Il romanzo e l'industria, la lezione di Dickens in "Il Libro dell'Anno" - Treccani - Treccani

Il romanzo e l'industria, la lezione di Dickens

Il Libro dell Anno 2012

Nicola Gardini

Il romanzo e l’industria, la lezione di Dickens

Grazie al grande scrittore inglese, nato due secoli fa, il conflitto sociale entra nella letteratura, anticipando temi oggi di grande attualità. Nasce un filone che passa per Zola e Kafka, per arrivare al nostro Volponi.

La storia del romanzo moderno prese una nuova strada il giorno in cui un ragazzino inglese di dodici anni, Charles Dickens, si vide togliere da scuola e mettere a servizio in una fabbrica di lucido da scarpe, a Londra, per aiutare la famiglia a risollevarsi dall’abisso in cui l’aveva precipitata la cattiva amministrazione paterna. L’esperienza non durò più di qualche mese. Ma Charles era segnato per sempre. Mai si sarebbe capacitato della leggerezza con cui la madre aveva permesso che venisse strappato allo studio, né della impenetrabile nuvola di silenzio entro cui i familiari avvolsero fin da subito quel suo periodo di lavoro forzato. Ma tanta sofferenza non rimase senza compenso. Trasformata la ferita in vocazione letteraria, Charles si ritrovò in possesso di tre idee cruciali, su cui doveva erigersi una mastodontica attività letteraria, una delle più fortunate di tutti i tempi: l’ingiustizia sociale, la necessità di un’istruzione antiutilitaristica, il maltrattamento dei giovani.

I romanzi di Dickens denunciano una modernità industriale che uccide le speranze e distrugge ogni bellezza, e dove i figli devono fare i conti con l’irresponsabilità dei padri. A differenza di un Defoe o di un Fielding, Dickens non dovette semplicemente affermare se stesso contro un padre conservatore e asfissiante, ma fu costretto a salvarsi da un padre irresponsabile, a far da padre al proprio padre. Un traumatico capovolgimento di ruoli che viene emblematizzato nella vicenda della piccola Nell, protagonista della Bottega dell’antiquario, la quale muore – tra i singhiozzi inconsolabili dell’autore – per aver accompagnato nella rovina, con la pazienza di Giobbe, un nonno biscazziere. Bravo Dickens, presago del cannibalistico sfruttamento della gioventù di cui le società del 21° secolo continuano a macchiarsi impunemente, non solo nei paesi dove i diritti civili mancano per tradizione. Sto pensando proprio all’Inghilterra, che manda avanti solo i figli delle élite, o all’Italia, che costringe la sua gioventù a espatriare o a sbandarsi nel cinismo e nel vuoto, oltre a tutti quei paesi in cui ragazzi e ragazze di talento sono stritolati da un’adultocrazia egoista e sfruttatrice.

Il genere romanzesco, grazie a Dickens, coglie nuove tensioni e nuovi conflitti sociali: scopre che la società è malata e introduce, attraverso questa scoperta, una fondamentale metafora dell’età postclassica. Tutti, d’ora in poi, sfruttati e sfruttatori, saranno patologici. È già aperta la via agli incubi di Franz Kafka. Ma tanto più malato – per rimanere nell’ambito ristretto dell’industria – sarà il lavoratore: si pensi ai corpi compromessi dei minatori di Émile Zola, in Germinal, che sputano nero, e ai loro figli rachitici e ingobbiti; o, per cercare un esempio a distanza di decenni, all’operaio tisico e per di più pazzoide protagonista del Memoriale di Paolo Volponi. Non a caso, dopo aver visitato una certa fabbrica a Lowell, negli Stati Uniti, dove l’ha portato il desiderio di trovare una società migliore di quella della madrepatria, Dickens sottolinea con ammirazione nel suo taccuino l’aspetto sano, pulito e giovanile delle operaie e nota che pochi sono i bambini impiegati, e solo per brevi periodi, perché l’istruzione a Lowell è considerata prioritaria. Ma soprattutto lo colpisce il buon livello culturale delle operaie: praticano la musica (nei loro alloggi hanno i pianoforti), leggono (hanno anche le biblioteche) e pubblicano una rivista, con articoli scritti da loro stesse alla fine della giornata lavorativa (di dodici ore), e pure di qualche valore! Perché – domanda Dickens – continuare a pensare in Inghilterra che i lavoratori siano soltanto quello che già sono e non quello che potrebbero diventare?Il discorso tipicamente novecentesco sull’alienazione dell’uomo comincia con Dickens, dalle sue memorabili rappresentazioni di sventure e miserie e soprusi, che tutti avvengono, più o meno scopertamente, sullo sfondo della prima rivoluzione industriale, ma è implicito anche nella sua comicità, nelle giocose soluzioni della sua scrittura solo in apparenza d’intrattenimento, che tanto sapeva e ancora sa divertire.

