Marc Bloch, il partigiano fucilato dai nazisti: perché la sua lezione è utile ancora oggi - la Repubblica

Il Venerdì

Marc Bloch, il partigiano che cambiò la Storia

Marc Bloch, in un ritratto di Dariush, era nato a Lione nel 1886. Partigiano, venne fucilato 
dai nazisti a Saint-Didier-de-Formans nel 1944
Marc Bloch, in un ritratto di Dariush, era nato a Lione nel 1886. Partigiano, venne fucilato dai nazisti a Saint-Didier-de-Formans nel 1944 

Fucilato dai nazisti 80 anni fa, lo storico francese aveva rivoluzionato lo studio del passato scrivendo di mondo contadino, leggende, fake news. Ecco perché la sua lezione è utile ancora oggi

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Lione. La baracca dove ammassavano gli ebrei è stata rimossa dal cortile, ma tutto il resto è rimasto praticamente uguale. I ballatoi, i catenacci, gli spioncini, le latrine, le porte, le grate… Tra il febbraio 1943 e la Liberazione della Francia, agosto 1944, dal carcere lionese di Montluc – oggi “luogo di memoria” – passarono diecimila persone. Molte dirette verso i campi della morte, altre liquidate prima del viaggio. Benché i tedeschi avessero trasformato in galera qualsiasi locale del vecchio forte militare (refettori, docce, officine, cantine), le celle erano ufficialmente 122, distribuite su tre piani. Ognuna di quattro metri quadri. Accalcati dentro, otto prigionieri. Nei momenti di massimo affollamento l’edificio arrivò a contenerne 1.300: partigiani, ebrei o gente arraffata nei rastrellamenti per essere fucilata in caso di rappresaglie. Se le feritoie di Montluc fossero occhi avrebbero visto avvicendarsi un lugubre corteo di bambini, donne, vecchi, francesi, immigrati, artigiani, operai, contadini, preti, monache, impiegati, avvocati, militari…

O professori come Marc Bloch, che la sera del 16 giugno di ottant’anni fa – dieci giorni dopo lo sbarco alleato in Normandia – venne portato via da qui con altri 29 detenuti. Il più anziano del gruppo era lui, 57 anni, il più giovane un diciannovenne. Ammanettati due a due, furono spinti su camion coperti. Il tragitto durò un’oretta. Si concluse su una radura in località Saint-Didier-de-Formans. A far partire le raffiche furono quattro uomini, due in uniforme tedesca, due in borghese. Una seconda sventagliata di mitra mise fine ai gemiti dei corpi ammucchiati nel buio primaverile. Con la strage si vendicava un’imboscata partigiana avvenuta nei dintorni la settimana precedente. Dei trenta ostaggi ammazzati, quattro non hanno ancora un nome; sebbene gravemente feriti, due riuscirono invece a scamparla fingendosi morti. E avrebbero raccontato. Pare che poco prima degli spari, il professor Bloch abbia detto al ragazzino che gli tremava accanto: «No, petit, non farà male», per poi cadere gridando: «Vive la France!».

Trattasi di una leggenda martirologica. Dunque da prendere o lasciare. Anche se quell’ultimo fotogramma fosse inventato, il sacrificio del professeur non ne uscirebbe diminuito. Però è singolare che un racconto mitico avvolga proprio Marc Bloch, cioè un grande storico, per alcuni il maggiore del Novecento, che con intuizione e metodo pionieristici aveva frugato nelle leggende – remote e moderne – ritenendo che non andassero snobbate con boria scientista, ma al contrario analizzate in quanto preziosissimi rivelatori di mentalità, psicologie collettive, visioni del mondo. È perciò con assoluta coerenza che in un profetico scritto del 1921, Riflessioni di uno storico sulle false notizie della guerra, Bloch dissezionava le “fake news” raccolte sul fronte del primo conflitto mondiale – da cui era tornato pluridecorato – e nel successivo I re taumaturghi, suo esordio saggistico (1924), scandagliava i “miracolosi” poteri di guarigione dalla “scrofola” (tubercolosi delle ghiandole linfatiche) attribuiti nel Medioevo ad alcuni sovrani di Francia e Inghilterra.

Insomma, per Marc Bloch le leggende possono e devono servire alla ricerca di una verità storica. Nel testamento datato 1940 lasciò scritto: «Desidererei che la mia tomba, quale unico motto, portasse incise queste semplici parole: Dilexit veritatem». “Ha amato la verità” si legge sulla lastra del piccolo cimitero di campagna a Fougères, nella Francia centrale.

