[Questo articolo contiene spoiler sulla pellicola in oggetto]

Strade perdute (Lost Highway, 1997), film della svolta nella carriera del visionario David Lynch, torna al cinema per merito del progetto Il Cinema Ritrovato della Cineteca di Bologna, nella versione restaurata da Criterion, dal 16 al 18 gennaio.

David Lynch è tra i registi contemporanei più eclettici, riconoscibili e iconici. Nel mondo dell’audiovisivo ha ricoperto qualsiasi ruolo, da quelli più noti, come il regista e lo sceneggiatore, fino ad altri meno scontati, quali il montatore e lo scenografo, non lesinando anche parti più o meno memorabili in veste di attore; al di là del cinema, invece, è un pittore e un musicista, guru della meditazione trascendentale, per genialità e attitudine si potrebbe azzardare un paragone con David Bowie, presente nello spiazzante Fuoco cammina con me (Twin Peaks: Fire Walk with Me, 1992). È proprio parlando di Twin Peaks (1990-1991) che emerge la vera funzione pionieristica del regista: nel 1990, almeno con un ventennio d’anticipo rispetto allo strapotere di Netflix, David Lynch è stato capace di dimostrare le infinite possibilità della televisione, precursore del ruolo di primaria importanza ricoperto dalla serialità al giorno d’oggi.

Prima di Strade perdute David Lynch era già stato capace di distinguersi per la sua capacità di introdurre in vari generi – dall’horror al dramma biografico, dalla fantascienza al thriller, dal noir al road movieforti elementi di inquietudine, quasi estrapolati da una dimensione ulteriore, allucinata e non riconducibile al mondo concreto, quello da noi tutti sperimentato nella vita quotidiana. Qualcosa cambia con Twin Peaks e soprattutto con il prequel cinematografico Fuoco cammina con me: l’inquietante e l’inspiegabile diventano il centro della rappresentazione lynchiana, riuscendo ad ampliare il proprio sguardo a mondi e dimensioni ulteriori, sovvertendo le regole dello spazio, del tempo e ogni logica pre-esistente.

Nonostante possa essere incluso tra i lavori più riusciti di David Lynch, l’accoglienza di Fuoco cammina con me al Festival di Cannes fu generalmente negativa e anche al botteghino il film non ebbe i risultati sperati, non riuscendo a convincere a pieno la critica e non rispettando le aspettative dei fan della serie. Proprio per questo Strade perdute, come già anticipato, è il film della svolta nella carriera di Lynch, per certi versi lo si potrebbe anche elevare allo status di film-manifesto, una sorta di dichiarazione d’intenti che segna l’andamento della carriera del regista negli anni a venire e che troverà il suo massimo compimento in quello che, quasi all’unanimità, può essere considerato come il suo più grande capolavoro: Mulholland Drive (2001). Dopo la cancellazione della serie tv Twin Peaks e dopo la pessima accoglienza di Fuoco cammina con me in molti pensavano che Lynch fosse pronto a dirigersi verso il viale del tramonto. La storia dimostra il contrario e basterebbero soltanto alcune battute di Strade perdute per dimostrarlo.

Il film inizia all’interno dell’appartamento di Fred e Renée Madison. I due coniugi ricevono per posta delle videocassette contenenti riprese della loro abitazione, prima soltanto dall’esterno, poi anche dell’interno, con dettagli via via sempre più allarmanti. Dopo aver segnalato l’accaduto alla polizia, vi è uno scambio di battute illuminante tra Fred e un agente.

Fred: “Preferisco ricordare le cose a modo mio”

Poliziotto: “Si spieghi meglio”

Fred: “Come le ricordo io, non necessariamente come sono avvenute”

Prima ancora che le vicende del film diventino più oscure ed ermetiche, con evidenti tinte surreali, David Lynch sembra voler segnalare l’imminente cambio di registro della narrazione o più in generale la radicalizzazione del suo stile – nel modo più esplicito a sua disposizione: enunciando il tutto a parole. La soggettività del ricordo è la componente prima di una visione del mondo basata sul predominio dell’inconscio. Si mettono in primo piano le modalità tramite le quali dei dati vengono registrati piuttosto che l’oggettività dei dati stessi. La dimensione del sogno diventa preponderante, i personaggi si sdoppiano e si ricompongono in una sola identità che rappresenta la sintesi delle precedenti, le personalità diventano magmatiche e i volti e gli oggetti finiscono col diventare dei segni che non trovano rispondenza con un significato canonico.

