cioè lo scambio tra Jessica e Shadout), praticamente ogni scena del secondo capitolo in cui compaiono due o più donne le rappresenta mentre discutono dei difetti e delle debolezze degli uomini. La seconda parte forse dà il meglio di sé in queste scene, in quanto indicano l’“abbandono del sistema simbolico” da parte delle Bene Gesserit, riprendendo ancora la terminologia di Kristeva, consolidato e perpetuato attraverso i capricci, le indulgenze e i complotti politici degli uomini.

Ciò è evidenziato anche dalla rappresentazione dei rituali delle Bene Gesserit, in particolare il consumo dell’Acqua della Vita, un narcotico distillato da un verme della sabbia neonato e poi iniettato all’interno del corpo di una Bene Gesserit. Si tratta di qualcosa di non così dissimile dal rito cattolico della transustanziazione, dove il vino eucaristico consumato viene miracolosamente trasformato nel sangue di Gesù. Villeneuve ha affermato che un’ispirazione per la seconda parte è stata L’ultima tentazione di Cristo [The Last Temptation of Christ, 1988] di Martin Scorsese, un film controverso, basato sul romanzo altrettanto controverso di Nikos Kazantzakis, che affronta uno dei misteri fondamentali del cristianesimo, ovvero la natura contemporaneamente umana e divina di Gesù. Paul trasmuta con successo l’Acqua della Vita – un processo che ha ucciso tutti gli uomini che l’hanno consumata in precedenza -, diventando il messia della religione Fremen. La narrazione non rivela mai come questo sia stato possibile, ma in ogni caso è così che la popolazione Fremen conquista la certezza della veridicità della profezia relativa all’esistenza di una figura messianica salvatrice.

«Doveva creare l’immagine di un pianeta occupato dall’uomo allo scopo di sfruttarne l’energia»

Dune – Parte Due presenta nuovamente il design di metà Novecento del primo film, ispirato ai disegni di John Schoenherr per l’edizione illustrata di Dune (1978), alle varie estetiche cinematografiche del Blocco Orientale (in particolare dalla cinematografia polacca) e alle arti grafiche fantastiche del Sud America: Juan Giménez, dall’Argentina, e Alejandro Jodorowsky, dal Cile (che tentò di realizzare una versione di Dune negli anni ’70 con protagonisti Orson Welles e Mick Jagger). Su Giedi Prime, i giochi gladiatori e la sequenza di spionaggio sessuale hanno luogo in edifici e strutture monumentali che sembrano ispirati alle illustrazioni di Giménez per La Caste des Méta-Barons di Jodorowsky (1992-2003), le quali a loro volta richiamano le vedute create nella tradizione delle bande dessinées da Jean-Claude Mézières in Valérian et Laureline e da Jean Giraud – alias Moebius – in The Incal. La fotografia in bianco e nero utilizzata nelle scene “diurne” su Giedi Prime, girate in infrarosso per tradurre visivamente il “basso range di fotosintesi attiva” del pianeta, porta all’estremo il look desaturato e “distopico” della cosiddetta fantascienza sovietica – codificata nella fotografia di Andrzej Jaroszewicz in Sul globo d’argento [Na srebrnym globie, Andrzej Żuławski, 1977] e resa popolare in occidente da Janusz Kaminski in Minority Report [id., Steven Spielberg, 2002] – fino a un estremo cromaticamente neutro.

In entrambi i film compaiono dei cimiteri – quelli fittizi degli Atreides su Caladan e un vero e proprio mausoleo, nella realtà appartenente a una famiglia italiana, utilizzato per le scene su Kaitain – che funzionano a tutti gli effetti come una sorta di palcoscenico al cui interno i personaggi, come nel romanzo, vivono immersi in una successione di “piani a loro volta inscritti all’interno di altri piani inseriti in altri piani ancora” che trascende le vite dei singoli individui. Nella Parte Uno, Leto sottolinea la natura simbolica dell’anello con il sigillo ducale, prefigurando l’ascesa di Paul a livelli più elevati di quelli occupati dal padre. Come location per il palazzo dell’Imperatore su Kaitain nella Parte Due è stata utilizzata la Tomba Brion fuori Treviso, progettata da Carlo Scarpa nel 1969. Il fatto che, nel secondo film, un mausoleo serva da ambientazione per le attività cospiratorie tra l’Impero e le Bene Gesserit – che alla fine risultano fallimentari per entrambe le parti – lascia trapelare una certa ironia.