Ricordi di famiglia

Marc Léopold Benjamin Bloch proveniva da una famiglia ebraica, ma non praticante, di optants alsaziani, ossia coloro che in quella regione contesa con la confinante Germania avevano optato per la nazionalità francese dopo la guerra del 1870. Dalla moglie Simonne Vidal ebbe sei figli. Louis era il terzo, padre di Suzette, che incontro nel suo appartamento parigino. Prima di ricevermi ha messo le mani avanti: «Venga, ma la deluderò. Non ho granché da raccontare». Mi spiega che le memorie dei Bloch sono frantumate, la guerra ha flagellato il nucleo familiare con accanimento: «Non ho conosciuto i miei nonni, sono arrivata dopo. Di come erano so solo quel che ho ascoltato in famiglia o che si può ricostruire dalle poche lettere, foto, documenti rimasti. Ho ricordi d’infanzia della famosa casa-biblioteca di Marc Bloch a Parigi, in rue de Sèvres, ormai spoglia, depredata dai tedeschi, che avevano piazzato una contraerea sul tetto. Ho anche soggiornato nella dimora di villeggiatura a Fougères. In una piccola dependance accanto all’orto Bloch scrisse libri importanti come La società feudale e La strana disfatta. Quando ci entrai, il suo studio aveva un aspetto polveroso, ma era bello acciambellarsi sul vecchio lettino di velluto rimasto ai piedi della biblioteca».

Che cosa ha potuto scoprire sulla morte del nonno? «Le circostanze dell’arresto e dell’uccisione restano oscure. In pochi mesi era diventato un alto responsabile della Resistenza. Nel marzo del ’44 fu catturato e torturato dalla Gestapo. Non è escluso che a rivelarne il nascondiglio sia stato qualcuno di cui si fidava, forse un suo nipote, a sua volta partigiano, preso e fatto parlare dai tedeschi. Nel caos della guerra i Bloch si dispersero. I tre figli più grandi, tra cui mio padre, scelsero la lotta armata e vissero da combattenti le traversie della Liberazione. Gli altri sfuggirono alle persecuzioni trovando rifugio presso famiglie. Nonna Simonne morì di malattia in un ospedale di Lione qualche settimana dopo l’esecuzione del marito, di cui non aveva più notizie. Siccome si nascondeva sotto falso nome, fu gettata in una fossa comune. Per questo le sue spoglie perdute non riposano accanto a quelle di Marc Bloch. La sorella di Simonne non tornò da Auschwitz e il marito di lei venne fucilato».

Storico rivoluzionario, insegnante engagé, martire della Resistenza: come si coabita con un’eredità del genere? «Noi nipoti siamo cresciuti con i valori blochiani dello spirito critico, dell’impegno democratico, della libertà di pensiero» dice Suzette «ma in famiglia quel lascito è sempre stato temperato da una discrezione e da un pudore atavici che in un certo senso stridevano con l’immagine eroica del Marc Bloch gloria nazionale. E non perché quell’immagine sia falsa, ma perché ha rischiato spesso di finire preda della retorica patriottarda, strumentalizzata dalla politica: oggi quella del presidente-banchiere Emmanuel Macron, ma prima di lui ci aveva già provato Nicolas Sarkozy, per non parlare dei tentativi di riappropriazione da parte della destra sovranista di Marine Le Pen o di Éric Zemmour. Tentativi ai quali gli accademici hanno reagito con troppa timidezza». Suzette Bloch non è una storica né un’universitaria, per oltre trent’anni è stata giornalista dell’agenzia France Presse, tra l’altro come corrispondente da Roma. Sorride: «In un’epoca, la nostra, di strapotere mediatico, neo-oscurantismi, fake e post-verità, non le pare che la lezione critica di Marc Bloch possa tornare utile anche per chi fa informazione?».

