La Resistenza vista dalla parte sbagliata

Esiste un romanzo che nessuno – o quasi – conosce, scritto da un autore che nessuno – o quasi – conosce. Con Tiro al piccione Giose Rimanelli, molisano, classe 1925, ha consegnato alla letteratura italiana l’unico romanzo (almeno degno di questo nome) che racconta l’esperienza della guerra civile dalla parte di chi l’ha persa: i repubblichini.

La scelta della parte sbagliata

Morto a Lowell, Massachusetts, nel 2018, dopo un’esistenza raminga, qualche libro di scarso successo, e parecchi anni passati come stimato insegnante di italiano e letteratura comparata presso diversi atenei americani, Rimanelli aveva messo un oceano di distanza tra lui e il suo passato.

Nel settembre del 1943, a diciotto anni appena compiuti, Giose Rimanelli decide di fuggire dal suo paese, Casacalenda, che gli sta stretto. Il Molise di quegli anni è una terra arcaica, dura, senza futuro. Lì Marco Laudato – il suo alter ego letterario – è preda dei furori post adolescenziali che gestisce con rabbia, quasi con violenza. Coltiva il mito dell’avventura, vorrebbe seguire le orme di suo nonno, che è nato a New Orleans e suona la tromba jazz quando ancora il jazz in Italia, o meglio, in Molise non esiste; sente il richiamo di terre lontane, come il Canada dove è nata sua madre. Ed è per questo che Giose/Marco sceglie di unirsi a una colonna di camion della Wermacht in ritirata.

La sua è una “non scelta” e, dopo giorni confusi, passati tra quei soldati che parlano un’altra lingua ma che con lui sono persino gentili, si ritrova a Venezia. Qui incontra altri tedeschi, ma molto meno gentili. Le SS infatti lo arrestano e lo spediscono ai lavori forzati a Villafranca. Da qui Marco fugge, arriva a Milano e stavolta a catturarlo sono i militi delle Brigate nere. A questo punto, per sfuggire alla fucilazione come disertore, si arruola nella Repubblica sociale.

Un orrendo carnaio

Da questo momento in poi, Tiro al piccione si trasforma in un racconto crudo, realistico e a tratti cupo dell’Italia sconvolta dalla guerra civile. Il giovane protagonista si lascia trascinare dal gorgo di violenza e follia che attanaglia gli uomini mandati a caccia di altri uomini tra boschi e montagne, dove la morte arriva improvvisa, come un falco che piombi sulla sua preda dal cielo. Eppure, Marco mantiene il suo sguardo lucido, la capacità di comprendere ciò che gli accade intorno. Partito ragazzo, la guerra lo rende un uomo a metà. L’orrore dei massacri, delle battaglie, di una guerra persa in partenza gravano sulla sua coscienza e alimentano un senso di sconfitta che Marco interiorizza: “Passando per i paesi i ragazzi sventolavano i fez, ma la gente ci guardava senza rispondere. Spesso mi domandavo perché la gente ci guardasse senza rispondere, ma non riuscivo a tirar fuori delle conclusioni. Poi mi venne un pensiero: e se la gente ci odia?”.

Ma in questo libro le riflessioni amare sono tante: “Hanno raccolta la polvere e ce l’hanno buttata addosso, e di noi hanno fatto le nuove legioni, ci hanno riempita la bocca di canti e ci hanno detto di andare. Andare! Ma andare dove? Non abbiamo mai saputo dove dovevamo andare. Ci hanno mandati a morire, a morire massacrati, tutti insieme”.

E ancora: “Nel mio battaglione ci sono ufficiali di vent’anni e soldati di quindici. Tutti gli uomini di questa guerra odiosa sono giovani e hanno tanti anni davanti a loro, anni felici da vivere. La mascotte della mia compagnia ne ha tredici, di anni, e conosce meglio il mitra che la faccia di sua madre. La mascotte è nato a Tripoli e i suoi genitori sono là. Il Duce l’ha fatto portare nei collegi italiani insieme a mille altri ragazzi della sua età, per dargli un’educazione littoria. Ora va ai rastrellamenti e spara contro gli uomini come se fossero cani, e peggio. E tutti così gli altri. Ammazzano la gente da cani e sono ammazzati da cani“.

Italo Calvino disse che Tiro al piccione ci mostra “un carnaio spietato ed osceno”. Lo fa con uno stile che strizza l’occhio ai romanzi di Hemingway, ma anche al Beppe Fenoglio de Il partigiano Johnny (e questo è particolarmente curioso, perché il libro di Fenoglio uscì solamente nel 1968).

