La carrozza d’oro

La carrozza d’oro

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Opera teorica e filosofica, La carrozza d’oro di Jean Renoir conferma la straordinaria intelligenza di messinscena e lo sguardo in profondità su arte e vita del Maestro francese. Con Anna Magnani come protagonista. In dvd per Minerva/Rarovideo e CG.

Nel diciottesimo secolo, una compagnia italiana di teatranti all’improvviso approda in una colonia spagnola dell’America Latina per cercare nuove fortune sul palcoscenico. Colombina sulla scena, la primattrice Camilla resta affascinata da una carrozza d’oro che il viceré ha acquistato come strumento di prestigio e potere agli occhi del popolo. Intanto la donna si ritrova al centro delle attenzioni amorose di tre uomini: lo stesso viceré, un cavaliere e un torero… [sinossi]

Se esiste un film che riesca nel modo più produttivo possibile a fondere in un’unica opera riflessioni su cinema, teatro e arte in genere, mettendoli in fertile collaborazione uno con l’altro, questo è La carrozza d’oro (1952) di Jean Renoir. L’autore francese rientrava in Europa dopo le fatiche indiane di Il fiume (1951) e prendeva in corsa un progetto avviato dal suo allievo Luchino Visconti, che (vedasi l’intervista a Francesco Alliata contenuta negli extra del dvd nonché l’interessante e ampio libretto d’accompagnamento) aveva fatto dannare per qualche anno i produttori della siciliana Panaria Film senza giungere a una vera pianificazione del film da realizzare. A detta di Alliata, fu egli stesso a spazientirsi con Visconti e a sostituirlo col suo maestro di un tempo Renoir, desideroso di tornare a dirigere film sul Vecchio Continente.
Sulle prime il film doveva sfruttare le bellezze architettoniche della Sicilia barocca, ma Renoir ritenne impossibile girare la sua opera al fianco delle nascenti deturpazioni edilizie e modernistiche che sfiguravano la maestosità dell’arte insulare. Così il progetto de La carrozza d’oro si spostò nei teatri di posa di Cinecittà, e sta proprio nella piena e vistosa artificiosità dei suoi definitivi scenari un effettivo valore aggiunto all’espressività e senso di tutta l’opera.

Ispirato all’atto unico di Prosper Mérimée “La carrozza del Santo Sacramento” (1829), a sua volta vagamente desunto dalla vera vicenda dell’attrice peruviana Micaela Villegas in arte La Périchole, il film di Renoir sbandiera fieramente tutto il suo artificio visivo, affidandosi in primo luogo alle abbaglianti risorse finzionali del Technicolor. Strumento perfetto per l’esaltazione della vivacità visiva della Commedia dell’Arte, il Technicolor squilla dai tessuti variopinti dei costumi di proliferanti Arlecchini, vero leit-motiv di tutto il film che s’incarna insistentemente sul palcoscenico in figure di tutte le età, da bambini ad adulti. È infatti in primo luogo alla rinascita popolare del teatro preborghese, tra Cinquecento e i due secoli successivi, che La carrozza d’oro è dedicato. A quelle compagnie di giro, tipicamente italiane, che ricorrevano a maschere fisse e riconoscibili per improvvisare ogni sera uno spettacolo su canovaccio.
Di quell’arte povera e zingaresca, che solo con difficoltà è riuscita col tempo a conquistarsi un suo posto nella considerazione accademica, il film di Renoir celebra entusiasmi e precarietà, ma la riduce a sua volta a canovaccio non casuale di una riflessione sull’arte in senso lato. Non sarà un caso se François Truffaut, che adorava il film, darà il nome di “Les Films du Carrosse” alla propria casa di produzione cinematografica fondata nel 1957, con pieno e dichiarato omaggio al film. Sta proprio in quella congiunzione tra cinema e arte popolare, che da Renoir si trasmette a Truffaut, uno dei significati più pregnanti di La carrozza d’oro. Con “Les Films du Carrosse” Truffaut forse intendeva identificare nelle troupe cinematografiche una carovana di guitti che di città in città, previa pellicola e sala di proiezione, proponevano il proprio spettacolo a un pubblico popolare. Ma al contempo, nel citare il maestro Renoir nel nome della sua casa di produzione, forse l’autore di I quattrocento colpi voleva anche aderire a quella intima scelta che chiude in La carrozza d’oro la vicenda della primattrice Camilla: rinunciare alla vita reale per dedicarsi solo all’arte, fare una sorta di atto di fede nei confronti del mondo della finzione, assai più bello, affascinante, consolante e soprattutto dominabile rispetto al caos della realtà. Accanito lettore e adoratore dell’illusione narrativa, Truffaut trova in Camilla, probabilmente, la sua anima eletta.