dune atreides cimiteroCaladan

kaitan tomba dune - parte dueKaitan

Production design e costumi veicolano la componente ideologica con maggiore incisività rispetto alla Parte Uno. Dato che nel secondo film viene dedicato maggior spazio alla rappresentazione sia della società Fremen che di quella Harkonnen, emerge chiaramente il contrasto tra le improvvisate decorazioni ornamentali dei primi e il minimalismo oppressivo dei secondi. Si può analizzare questo contrasto alla luce della tesi avanzata nello studio del 1910 di Adolf Loos, Parole nel vuoto, che identificava il ricorso all’ornamento e all’ornato nell’abbigliamento e nell’architettura come un’operazione tipica degli strati sociali più poveri e  quindi indesiderabile, associandola – e per estensione, associando le popolazioni indigene e marginalizzate che solitamente la perseguono – con l’alterità e la criminalità. Lo studio di Loos sarebbe alla fine divenuto uno dei testi fondamentali dell’estetica e dell’architettura fascista, e la sua caratterizzazione dell’ornamento come qualcosa di non auspicabile informa la visione dell’Impero sulla cultura di Arrakis rispetto a quella diffusa su Giedi Prime. La monocromia blu e le travi sobrie della sala degli spettatori e del corteo militare su Giedi Prime riflettono non solo l’anonimato e l’uniformità di una società militarizzata ma anche l’ostilità generale del capitale nei confronti del lavoro artigianale, favorendo invece l’uso ripetitivo ed estensivo di materiali prefabbricati prodotti su larga scala. Si confronti questo design con le principali location di Arrakis, dove l’uso del paesaggio desertico evoca non solo l’architettura realizzata con tecniche artigianali dell’America Latina, ma anche lo sforzo collettivo di una comunità che mira a preservare i suoi prodotti architettonici, e viceversa (la produzione è tornata in Giordania per molte delle riprese in esterni).

Allo stesso modo, la calvizie, le armature monocromatiche e le linee continue di pittura nera sul corpo tipiche della popolazione di Giedi Prime sottintendono non solo una società militarizzata che valorizza uniformità e simmetria, ma anche una comunità volutamente sintetica, cioé priva di sviluppo organico. Al contrario, il copricapo e i tatuaggi facciali che Jessica ostenta dopo aver assunto il ruolo di Madre Reverenda Bene Gesserit rimandano alla ricchezza dell’abbigliamento femminile propria del Maghreb e dell’Arabia, con variazioni che emergono in relazione alle specifiche popolazioni nomadi. Queste, non promuovendo un’estetica individuale e uniforme, sembrano proprio respingere le manifestazioni di ricchezza o potere politico tipiche delle società capitaliste occidentali. Da ciò si può dedurre la divisione economica implicita tra gli Harkonnen e i Fremen, evidenziata proprio attraverso la cultura visuale di ciascuno: il “minimalismo” è storicamente diventato sinonimo della prassi della classe dominante, le cui aree sono progettate non tanto per essere vissute ma semplicemente esibite e ammirate per la loro “lineare eleganza” e “modernità”.