Un innovatore

Ma nella sua vita breve quale era stata la svolta che lo studioso aveva impresso alla storiografia? Sintetizzarla è compito impervio. Lo cediamo volentieri a Massimo Mastrogregori. Professore alla Scuola superiore di studi storici, lavora sull’opera blochiana da quarant’anni, dalla tesi di laurea, e per Feltrinelli ha appena curato una nuova edizione, filologicamente rinata, di Apologia della storia, libro-fulcro, seppure incompiuto, dell’autore francese. «Forse la formula di “rivoluzione storiografica” può sembrare esagerata, ma in fondo credo che sia giusta. Bloch estende il campo della ricerca storica ad oggetti che fino ad allora ne erano stati esclusi o marginalizzati, tipo le leggende. Sulle prime, I re taumaturghi non viene accreditato come un libro di storia, parlava di cose che erano considerate folclore. Il racconto storico tradizionale era consacrato ai sovrani, alla diplomazia, alle guerre, ai grandi eventi, alle grandi personalità. Ovviamente Bloch non prescinde tutto questo, ma allarga lo spettro di ciò che può essere storicizzabile. E lo fa dialogando con studiosi di economia, giuristi, sociologi, geografi, antropologi. Apre la storia alle scienze umane e a un approccio che oggi diremmo interdisciplinare. Basti pensare che aveva in progetto una storia comparata delle civiltà europee».

Lo raccontano come un tipo severo, spigoloso. Eppure il personaggio Bloch ha qualcosa di irresistibile. Occhiali, baffetti, pochi capelli, borsa sempre sottobraccio, è un accademico borghese, ma posseduto dal demone della curiosità. Appassionato di romanzi polizieschi come di letteratura erotica (la custodiva in un cantuccio della biblioteca). Padre e marito austero, ma capace di insospettate tenerezze nelle lettere ai figli e nelle poesie alla moglie. Un eccentrico. «Non sono mai stato molto capace di annoiarmi» confessava a un amico, «quando si ama osservare gli uomini, le cose, le nuvole e si ha, in se stessi, qualche argomento di meditazione si è abbastanza premuniti contro questo disagio». Altrove scriveva: «Ho sempre pensato che il primo dovere di uno storico consista nell’interessarsi alla “vita”». E poi: «Se non ci si china sul presente è impossibile capire il passato». Un passato che fino all’industrializzazione ha visto l’uomo vincolato alla terra. Da qui l’interesse di Bloch per i mondi agrari, indagati studiando i cereali, il bestiame, i fertilizzanti, le mappe catastali, i passaggi di proprietà, la forma dei campi: aperti o chiusi, regolari o frastagliati. Lo sguardo dello storico si riposiziona “dal basso”, ma senza perdere di vista il potere, le strutture del dominio, le gerarchie sociali.

«Fu una “rivoluzione” di lunga durata» ricorda Mastrogregori. «Si sarebbe articolata nell’arco di tre generazioni di storici: quella di Bloch e del collega Lucien Febvre, i quali nel ’29 fondano la rivista Annales. Successivamente, la generazione di Ferdinand Braudel e infine quella di medievisti come Georges Duby o Jacques Le Goff. Fu un’impresa di grande portata innovativa, ma favorita anche da due fattori: i cospicui finanziamenti pubblici che permisero alla Francia di conquistare una centralità negli studi storici, e il collasso della blasonata accademia tedesca, distrutta dalla guerra».

Bestseller incompiuto

Nel 1941, mentre si appresta ad entrare in clandestinità, Marc Bloch avverte l’impellenza di difendere la missione critica degli studi storici nel momento in cui ogni razionalità sembra annientata dal delirio delle ideologie totalitarie. Apologia della storia o Mestiere di storico è un libro di metodo, dall’incipit non troppo velatamente autobiografico: «“Papà, allora spiegami a che serve la storia”. È così che pochi anni fa un ragazzino che conosco interrogava un padre storico. Del libro che state per leggere vorrei dire che è la mia risposta, perché per un autore non c’è lode più bella che l’essere in grado di parlare con lo stesso tono ai dotti e agli scolari. Ma una semplicità così alta è il privilegio di pochi eletti».

A un profano che volesse avvicinarsi all’opera di Bloch Mastrogregori consiglierebbe di cominciare da Apologia? «Sì, anche se è un libro-trabocchetto, più complesso di quanto non appaia dai propositi iniziali. Malgrado sia rimasto a metà, è il testo più tradotto di Marc Bloch. Con mezzo milione di copie vendute, è diventato a suo modo un bestseller. Però ha alle spalle una vicenda editoriale travagliata. Dopo la guerra fu pubblicato per volontà dell’amico Lucien Febvre, ma incollando pagine e capitoli senza tenere conto delle parti mancanti. In seguito Étienne Bloch, figlio maggiore di Marc e arcigno guardiano della sua opera, diede alle stampe il manoscritto integrale. Ne venne fuori un libro corposo ma illeggibile, e con vari errori di trascrizione. Con questa nuova edizione, aumentata di circa un terzo, ho cercato di rimediare a quelle carenze ripartendo dal piano dell’opera così come l’aveva tracciato l’autore, e ricostruendola sulla base di suoi scritti editi o inediti. L’intenzione era di riavvicinarsi il più possibile al libro concepito da Bloch, ma senza farne un’operazione destinata agli specialisti. Per questo lo abbiamo pubblicato nei tascabili della Universale Feltrinelli».