Anche nel percorso artistico di Jean Renoir La carrozza d’oro trova una sua coerenza. Se da un lato il film mette in campo un’infinita serie di affascinanti relazioni tra realtà e finzione, dall’altro, come già accadde per esempio nel capolavoro La regola del gioco (1939), Renoir ricolloca tale dicotomia in un panorama di stratificazioni sociali. La sociosfera di La carrozza d’oro è lontana nel tempo e spinta in una dimensione pressoché favolosa; il Seicento-Settecento del barocco, della vistosa arte teatrale di stampo popolare, ricollocato nelle illusorie lontananze geografiche del Nuovo Mondo, qui delineato in una colonia spagnola dell’America Latina. Tuttavia, proprio come in una fiaba allegorica, quel lontano spazio-tempo in cui si svolgono le vicende del film parla al presente di sempre, sfondando verso intenti di racconto filosofico.
Con la consueta e geniale maestria di messinscena, Renoir spesso gioca con i plurilivelli del frame, aprendo nella profondità di campo vertiginosi effetti di mise en abyme.
L’intero film è infatti costruito su rapporti binari, che trovano una propria piena espressione nella composizione visiva. Poveri vs ricchi, teatro/arte come realtà ordinata vs rito sociale, a sua volta forma cristallizzata di vita ed esibizione-spettacolo per il fascino dei poveri: vi è una sequenza in tal senso magistrale, quella del ballo alla corte del viceré in cui le danze sono presentate come vera e propria rappresentazione di rito e arte, che in una splendida inquadratura teorica è incorniciata e intravista da due porte-filtro.
Nella stessa sequenza, Renoir segue poi Camilla e il viceré in un entusiasmante alternarsi di filtri alla visione (le grate del ballatoio, la finestra alla quale si affaccia il viceré), per chiudere poi con una fantastica mise en abyme dove, al corpo del viceré appoggiato al davanzale, fanno da sfondo nella profondità di campo i balli di nuovo intravisti al di là di una porta del ballatoio.
È solo un esempio, uno dei più entusiasmanti, di quanto La carrozza d’oro ragioni sull’idea di spettacolo e sui medesimi strumenti di rappresentazione del mezzo-cinema. Siamo tutti insomma spettacolo di qualcun altro, oggetto di contemplazione di altri e attori più o meno volontari dello spettacolo di se stessi, che in un contesto di stratificazione sociale può assumere anche i connotati dell’invidia e del desiderio.