dune - parte due jessica fergusonJessica

giedi primeParata militare degli Harkonnen, Giedi Prime

Se considerassimo i film di Villeneuve in modo analogo, saremmo costretti a esaminare le premesse chiaramente fallaci attraverso cui gran parte della critica contemporanea ha filtrato l’interpretazione di questo genere di cinema. Per esempio, Dune è stato giudicato “problematico” poiché non presenta attori provenienti dalla regione del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA), nonostante Herbert abbia basato gran parte della cultura e della lingua dei Fremen su tali popolazioni. Questa critica si fonda su un presupposto errato: sebbene i Fremen siano parzialmente ispirati alle tribù beduine che storicamente hanno vissuto nella penisola arabica (e in misura minore alle popolazioni musulmane presenti nel Caucaso e al popolo Saan del Botswana, della Namibia e del Sudafrica), i personaggi di Dune non sono né musulmani né arabi. Essi dovrebbero essere interpretati dai lettori dei romanzi o dagli spettatori dei film come simboli di tutti i popoli sradicati, colonizzati o emarginati della Storia: Shemot-Esodo, Palestinesi, Nativi Americani, Tibetani, Taiwanesi, eccetera. Assecondando la stessa logica, non c’è però stata alcuna critica per le discutibili opinioni di Herbert sull’eugenetica e sull’omosessualità (implicite nei romanzi ed esposte in varie interviste), la maggior parte delle quali sono state saggiamente omesse dall’adattamento cinematografico di Villeneuve.

Tuttavia, elementi della cultura visuale araba musulmana – che ovviamente non si limita al solo Medio Oriente o Nord Africa – emergono in tutto il film, specialmente nei costumi femminili, come segno di strutture istituzionali più ampie. Le coperture per il viso indossate da Jessica e Irulan richiamano la Battoulah, una maschera solitamente in metallo con un velo fatto di perline, piastre o catene, indossata dalle donne in tutta la regione del Golfo Persico. Si crede che tali maschere abbiano avuto origine nel diciottesimo secolo, quando furono sviluppate dai militari per mascherare il sesso di chi le indossava e confondere così i nemici che le vedevano da lontano. Il fatto che le donne aristocratiche di Dune indossino tali maschere – unitamente all’aspetto uniforme per entrambi i sessi della classe guerriera dei Fremen – suggerisce un futuro androgino che, per certi versi, ha abbandonato i segni visivi del sesso e del genere, e per estensione alcune concezioni occidentali e capitalistiche della bellezza femminile, codificando invece i soggetti come pari (a proposito, è importante notare come l’idea, diffusasi negli ultimi due decenni in Occidente, che la copertura della testa o del viso nell’Islam sia uno strumento di “oppressione” utilizzato nei paesi prevalentemente musulmani è in realtà il prodotto di alcuni moti propagandistici americani sviluppatisi durante la guerra in Afghanistan, al fine di giustificare gli interessi economici e politici degli Stati Uniti in Medio Oriente; inoltre, numerosi studi sostengono che il comportamento oppressivo e misogino nella società musulmana sia in gran parte il risultato della cultura patriarcale del cristianesimo medievale che si era diffusa nel mondo arabo prima dell’emergere dell’Islam).

Jessica

irulan duneIrulan

L’uso dei costumi femminili nella Parte Due spesso ibrida ciò che è tradizionalmente associato al maschile e al femminile, conferendo loro contemporaneamente un significato sociale di natura simbolica. La copertura per la testa di Irulan richiama sia il maphorion – un velo che nell’antica Grecia simboleggiava la nobiltà e che ancora oggi è legato all’iconografia ortodossa orientale della Vergine Maria – sia l’armatura a maglie delle immagini tardomedievali di Giovanna d’Arco. Irulan appare in primo piano indossando tale indumento in un dialogo con Helen, che le svela le trame segrete delle Bene Gesserit; è qui che si rende conto di essere impotente di fronte alle trame di forze politiche più grandi malgrado sia a tutti gli effetti l’erede del trono imperiale. Il costume di Irulan, dunque, finisce con l’evocare simbolicamente i “veli” istituzionali che bisogna accettare per governare.

