“Effetto notte”: l’arte contemporanea va in mostra al Palazzo Barberini di Roma - la Repubblica

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“Effetto notte”: l’arte contemporanea va in mostra al Palazzo Barberini di Roma

Archangel (pattern) di Charles Ray, nella Sala Ovale di Palazzo Barberini 

Archangel (pattern) di Charles Ray, nella Sala Ovale di Palazzo Barberini 

 
Nel grande palazzo romano, tempio dell’artificio barocco, che fu dimora della famiglia di papa Urbano VIII, le 150 opere provenienti dalla collezione di Tony ed Elham Salamé giocano con il concetto di verità
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Al primo piano, nella Sala Ovale – a guardarlo bene – quello che sembra un arcangelo di quattro metri è un surfista californiano senza maglietta, in infradito e con i pantaloni arrotolati sotto il ginocchio. «Potrebbe salire sul soffitto affrescato da Pietro da Cortona a pochi metri da qui, o magari ne è appena caduto», dice Massimiliano Gioni. La scultura di Charles Ray, che sembra di marmo ma è in vetroresina, provoca uno dei cortocircuiti più sorprendenti di Effetto notte, la mostra che Gioni cura con Flaminia Gennari Santori, a Roma (fino al 14 luglio): la prima firmata dal direttore artistico del New Museum di New York nella capitale. Qui, a Palazzo Barberini, 150 opere sinteticamente ascrivibili al “nuovo realismo americano”, provenienti dalla collezione di Aïshti Foundation, nata 25 anni fa per iniziativa dell’imprenditore libanese Tony Salamé e della moglie Elham, dialogano con gli spazi seicenteschi, con il gran teatro della meraviglia allestito dalla famiglia di papa Urbano VIII nel diciassettesimo secolo.

La scultura On my way home di Woody De Othello nella Cappella dell’Appartamento settecentesco

La scultura On my way home di Woody De Othello nella Cappella dell’Appartamento settecentesco

 

La scultura On my way home di Woody De Othello nella Cappella dell’Appartamento settecentesco

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Ed è un piccolo miracolo: non solo perché dipinti, sculture e video hanno percorso un complicato viaggio da Beirut, mentre il mondo è in fiamme. Ma anche perché tessono un racconto che si intreccia perfettamente con la macchina delle meraviglie barocche, dove si incontrano Caravaggio e le architetture di Borromini, i colori di Guercino e di Guido Reni. «È un progetto autoportante – precisa Gennari Santori, che ha diretto Palazzo Barberini per due mandati, prima di lasciare le Gallerie d’Arte Antica a Thomas Clement Salomon – Avevamo pensato di mettere antico e contemporaneo esplicitamente a confronto nel percorso, ma poi abbiamo capito che così funzionava di più. Da tempo mi interessava l’idea di portare l’arte contemporanea in questo spazio».

Se il titolo della mostra rimanda a Day For Night, il quadro della newyorchese Lorna Simpson, e al film di François Truffaut, il riferimento è anche al dispositivo cinematografico che permette di girare scene notturne di giorno. In altre parole, di “fingere”, di costruire una realtà plausibile. La stessa che gli artisti del Seicento resero sulla tela con i loro chiaroscuri. La stessa che i creativi della città dei papi costruivano attraverso gli artifici delle macchine barocche. E una realtà plausibile, ma non rispondente alla verità, è quella che si elabora ogni giorno attraverso social media, intelligenza artificiale e propaganda attivata dai nuovi populismi. «La cultura americana è stata contraddistinta da una progressiva erosione del concetto di verità – spiega Gioni – È questo che indagano tanti artisti contemporanei. Molti sono pittori perché, paradossalmente, il medium pittura conosce una nuova vitalità ed è adoperato per affrontare questi temi. La mostra mette a confronto nomi di generazioni diverse che sono alle prese anche con la rappresentazione del corpo e della decolonizzazione».