L’espressionismo fuligginoso e acido dei paesaggi urbani, guadagnati al mai definitivo atlante del genere romanzesco; i volti deformati dei personaggi; la babele di voci e interessi e intrighi; gli stessi nomi dei personaggi, nomi proverbialmente buffi e astrusi, sono di per sé immagini di alienazione: storture, malformazioni, disordine, mostruosità. Anche la verruca di un nasone, in un romanzo di Dickens, è flora industriale. Alla fine, il gusto retorico delle tinte forti non si distingue dai rumori della protesta. Non solo: il grottesco, a ben guardare, contiene l’antidoto, che è la fantasia. Gli eccessi cromatici della scena, se da una parte servono a mettere in mostra la disarmonia del mondo moderno, dall’altra costituiscono la manifestazione di un pensiero immaginoso e libero che non vuole arrendersi alla mentalità meccanica del nuovo universo capitalistico: è il messaggio di Tempi difficili, ma in fondo di tutti i libri di Dickens.Viene da chiedersi se ci sia ancora spazio, oggi, per un romanzo sui lavoratori alla Dickens o alla Zola. Le fabbriche stanno sparendo, ma neanche oggi mancano gli sfruttati e i sofferenti, in qualunque parte del pianeta. La soluzione sarà, credo, quella che Dickens propose a se stesso e al suo orribile mondo: immaginazione e libri.

La sua dark London

L’autore di Oliver Twist, raccontano i suoi biografi, amava passeggiare per Londra (da lui soprannominata ‘the magic lantern’, con allusione agli apparecchi ‘precinematografici’ del suo tempo, funzionanti con vetri colorati); nelle strade labirintiche (e non poco pericolose) della città industriale poteva osservare dal vivo personaggi e situazioni da cui traeva spunto per creare i protagonisti dei suoi racconti. Non stupisce, quindi, che il rapporto tra lo scrittore e la ‘sua’ città sia al centro di due iniziative di questo bicentenario. Alla mostra Dickens and London, ospitata al Museum of London, è stata infatti affiancata un’applicazione per tablet e smartphone, pubblicata a puntate e intitolata Dickens Dark London. Attraverso i disegni di David Foldvari e la voce narrante dell’attore Mark Strong, l’applicazione offre una full immersion nell’oscura Londra vittoriana, con la mappa dell’epoca sovrapposta alle odierne immagini satellitari. Un modo accattivante per sollecitare gli amanti di Dickens, ma anche i molti turisti che visitano Londra, a guardare i luoghi del presente con un occhio al loro passato, secondo i canoni della cosiddetta ‘realtà aumentata’.

I personaggi più amati

La casa editrice Penguin ha organizzato nel proprio sito Internet un sondaggio, The best Dickens’ characters, che ha visto trionfare i ‘cattivi’, a conferma della particolare abilità dello scrittore inglese nel ritrarre i personaggi negativi. Ma il fatto che in cima alla classifica si trovi Scrooge, lo spietato finanziere londinese che viene visitato dai propri fantasmi nella notte di Natale, è dovuto probabilmente anche all’attualità di questa figura:

Ebenezer Scrooge (Canto – o Cantico – di Natale, 1843)

Miss Havisham (Grandi speranze, 1860-61)

Sydney Carton (Racconto di due città, 1859)

Artful Dodger (Le avventure    di Oliver Twist, 1837-39)

Fagin (Le avventure di Oliver Twist)

Joe Gargery (Grandi speranze)

Pip (Grandi speranze)

Nancy (Le avventure di Oliver Twist)

Abel Magwith (Grandi speranze)

Betsey Trotwood (David Copperfield, 1849-50)

Dickens e il cinema: un rapporto ‘originario’

Fin dall’epoca del muto la ‘settima arte’ ha tratto alimento dalle storie, dai personaggi, dalle ambientazioni creati dal romanziere inglese. In occasione del bicentenario dickensiano, il Pordenone Silent Film Festival, il tradizionale appuntamento di Pordenone giunto alla 31ª edizione (direttore David Robinson), ha dedicato allo scrittore una notevole retrospettiva. Nel corso del festival (6-13 ottobre) sono stati proiettati trenta titoli del periodo del muto, tra cui l’Oliver Twist realizzato nel 1922 da Frank Lloyd. Alla rassegna è stata inoltre affiancata una straordinaria mostra di materiali ancora più antichi, risalenti all’epoca del ‘precinema’ (in collaborazione con il Museo del precinema di Padova). Oltre alle versioni per lanterna magica (apparecchio apprezzato da Dickens) di Cantico di Natale, sono stati esposti i vetri fotografici delle città italiane visitate dallo scrittore inglese e da lui descritte in Pictures from Italy.

Incipit

Cantico di Natale:   Marley, prima di tutto, era morto. Niente dubbio su questo. Il registro mortuario portava le firme del prete, del chierico, dell’appaltatore delle pompe funebri e della persona che aveva guidato il mortoro. Scrooge vi aveva apposto la sua: e il nome di Scrooge, su qualunque fogliaccio fosse scritto, valeva tant’oro. Il vecchio Marley era proprio morto per quanto è morto, come diciamo noi, un chiodo di porta (traduzione di Federigo Verdinois, Hoepli, 1888).

La bottega dell’antiquario:   È mio costume, vecchio qual sono, d’andare a passeggio quasi sempre di notte. L’estate, spesso, me n’esco di casa la mattina presto, e giro per i campi e i viottoli tutta la giornata, o anche me ne sto lontano per giorni o settimane di fila; ma, tranne che in campagna, di rado esco se non al buio, sebbene, e ne sia ringraziato il Cielo, io ami la luce del giorno e senta, al pari d’ogni creatura vivente, la gioia ch’essa riversa sul mondo.

Racconto di due città:   Era il tempo migliore e il tempo peggiore, la stagione della saggezza e la stagione della follia, l’epoca della fede e l’epoca dell’incredulità, il periodo della luce e il periodo delle tenebre, la primavera della speranza e l’inverno della disperazione. Avevamo tutto dinanzi a noi, non avevamo nulla dinanzi a noi; eravamo tutti diretti al cielo, eravamo tutti diretti a quell’altra parte.

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