Giovanna d’Arco [Joan of Arc, Victor Fleming, 1948]

irulan dune - parte dueIrulan

«Doveva penetrare i meccanismi interconnessi di politica ed economia»

La nozione di “intenzione dell’artista” di Michael Baxandall – secondo cui un’opera è il riflesso di una relazione sociale che nasce in un tempo e un luogo specifici – è mitigata dalla teoria dellamorte dell’autore” di Roland Barthes – secondo la quale una volta che un‘opera è diffusa nel mondo per essere consumata, il fruitore è libero di interpretarla a proprio piacimento. All’apice della popolarità di Dune, e cioé alla fine degli anni ’60 e all’inizio degli anni ’70, un lettore avrebbe potuto facilmente stabilire un parallelismo tra i Feydakin e l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP). Il termine “Feydakin” richiama fedayeen (فدائيون, letteralmente “coloro che si sacrificano“), un vocabolo usato sia in Iran a partire dal 1946 (Fedayeen e-Islam) che in Palestina a partire dal 1948, oggi sinonimo di Combattenti per la Libertà (Freedom Fighters). Nel 1979, si potevano interpretare gli eventi del romanzo di Herbert come paralleli a quelli in corso in Afghanistan, dove le forze militari statunitensi (la Casa Atreides) armavano i mujahideen (i Feydakin) per contrastare l’occupante Unione Sovietica (la Casa Harkonnen). Queste similitudini avrebbero poi assunto una connotazione differente dopo l’11 settembre 2001, quando gli Stati Uniti invasero e occuparono il Paese che avevano precedentemente supportato militarmente. Il prologo della Parte Due presenta immagini dell’esercito di occupazione Harkonnen che brucia i corpi dei soldati Atreides sconfitti. La cremazione dei defunti è proibita nell’Islam: per questo, le immagini del prologo richiamano le “manovre psicologiche” avvenute nell’ottobre 2005 a Gumbad, Afghanistan, quando i soldati statunitensi bruciarono i corpi di due uomini nel tentativo di demoralizzare i combattenti talebani.

Il film di Villeneuve arriva nelle sale a primavera 2024, circa cinque mesi dopo che Israele in conflitto con la Palestina fin dal 1945 con il supporto del complesso industriale militare statunitense ha intrapreso un sistematico assedio genocida nella Striscia di Gaza, uccidendo decine di migliaia di palestinesi e deportandone e affamandone altri milioni, e avviato un’azione militare a tradimento contro Libano e Siria. Parte Uno faceva occasionali allusioni all’insediamento coloniale, attraverso la storia iniziale di Chani (“They ravage our lands in front of our eyes. Their cruelty to my people is all I’ve known.” […] “who will our next oppressors be?”) e gli studi effettuati da Paul su fonti apparentemente “autorevoli” – i cui contenuti, in verità, sono stati probabilmente prodotti da potenze colonizzatrici – che descrivono la popolazione indigena in termini fortemente pregiudiziali (“…little else is known about the Fremen, except that they are dangerous and unreliable”). Consideriamo come Parte Due estrapola i seguenti elementi della trama e le analogie che lo spettatore può attuare con gli eventi recenti: i Feydakin, che hanno accesso limitato ad armi ed aerei, si affidano alla guerriglia tattica per compromettere il controllo economico della spezia da parte degli Harkonnen. La flotta Harkonnen di rimando bombarda e distrugge completamente il Sietch Tabr e il suo bacino sacro, e di conseguenza assistiamo alle immagini dei Fremen sfollati. I Sardaukar dell’Imperatore fungono da partner e benefattori silenziosi della Casa Harkonnen, creando così un’analogia con il continuativo sostegno offerto dagli americani alle Forze di Difesa israeliane, presumibilmente finanziato da miliardi di dollari di entrate fiscali reinvestite in appalti militari. Gli Harkonnen si riferiscono ai Fremen con termini de-umanizzanti – nello specifico li chiamano “ratti” –: l’allusione è a quella propaganda dei media occidentali che caratterizzava come ‘incivili’ i popoli arabi in tutta la regione del Levante. La pratica di Feyd-Rautha di prelevare organi dagli schiavi e darli in pasto a tre arpie cannibali rimanda alle molteplici accuse rivolte all’esercito israeliano di trafficare con gli organi dei palestinesi uccisi. Paul incoraggia un guerriero Feydakin a ricordare il nome del pianeta che i nativi Fremen hanno usato per migliaia di anni prima che le Grandi Case lo rinominassero Arrakis: Dune. Teniamo presente che nessuno di questi elementi appare nel romanzo di Herbert e sono invece un’invenzione della sceneggiatura.