Una scultura di Simone Leigh
 

Una scultura di Simone Leigh
 

 

Una scultura di Simone Leigh

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L’introduzione all’allestimento, nel corridoio d’ingresso dello spazio mostre, è anche l’irruzione dello spazio “urbano” – ma stavolta il Papa Barberini non c’entra – nel museo: il neon di Glenn Ligon con la scritta “America”, il bidone della spazzatura di Klara Lidén e le lattine di cemento di Kaari Upson hanno l’apparenza di oggetti di scarto, di residui di una mitologia che non funziona più. In cerca della verità, o di una verità, sembrano andare i personaggi scolpiti o dipinti da Nicole Eisenman, che in Dark Light risulta più che esplicita, raffigurando un uomo col berretto rosso in testa e una torcia accesa per illuminare il buio. Si succedono poi con una densità da Salon le figure rococò di Karen Kilimnik, le texture dei pastelli morbidi con inserti floreali di Nicolas Party, grande collezionista di Rosalba Carriera. È un gioco con la storia dell’arte anche A picnic inside di Katja Seib, dove la donna dipinta, sorprendentemente simile ad Anna Magnani, ha sullo sfondo una versione al maschile de Le déjeuner sur l’herbe: gli uomini sono soli e nudi stavolta, la modella del capolavoro di Manet non c’è. Di nudità, la propria, è esploratrice Joan Semmel, oggi ultranovantenne, che ha riprodotto per decenni particolari del suo corpo, in una autofiction epidermica che non si è ancora conclusa: qui tre esemplari di grande formato rendono bene l’idea. Di un altro tipo di liberazione, quella dalla colonizzazione dello sguardo bianco, raccontano l’incredibile Hulk nero di Arthur Jafa, ma anche il trittico di Henry Taylor visto alla Biennale di Venezia del 2019 e dedicato a Toussaint Louverture, che nel Settecento guidò la rivolta di Haiti contro la Francia, e ancora le sculture di Simone Leigh e Calvin Marcus.

Al primo piano, nella Sala Marmi, una quadreria composta da una sessantina di opere ricopre tre intere pareti, alla maniera delle raccolte di un tempo. Tra i “ritratti di famiglia”, si riconosce anche una Monica Lewinsky dipinta da Sam McKinniss; dall’alto i piccioni impagliati (Tourists) di Maurizio Cattelan incombono minacciosi, mentre la scultura iperrealista dell’uomo sul tagliaerba di Duane Hanson fornisce un contrappunto comico. Fa il verso ai monumenti equestri Horse/Bed di Urs Fischer, dove il cavallo risulta un essere mutante, un robot che non trasporta alcun condottiero.

È uno scova l’intruso continuo quello che l’ultima parte dell’allestimento propone nell’Appartamento settecentesco, aperto in via eccezionale per tutto il periodo della mostra. Tra gli ambienti rococò progettati per Cornelia Costanza Barberini, si inseriscono le tele astratte di afroamericani come Frank Bowling o Jacqueline Humphries: per loro la scelta del non figurativo corrisponde a una forma di emancipazione dalla necessità di ricorrere forzatamente alla narrazione esplicita delle proprie origini. Con la sua figura di orante in ceramica (On my way home) Woody De Othello occupa la cappella senza stonare con il contesto, mentre nella Sala delle Sete dipinte Camille Henrot, francese attiva negli Stati Uniti, propone il suo video Grosse Fatigue, una wunderkammer di immagini e finestre raccolte sul web. Cindy Sherman è qui a suo agio con i consueti travestimenti. «Era da tempo che volevo realizzare un progetto in Italia – racconta Tony Salamé – a questo Paese mi lega la conoscenza della bellezza e della moda. La mia prima volta a Roma, all’età di tredici anni, fu un’esperienza unica. Tornarci adesso con una mostra, portando le opere da Beirut, è un sogno che si realizza».

Il Libano irrompe nelle ultime sale di Effetto notte con le sculture essenziali di Simone Fattal e i filtri blu alle finestre voluti da Rayyane Tabet: gli stessi usati durante il coprifuoco delle guerre civili. Perché la realtà, ormai, non può restare fuori.

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