Per la copertina è stata scelta una celeberrima foto scattata da Josef Koudelka a Praga nella tragica estate del 1968. In primo piano c’è un orologio da polso, sullo sfondo un viale deserto, in attesa dei tank sovietici. Quasi a dire: occhio, è di nuovo scoccata l’ora della storia, quella che non fa prigionieri. In Apologia Bloch analizzava i complicati rapporti che separano/uniscono passato e presente. Nel ’43, dopo decenni dedicati allo scavo del passato, lui saltava nell’urgenza del presente aggregandosi al movimento di resistenti Franc-tireur. Non era un bellicista, ma aveva sempre nutrito una passionaccia per la vita militare. Con quel suo aspetto da contabile di mezz’età a fargli da camuffamento, si sarebbe rivelato un grande organizzatore delle attività clandestine, al punto che, quando fu catturato, si meritò un trafiletto sulle colonne del Völkischer Beobachter, organo ufficiale del partito nazista: «Arrestato il capo giudeo d’una banda di assassini». In La strana disfatta, uscito postumo, aveva formulato una spietata requisitoria sulle cause militari, politiche, morali che avevano portato all’umiliante invasione hitleriana della Francia.

Ma il libro era anche un atto di autoaccusa intellettuale: «La mia generazione ha cattiva coscienza… Abbiamo preferito la pavida quiete dei nostri studi. Possano i nostri figli perdonare il sangue che ci macchia le mani». Dice Massimo Mastrogregori: «In quel testo, come pure in Apologia della storia, Bloch si rimprovera di aver taciuto, di non aver gridato davanti all’avanzata dei nazi- fascismi, di aver continuato a fare il professore. La sua è una reazione comprensibile, ma delinea anche un paradosso: se infatti tra le due guerre Bloch si fosse dato alla scrittura militante, ai pamphlet di denuncia, forse non ci avrebbe lasciato opere come I re taumaturghi, La società feudale, I caratteri originali della storia rurale francese. In altre parole: lo studio, il lavoro dell’intelligenza, hanno o no un’efficacia politica? Antico dilemma».

E sia. Ma è forse un caso se l’avventura storiografica di Bloch e seguaci si esaurisce proprio negli anni Ottanta del Novecento, cioè – detto brutalmente – nell’epoca del “disimpegno”? «Certamente no» ritiene Mastrogregori. «Marc Bloch era stato un giovane di simpatie socialiste. Non fu un marxista, ma nei suoi scritti e in quelli della cosiddetta “scuola delle Annales” si avverte per così dire il “calore” del marxismo, del materialismo storico». Dopodiché? Grande freddo? «Conclusa quell’esperienza, gli studi storici si sono riconfigurati secondo competenze specialistiche o microdisciplinari, indirizzandosi sempre di più verso i grandi eventi, gli ambiti nazionali o locali, la politologia, l’attenzione alla memorialistica, la biografia, e più in generale verso il racconto, la scrittura della storia come forma letteraria. Intendiamoci, questo passaggio non ha comportato solo perdite, ma il dialogo tra le discipline si è fermato».

Bloch fu un umanista quasi cannibalico: «Lo storico» scriveva «è come l’orco delle favole, va là dove sente odore di carne umana». In che modo raccoglierne l’eredità oggi che abbiamo già un piede nel post-umano? «Difficile dirlo» conclude Mastrogregori. «Viene da chiedersi che cosa sarà un “umanista” quando non esisteranno più biblioteche e domineranno intelligenze artificiali di macchine che non distinguono tra cosa è vero e cosa è falso, semplicemente perché non lo sanno. In un futuro del genere, mancando di strumenti per discernere e fare scelte, non avremmo più alcuna importanza politica. Sarebbe un’interruzione della tradizione storica di dimensioni inimmaginabili. Paragonabile, che so, al crollo del mondo antico».

Sul Venerdì del 19 aprile 2024

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