L’attività di estrazione della spezia necessita di risorse illimitate, e in analogia  con l’attualità, economia e “conflitto” risultano interrelati. A qualcuno potrà venire in mente il ruolo assunto dall’esercito USA nella guerra del Golfo del 1990-1991, che non fu quello di “liberare il Kuwait dall’Iraq” quanto di proteggere gli interessi delle multinazionali occidentali sul petrolio presente sul territorio. Allo stesso modo, l’imminente costruzione – finanziata dagli USA – di un porto per consentire presumibilmente l’ingresso di aiuti umanitari in Palestina rivela forse l’intenzione statunitense di colonizzare “per procura” ulteriormente la regione, dal momento che le coste della striscia di Gaza ospitano milioni di dollari di petrolio, le cui licenze di trivellazione sono state vendute alle compagnie petrolifere occidentali, mentre si sono avute notizie di società immobiliari israeliane che fin da inizio 2024 pubblicizzano la prevendita di proprietà vista mare a Gaza. Il ritratto che Villeneuve cesella degli Harkonnen nel ruolo dei capitalisti spietati sembra inizialmente quasi satirica o fumettistica, ma in Pare Due,  sfruttando anche certe convenzioni ormai invalse nel cinema d’azione contemporaneo, li rivela direttamente come il simbolo delle ricadute degli affari di stato criptofascisti in un momento di crisi del capitalismo occidentale. Si consideri una delle prime scene tra Jessica e Stilgar davanti al bacino sacro del Sietch Tabr: Villeneuve rappresenta i Fremen come una società comunitaria dove le risorse sussistono per servire la popolazione e per liberare Arrakis dai suoi colonizzatori. Compariamola a una delle ultime scene quando il Barone parla a Feyd-Rautha in un distinto linguaggio da multinazionale capitalista: “Libera la spezia”, implica che la popolazione esiste per servire l’economia. La sistematica oppressione degli Harkonnen sui Fremen, allora, non ha nulla a che fare con la “difesa” o la “preservazione” di uno stile di vita e tutto a che fare con l’ideologia dei crimini di guerra, cioè l’espansione perpetua entro nuovi mercati attraverso la violenza.

Interpretare la parte finale del film in questo modo non ci allontana molto da uno dei temi più spinosi del romanzo di Herbert, ovvero il fatto che i popoli dovrebbero diffidare dei leader carismatici che inevitabilmente governano sulla base di un culto della personalità (il film di Villeneuve apporta diverse modifiche al finale per ciò che riguarda la prefigurazione del culto di Alia). Herbert perseguì questa idea utilizzando l’immagine unanimemente popolare di John Fitzgerald Kennedy. Dobbiamo tuttavia considerare che Kennedy è stato il solo presidente americano ad aver visitato la Palestina precedentemente all’occupazione israeliana e che ha tentato di designare come “entità straniera”  l’American Israel Public Affairs (AIPAC), cosa che, se avesse avuto successo, avrebbe notevolmente diminuito il potere lobbystico dell’AIPAC, alterando il corso della Storia che ha invece portato alla vergognosa situazione attuale in Palestina. Non ci vuole uno sforzo di immaginazione per vedere nella caratterizzazione del Duca Leto fatta da Herbert (e in certa misura da Villeneuve) i riferimenti a Kennedy: solidale verso i Fremen ma incapace di formare alleanze significative perché invischiato nei corrotti meccanismi della politica.