Così procedendo La carrozza d’oro è capace di tradurre una “fantasia all’italiana” (così è dichiarata nei titoli di testa) in profonda riflessione di carattere universale intorno all’uomo, ivi compreso l’ineluttabile bisogno d’arte. Vi sono due interrogativi sostanziali che a un certo punto animano i dubbi di Camilla: se sia possibile, tramite l’educazione e l’emancipazione, abbandonare i desideri primari della “povera gente” cui appartiene per imparare a vivere da signori, e successivamente, dove risieda la sua incapacità di gestire la vita reale, assai più difficile per lei che occupare le tavole del teatro. In entrambi i casi Camilla si dice sincera, eppure nella realtà è costretta ad ammettere il proprio scacco.
Da un lato, Renoir sottolinea un passaggio di forme, un’interpretazione di personaggio che da determinate strutture sociali cerca di imparare le regole di un altro mondo. Dall’altro, identifica nella realtà un quid di imprendibile, l’incapacità di gestire la verità dei sentimenti. Se quindi La carrozza d’oro ragiona sui processi di messa in forma e rappresentazione insiti nell’aderire a strutture sovraindividuali (le regole del gioco, le norme codificate dall’uso collettivo) in senso strettamente socio-universale, al contempo trova nel sacrificio e in una sorta di atto di fede nei confronti dell’arte l’unica uscita per l’impasse dell’attore. Non è casuale che lo scioglimento finale identifichi il sacrificio all’arte nella donazione dell’agognata carrozza alla Chiesa. Camilla fa atto di fede, si chiude nel mondo dell’arte, e della realtà non le resta che una tenue nostalgia.

Traslando negli strumenti del cinema la tradizionale metatestualità del teatro barocco, Renoir compone il suo film di incessanti duplicazioni del visivo, che moltiplicano a volte in profondità, altrove sulla superficie dell’immagine, la rappresentazione del reale. Da citare sono almeno due sequenze: la separazione dell’inquadratura, tramite il profilo di una quinta teatrale simile a un primitivo split-screen, tra il palcoscenico e il dietro le quinte, che durante una rappresentazione teatrale sancisce il simultaneo scorrere di due paralleli piani esistenziali (Camilla recita sul palco, mentre il capocomico discute con Felipe e di tanto in tanto si affaccia a una finestrella della quinta per partecipare allo spettacolo recitando battute), e l’uscita di scena di Camilla dopo la discussione in Consiglio di Stato intorno alla carrozza, in cui la donna appare su un ballatoio in una composizione perfettamente geometrica del frame, dove al di sotto viene a occupare un’arcata vuota l’apparire della carrozza del contendere. Quella stessa carrozza, in fondo, è oggetto simbolico di apparenza; chi la possiede acquisisce prestigio e potere, e tramite l’oggetto può insomma verificarsi quel mutamento di forme socio-esistenziali intorno al quale Renoir riflette. Gli esempi di tali duplicazioni visive potrebbero essere infiniti, com’è da registrare anche la maestria di Renoir nella gestione espressiva di un triplice segmento narrativo, posto nel pieno centro dell’opera, in cui il viceré, novello Arlecchino servitore di due (anzi, tre) padroni, affronta in simultanea una triade di pressanti situazioni, dando vita a un entusiasmante gioco di porte che si aprono e chiudono. Di nuovo, tale triplice situazione narrativa apre scenari di stratificazione sociale: l’attrice popolana che, rivestita di tutto punto, mira alla propria emancipazione sociale, il Consiglio di Stato (la norma, piazzata significativamente al centro della catena di tre luoghi), e la nobile invidiosa in trepidante attesa.

In ultima analisi, La carrozza d’oro convoca a raccolta l’arte popolare, ne celebra l’entusiasmo e l’illusione, finendo per richiamare la Commedia dell’Arte ad antenato del cinema. Li tengono insieme l’origine popolare, l’evento di piazza, la folla di straccioni che correva a divertirsi con gli Arlecchini e le Colombine, e che si accalcavano al contempo per dare un’occhiata all’invenzione del Mondo Nuovo. In entrambi i casi si tratta di fatica e sudore, di spettacoli itineranti e improvvisati, di dono dell’illusione a una folla desiderosa d’incanto. Un fascino così intenso e viscerale che, come per Camilla, può tradursi in ragione di vita.

Gli extra sono piuttosto ricchi. Tre interviste a Francesco Alliata, Sergio Toffetti e Rita Cedrini, e un libretto d’accompagnamento ampio e articolato.

Info
La scheda di La carrozza d’oro sul sito di CG Entertainment.
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