Matrix Resurrections Recensione

Matrix: Resurrections, la recensione: Lana Wachowski mira al cuore, mettendo storia e sentimenti davanti a tutto

23 dicembre 2021
3.5 di 5
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A più di vent'anni dal film che, nel 1999, impresse a fuoco il suo marchio sull'immaginario del pubblico di tutto il mondo e cambiò per sempre il volto dei blockbuster hollywoodiani, Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss tornano nei panni di Neo e Trinity. Uguali e diversi. La recensione di Matrix: Resurrections di Federico Gironi.

Matrix: Resurrections, la recensione: Lana Wachowski mira al cuore, mettendo storia e sentimenti davanti a tutto

All’inizio si intravede, se non del genio, del gran talento. Lana Wachowski, già Larry, lo aveva detto: tornare a Matrix sarebbe stato possibile solo con un copione all’altezza. O forse lo aveva detto Keanu Reeves, non mi ricordo, poco importa. Fatto sta che Lana - che il film lo ha scritto assieme a due che di mestiere fanno gli scrittori, il David Michell di Cloud Atlas e il bravissimo Alekandar Hemon - questo copione l’ha trovato eccome.
E noi ritroviamo Neo. Anzi, Thomas Anderson. E una simil Trinity coi capelli blu. E un nuovo Morpheus. E Trinity, quella vera, che però si chiama Tiffany. Ritroviamo The Matrix.
La città non è più anonima (è San Francisco, riconoscibilissima e dichiarata), Thomas non è più un programmatore che di notte fa l’hacker ma un game designer di fama mondiale, che deve il suo successo a un gioco di nome Matrix (ne sta disegnando un altro: Binary...) e che va dall’analista (anzi, l’Analista) perché deve tenere a bada la mente, e la sua tendenza a confondere realtà e immaginazione. Vita vera e quel che ha raccontato nel suo gioco. Mentre i suoi giovani colleghi fanno brainstorming sui nuovi progetti con un’ironia molto meta su cinema, Warner, reboot, sequel e remake.

L’inizio di Resurrections duplica quello del primo Matrix. Letteralmente. Eppure ci sono delle differenze, eppure qualcosa stona, eppure. Eppure Tom Anderson non è più Neo, anche se lo è. E, come in quel primo film, Morpheus arriverà per aprirgli le tende del suo immaginario, per (ri)metterlo di fronte alla scelta che scelta non è. Per rimettergli di fronte, e in bocca, la pillola rossa. Per farlo uscire da un loop infinito, da una prigione dorata, per dargli la possibilità che tutti aspettavamo: riconquistare il suo amore perduto.
Perché questo è Matrix: Resurrections. Sotto gli effetti speciali, il bullet time, la filosofia, il digitale, il kung fu, le sparatorie e gli inseguimenti, oltre il mondo digitale della Matrice e quello reale delle macchine e degli umani non più schierati e divisi come prima, Matrix: Resurrections è una storia d’amore. Quello tra Neo e Trinity. La storia che, in fondo, la serie ha sempre raccontato.

Già, la serie. Di quei tre film venuti prima, dal Matrix del ‘99, ancora a suo modo formidabile, e da quei due sequel bruttarelli assai, Reloaded e Revolutions, questo Resurrections è figlio a tutti gli effetti. E come tutti i figli, purtroppo per loro, destinati a ereditare il meglio e il peggio dei loro genitori. Migliorando il meglio, cercando di limitare i danni del peggio. Buttando lì nel mezzo un dose inaspettata, ma assai gradita, di umorismo.
Oggi come allora, le parti dentro The Matrix funzionano quasi sempre. E quasi sempre bene, o benino. Benissimo nella parte iniziale, fino a quando Neo non viene “liberato”. Solidamente negli scontri con uno Smith redivivo, confusamente altrove, con un ipercinetismo della macchina da presa troppo al passo coi tempi: non c’è più Yuen Wo Ping, a coreografare, ma il Chad Stahelski di John Wick.
Oggi come allora, le parti fuori da The Matrix, quelle nel mondo “reale”, son pesanti e zoppicanti, gravate da spiegoni, e da una voglia di immaginario non supportata da una visione adeguata. Da una visionarietà non pacchiana.
Ma tanto, alla fine, quel che conta è l’amore. Anche se Trinity è diventata Tiffany, e Tiffany è mamma, MILF, donna che non sa e non ricorda, ma risponde. A Thomas. A Neo. Ai suoi occhi e alle sue mani.

Nessuna rivoluzione tecnologica, oggi. Nessun alzare più in alto l’asticella degli effetti e del possibile. A Lana Wachowski non interessa. Dà la paga a tanti contemporanei, ma non (le) importa. Non importano gli effetti, non importa la filosofia, non importa che la nuova Matrix, figlia di un Analista e non di un Architetto, lavori sulla psiche umana, le sue reazioni e i suoi sentimenti, esattamente come lavorano i mondi digitali che noi abitiamo forzatamente fingendo di sceglierli, quei social presi in giro pure da un Merovingio versione clochard.
Non importano il bello e il brutto, il cool e il kitsch, il sublime e l’abietto, le moto e i proiettili, gli occhiali e i tatuaggi, gli specchi o le porte, i gatti o i sensienti. Non importa la consapevolezza meta- di quello che Lana Wachowski sta facendo, e dichiarando.
Cioè. Importano. Un po’. Ma prima, dopo, alla base, e sopra a tutto, importano i sentimenti. La storia e l’amore. Insieme.

Neo non è più quello di una volta. O forse sì, è proprio lui, lui com’è sempre stato. Un protettore, uno scudo, una difesa. Un Eletto, forse, ma mai davvero un Eroe.
Perché non tutto è binario (e Lana lo sa meglio di tanti altri). Non tutto è alternativa. Non tutto è scelta. L’unica scelta da fare è quella dell’altro. Tutto è amore, e per l’amore bisogna essere in due. It takes two.
L’Analista gioca coi sentimenti, ne utilizza la potenza: e i sentimenti giocheranno lui, la loro potenza lo annienteranno. I sentimenti e la potenza di una coppia, di un’unione. Di due due destini che si uniscono stretti (per mano) in un istante solo.
Eletti. Volanti. Kitschissimi e bellissimi (ma belli davvero, Keanu indiscutibilmente il più bello del mondo, Carrie-Anne sexissima sempre e comunque).
Conta l’amore, quindi. Oltre le categorie estetiche e filosofiche .
E - ancor più scandalosamente - in Matrix: Resurrections conta il racconto. La storia. Le storie. “Il bello delle storie è che non finiscono mai”. Non solo quelle d’amore.
La trilogia di Matrix metteva al centro spettacolo ed effetti speciali, giocava con la matematica e la filosofia. Mirava agli occhi e al cervello. Resurrections non la rinnega, mantiene una coerenza ma mira al cuore e rimette storie e persone e sentimenti al centro di tutto. Anche della tecnologia. Una mossa niente male.



  • Critico e giornalista cinematografico
  • Programmatore di festival
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