Si tratta di un cinema in cui tutto è il contrario di quel che sembra. Nonostante quanto affermato, pensare a questa operazione come l’autocompiacimento di un autore cervellotico rappresenterebbe il più madornale tra gli errori. Tutti gli elementi presenti in Strade perdute – così come nei successivi Mulholland Drive, Inland Empire (2006) o Twin Peaks – Il ritorno (2017) – soggiacciono a delle regole precise seppur incomprensibili. Proprio per questo motivo l’atto della percezione delle migliaia di stimoli presenti nella messa in scena di una pellicola lynchiana rappresenta il fine ultimo dell’esperienza di visione. Pur non rifiutando la forma del racconto, lo scopo ultimo di David Lynch non è quello di raccontare una storia: essa rappresenta soltanto un punto di partenza di un percorso ben più ampio di decostruzione della narrazione e degli elementi a essa riferiti. Partendo da queste considerazioni si può facilmente arrivare a una conclusione: la ricerca del significato univoco di un’opera di Lynch potrebbe non avere un’effettiva utilità o addirittura potrebbe essere un’azione controproducente, con il rischio di macchiare un’esperienza di visione vergine, mai come in Lynch diversa di spettatore in spettatore.

Da Strade perdute emerge anche un’intenzione metacinematografica da parte dell’autore che, oltre a rendere evidenti i meccanismi della narrazione, mette in scena l’atto del catturare il mondo con la macchina da presa. A ricoprire questo ruolo è l’icona che ha reso questo film un vero e proprio cult, “The Mistery Man“, un uomo cadaverico, onnipresente e dai poteri ignoti, che vanno dall’ubiquità alla capacità di plasmare la realtà: quasi un semidio, una metafora del ruolo che un regista-auteur ricopre rispetto alla propria creatura audiovisiva. Vediamo l’uomo misterioso impugnare una macchina da presa o semplicemente il risultato finale delle sue riprese, che segnano il destino del protagonista, il suo mutamento, il suo ritorno a una condizione che rappresenta la sintesi delle precedenti. Si tratta di un lavoro di selezione e montaggio che caratterizza un cinema in corso d’opera, mai realmente finito, in cui la storia raccontata non è già data ma appare quasi in fase di svolgimento e in continuo mutamento.

Il cinema di David Lynch rimane innanzitutto un’avvolgente esperienza sensoriale: un cinema di luci e ombre, di suoni e rumori, di corpi e oggetti messi dinanzi allo spettatore in tutta la loro materialità e al contempo nella loro inafferrabilità. La musica è un elemento di fondamentale importanza in tutte le opere del regista, passando da Blue Velvet cantata da Isabella Rossellini nell’omonimo film, fino ad arrivare alle performance al Roadhouse in Twin Peaks e soprattutto al termine di quasi ogni episodio di Twin Peaks – Il ritorno. In Strade perdute la musica assurge quasi a elemento tematico entrando in perfetta comunicazione con l’anarchia del racconto: le note del compianto Angelo Badalamenti passano dalla malinconia, al mistero, alla più pura schizofrenia e si confondono in un manto di sonorità pungenti e differenti tra loro, che vede coinvolti anche David Bowie, Lou Reed, i Rammstein e Marilyn Manson tra gli altri.

Parlando di elementi ricorrenti nella filmografia di Lynch, anche qua le tende, rosse come nella Black lodge di Twin Peaks, ricoprono il ruolo di confine tra mondi e realtà differenti, rappresentando un vero e proprio limbo, una terra di mezzo. Nelle visioni allucinate, tra il buio più totale e i lampi che abbagliano lo sguardo degli spettatori, vi è una forte ricorrenza del colore rosso. Il rosso è il colore del sangue e dei corpi martoriati; è il colore dei capelli di Renée, della morte, della rinascita e del mistero della vita; è il colore della passione, della sensualità e del rossetto sulle labbra di Patricia Arquette, spesso e volentieri inquadrate in particolare. In fin dei conti Strade perdute è anche un film erotico, in cui la sessualità motiva ogni avvenimento riportato: da un sospetto tradimento a uno effettivamente compiuto, con rappresentazioni dal grande coinvolgimento e che lasciano ben poco spazio all’immaginazione. Ciò è reso possibile soprattutto dalla sfuggente presenza di Patricia Arquette nei panni di Renée Madison e Alice Wakefield, nei panni di una post femme fatale che diventa icona di una concezione rivisitata del neo-noir. In lei il confine tra vittima e carnefice risulta più sottile che mai e si esplicita nella sua sessualità, ma il desiderio maschile a conti fatti viene soffocato da una donna che afferma inequivocabilmente: “Non mi avrai mai“. Un po’ come nessuno di noi riuscirà mai a entrare pienamente nella sfavillante testa di David Lynch.

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Alessandro Corrao, Redattore