Bambini soldato, avventurieri e criminali: l’Italia della guerra civile

In questo romanzo non c’è la speranza di un riscatto, di un fine ultimo che salvi l’anima di un’Italia dilaniata. C’è solo il presente e tutti i mostri generati dall’odio. I protagonisti di Tiro al piccione sono avventurieri che nella guerra civile hanno trovato il loro habitat naturale; criminali che approfittano della situazione per dare libero sfogo alle proprie pulsioni e che si trovano tanto nelle file dei fascisti, quanto tra quelle dei partigiani. Ma il romanzo di Rimanelli mostra soprattutto la follia di un periodo storico in cui anche i bambini imbracciano un mitra e uccidono. Bambini soldato come quelli che in Germania, nello stesso periodo, cercarono di bloccare inutilmente l’avanzata dei russi su Berlino. Bambini soldati come oggi ce ne sono in Africa. Un mondo al contrario, quello che esce dalle pagine del romanzo. Un mondo malato al tramonto.

Il Tiro al piccione che dà il titolo al romanzo, poi, è quello che i partigiani fanno mirando al basco dei militi della Legione d’assalto M. Tagliamento, di cui Marco fa parte. E mentre i suoi camerati vengono colpiti alla fronte, rotolando nel loro stesso sangue nei giorni finali della guerra, Marco prega che la prossima pallottola tocchi a lui. Ma la sorte ha in serbo altro. E Marco tornerà a casa, in Molise.

Un romanzo sfortunato

Giose Rimanelli, una volta rientrato fortunosamente a casa dopo aver evitato la cattura da parte degli alleati, comincerà subito a lavorare al suo romanzo. D’altronde non c’era altro modo per sublimare l’esperienza vissuta. A casa i genitori lo tennero segregato, per paura di rappresaglie nei suoi confronti. Un muro lo divideva dal resto del suo mondo. Che non voleva capire, non poteva capire cos’era stata la guerra civile. Cos’era stata la Resistenza vista dalla parte sbagliata.

Il periodo di stallo dura poco. Rimanelli, insofferente, riprende le sue peregrinazioni: Roma, Milano, Parigi, Nord Europa. Per procurarsi da vivere scrive tesi di laurea, lavora come sparring-partner in una palestra di pugilato. E intanto legge molto: tra i suoi autori preferiti Pavese, Faulkner, Vittorini ed Hemingway. Nel frattempo, stringe diverse amicizie: conosce Elio Vittorini, Carlo Levi, Giuseppe Ungaretti. Ma la conoscenza che dà un’apparente svolta alla sua esistenza è quella con Cesare Pavese.

Pavese, editor di Einaudi, legge la bozza di Tiro al piccione. Ne critica lo stile ancora aspro, tuttavia lo propone per la collana I Coralli della casa editrice. Dopotutto, quello, secondo lo stesso Pavese, non era certo un romanzo politico. Come ebbe a dire il critico letterario Raffaele Liucci molti anni dopo, nel 1997, in questo romanzo troviamo “la punta di diamante di una letteratura della zona grigia, espressione di coloro che, pur essendo stati costretti a militare sotto le insegne di Salò, sono però difficilmente inquadrabili nel campo del fascismo o dell’antifascismo, perché tenacemente ancorati ad un humus valoriale non assimilabile a rigide e prescrittive divisioni politiche”.

Il 27 agosto del 1950, però, Pavese si uccise. Venuto meno il suo prezioso supporto, il progetto di pubblicazione presso Einaudi si arenò. Il romanzo di quel giovane che aveva visto la Resistenza dalla parte sbagliata non vide la luce. Bisognerà attendere il 1953. Stavolta a interessarsi di questo romanzo fu Elio Vittorini, che lo portò a pubblicazione presso Mondadori. Una traduzione dal titolo The day of the lion venne pubblicata anche in America, ed ebbe un discreto successo, mentre nel 1961 Giuliano Montaldo ne fece un adattamento cinematografico che venne stroncato dalla critica. Da questo momento in poi, il romanzo cadde nel dimenticatoio.

Un corpo estraneo nella letteratura italiana

Rimanelli, dopotutto, non fece nulla per ottenere il contrario. I salotti letterari gli erano sempre stati stretti. La stessa industria editoriale si muoveva secondo logiche che a lui davano il prurito. Nel 1958 pubblica Il mestiere del furbo, nel quale mette alla berlina quell’ambiente frivolo e patinato che, per tutta risposta, lo espelle come un corpo estraneo, mettendo in atto un’opera di damnatio memoriae che perdura ancora oggi.

Ciononostante, Tiro al piccione resta un romanzo validissimo. L’unico romanzo in grado di raccontare la Resistenza da un punto di vista inedito, senza alcuna retorica, senza alcun riferimento al culto guerriero della “bella morte”, di cui invece sono intrise altre prove letterarie che, con scarso successo, hanno provato a raccontare la guerra civile dagli occhi di un milite della RSI.

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