Il film è deliberatamente privo di finale, il che può essere considerato un cliffhanger secondo il linguaggio cinematografico moderno, mentre i cambiamenti nell’adattamento – in particolare nell’atto finale – esplicitano l’intenzione di Villeneuve di produrre Dune Messiah (data la natura del libro è più probabile che, a livello di genere, il regista prenda spunto da classici gangster movie come Il padrino [The Godfather, Francis Ford Coppola, 1972] piuttosto che attingere dal bacino della fantascienza). In questa maniera i realizzatori hanno trovato molti spunti forti per sviluppare una critica al Mito del Salvatore, anche perché, alla prova dei fatti, Chani risulta un ostacolo alla imminente “guerra santa” capeggiata da Paul (il film di Villeneuve evita l’uso del termine jihad, e forse è meglio, dato che il termine è stato storicamente frainteso e travisato dall’Occidente e i suoi media, Herbert incluso). I due film terminano infatti con immagini di Chani, interpretata da Zendaya, vagamente somigliante più nell’aspetto che nell’ideologia estremista alla militante palestinese Leila Khaled: Chani vorrebbe solo liberare il suo popolo dall’occupazione e in qualche modo rappresenta il posto che storicamente le donne hanno occupato in molti movimenti di resistenza. Perciò, questo adattamento di Dune svela una profonda ammirazione nei confronti delle donne, superando  molti stereotipi a cui ci ha abituato la narrativa. Dopo lo scontro finale tra Paul e Feyd, ad esempio, tutti i presenti, compreso l’Imperatore, si inginocchiano davanti a Paul, come gesto politico simbolico, ad eccezione di tre persone, le quali a questo punto della storia sembrano aver compreso la natura farsesca delle strutture istituzionali che hanno avuto modo di conoscere: Chani e Irulan rimangono in piedi, Jessica resta seduta.

Dune - parte due finale

dune - parte due chani

Tutti si inginocchiano dinanzi a Paul, a parte Chani, Irulan e Jessica

È forzato leggere in questo modo un film di genere per il grande pubblico? Forse, ma anche per via dei riduttivi modelli “critici” applicati a gran parte del cinema popolare odierno – un cinema che sembra progettato per essere facilmente decostruito. Proviamo anche a considerare il momento in cui il testo di partenza è stato pubblicato. Il romanzo di Herbert è infatti del 1965: fino alla codificazione del blockbuster americano negli anni ‘70 – nello specifico Lo squalo [Jaws, Steven Spielberg] nel 1975 e Guerre stellari [Star Wars, poi conosciuto come Star Wars: Episode IV – A New Hope, George Lucas] del 1977, il primo basato sul bestseller di Peter Benchley e il secondo una variazione del Flash Gordon di Alex Raymond (e di Dune) – i romanzi e i racconti di genere negli Stati Uniti erano per gran parte una forma di intrattenimento completamente separata dai corrispettivi cinematografici. Autori della generazione di Herbert come Ursula K. Le Guin, Damon Knight o Kate Wilhelm non sarebbero stati necessariamente considerati materiale di partenza per un film hollywoodiano. Peraltro non è certo che quella generazione avrebbe potuto immaginare il tipo di spettacolo oggi possibile per mezzo delle tecnologie digitali; e proprio da qui proviene la potenza dei loro testi, scritti col presupposto che nessun film o prodotto televisivo avrebbe mai potuto mostrare ciò che veniva narrato – almeno non con un adattamento fedele. Questa mentalità cambia con l’avvento della New Hollywood nei ‘70 e da allora il processo di scrittura/pubblicazione della narrativa popolare – horror, sci-fi, thriller, gialli, legal, noir ecc. – si realizza tenendo a mente la possibile traduzione cinematografica sia a livello creativo che contrattuale (nel bene e nel male gli adattamenti di opere pubblicate in precedenza generano il doppio degli incassi rispetto ai film basati su sceneggiature originali). Parte Due capitalizza questa formula dal momento che una audience del tutta nuova è emersa 35 anni dopo la morte di Herbert. Scrivo di film sotto pseudonimo perché così posso affrontare argomenti tabù senza vincoli ma anche perché parte del mio lavoro attuale comprende la necessità di visitare regolarmente le abitazioni delle persone comuni, cosicché ho potuto constatare come, due anni e mezzo dopo il rilascio di Parte Uno, si sia verificato un rinnovato interesse per il romanzo di Herbert, apparso su innumerevoli comodini e tavolini da caffè. Laddove il cinema è limitato dai confini del mondo fisico – costumi, set, stunt, tecnologia digitale ecc. – la narrativa non ha limiti che non risiedano nell’immaginazione del lettore.