Recensione di Ritratto di un amore
Ritratto di un amore MementoDistribution

A oltre quindici anni dal successo di Séraphine, biopic incentrato sulla vita della pittrice naif Séraphine de Senlis, il regista Martin Provost torna nuovamente a misurarsi con il rapporto tra terza e settima arte. Col suo Ritratto di un amore, dedicato all’artista Pierre Bonnard (Vincent Macaigne)e alla liaison con sua moglie Marthe de Méligny e con la giovane Renée, indaga infatti una delle stagioni pittoriche francesi più fiorenti: l’impressionismo, le sue peculiari e irriducibili derivazioni confluite fino alla metà del XX secolo. 

Ritratto di un amore, la trama

Sulla stregua di quanto inscenato per de Senlis, di quell’esperienza ne viene anche qui riportata la straordinaria forza espressiva, la dirompente lucidità con cui quelle leve artistiche si promettevano di tradurre la modernità. Alcuni anni prima dell’esordio di Bonnard, fu Édouard Manet a porre le basi estetiche e valoriali su cui, di lì a poco, un’intera corrente avrebbe edificato il proprio repertorio. 

Difficile dimenticare lo sguardo trasognato e al contempo disinvolto della donna adagiata nuda sul prato nel suo Colazione sull’erba (1863). Nello scandalo che sortì quella posa, nella tenue eversione che tanto fece vacillare i benpensanti dell’epoca, c’era a tutti gli effetti lo spirito rigenerante di un’era in fermento, pronta ad affacciarsi al contemporaneo. 

Paradosso vuole che sarà attraverso il corpo di una donna, quello della sua musa e futura moglie Marthe, che anche Bonnard saprà cogliere la pura essenza del suo presente e della propria arte. 

Tempera e olio su tela: raccontare la creatività 

Più che l’arte in senso lato, è forse l’atto creativo il vero protagonista della pellicola di Provost. Le pennellate di Pierre, imbevute di colori netti e vividi, figurano su grande schermo con la stessa decisione con cui il pittore improntò il suo stesso tratto. Fu infatti tra gli esponenti dell’impressionismo a sperimentare un linguaggio più ricercato e tagliente, spesso lontano dalle suggestioni squisitamente naturalistiche dei suoi omologhi, come lo stesso Monet. L’uso accorto del suono nelle sequenze in cui Pierre imprime il pennello sulle proprie tele, abbinato a una prospettiva ravvicinata ai dettagli, definisce l’aspetto probabilmente più incisivo del film: la regia.

Una scena di Ritratto di un amore
Una scena di Ritratto di un amore. © Carole Bethuel

Con un’attenzione mirabile al tocco dell’artista, Provost sembra indirettamente riecheggiare la straordinaria eredità de Le Mystère Picasso (1955), a firma di Henri-Georges Clouzot, tra i film ‘apripista’ della rappresentazione su grande schermo dell’arte pittorica. Nel capolavoro di Clouzot si riprendeva, in articolatissimi piani sequenza, Pablo Picasso mentre improvvisava alcuni lavori in carboncino, senza essere mai inquadrato in primo piano. Nella sua ambizione, la pellicola ambiva ad indagare il senso dell’arte, il come nasce e si sviluppa l’elaborazione creativa, seguendone la continuità temporale. Un esperimento, quest’ultimo, che rinunciava con ambizione al protagonismo dell’artista, cedendo il posto all’opera d’arte in sé, e ai misteri che cela il suo dispiegarsi.

Bonnard e il mistero dell’artista

Questo ‘tocco’ sembra familiare a Provost. Le sequenze più dinamiche del film, dove il tratto di Pierre viene pedinato per ripercorrere l’arco di realizzazione (e trasformazione) delle sue tele, ci rimandano allo stesso fascino del quesito suggerito dal ‘Mistero Picasso’. Ci interrogano con quella stessa perspicacia sul cosa definisce uno stile. Non certo un’impresa da poco se si pensa che la pellicola di Clouzot vantava la presenza dell’artista in carne ed ossa (l’allora settantaduenne pittore spagnolo), mentre la natura finzionale del biopic su Bonnard obbliga a doverne riprodurre il calco (e quindi l’identità artistica). 

Per un’imprevedibile ironia, di Picasso se ne avverte la presenza anche in Ritratto di un amore. C’è per lo più come appendice, o ‘fantasma’, vista la poca vicinanza al gusto e all’orientamento di Bonnard. In una scena Marthe recriminerà al marito la sua incapacità di adattarsi alle novità che innervavano il loro tempo, i primi del Novecento, non ultimo il cubismo, movimenti poco affini all’immaginario di Pierre. 

Il panismo, lo slancio naturalistico dei propri ideali, accentuato dallo stile di vita adottato dalla coppia (vissuta in un eremo campestre a Le Cannet, in Costa Azzurra) rifletteva l’impermeabilità delle opere agli stravolgimenti dell’epoca. Aspetto che, come il Guernica picassiano dimostrò, nella ferocia del suo racconto sugli orrori della guerra, apparteneva alle correnti più d’avanguardia.  

Vincent Macaign in una scena di Ritratto di un amore
Vincent Macaign in una scena di Ritratto di un amore. © Carole Bethuel

Un’identità che chiede riscatto

A un’apprezzabile ricostruzione del profilo artistico di Pierre si sovrappongono i suoi rovelli sentimentali, i tradimenti, gli intrecci e le conflittualità. Gli affanni della sua unione con Marthe sembrano rivelarsi già nel suggestivo incipit del film, come una rivelazione premonitrice: l’attacco asmatico della donna nel bel mezzo di una notte passionale sembra, in effetti, preludere i connotati di un amore soverchiante, talvolta corrosivo, difficile da trattenere se non sabotando la propria identità (cosa che la stessa Marthe fa già dal principio presentandosi a Pierre come aristocratica in rovina, pur essendo la fioraia di quartiere). 

Lo smarrimento identitario della donna perdurerà per gran parte della relazione, se per non un’unica parantesi: avvinta dal dolore e dal senso d’abbandono, Marthe improvviserà delle illustrazioni in carboncino, lasciando esondare il suo estro e le sue doti inespresse. Le sue opere si avvarranno comunque dello sguardo selettivo e valutatore di Pierre. 

Pierre, Marthe e Renée

Parliamo però di una lieve digressione, un passaggio di indubbio interesse che, a maggior ragione, avrebbe forse meritato un approfondimento. Di grande interesse sarebbe stato anche esplorare l’identità della studentessa Renée, amante di Pierre, inserita poi nel triangolo tra lui e Marthe. Più che parte di un triangolo, Renée verrà però presentata come diametro del loro cerchio relazionale; una nota a margine che, nella tragicità della sua parabola, poteva trovare riscatto in una ricostruzione più organica.

Tormenti e lati oscuri: sottofondi che nel film di Provost tendono a dissiparsi in nome di un’eccessiva romanticizzazione, e di un registro spesso lezioso. L’ambizione di voler trattare tutte le parti coinvolte sfocia spesso in una resa goffa, e poco uniforme, più funzionale al protagonismo di Bonnard e al ‘mistero’ della sua arte.

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Francesco Milo Cordeschi
Sono un comune romano del mondo che, dal 1990, coltiva avidamente più ossessioni: l'influenza degli spazi sull'identità, l'influenza degli immaginari sull'identità e, soprattutto, l'influenza di Tim Burton e Vittorio De Sica sull'identità. Di recente, sto anche esperendo l'importanza dei The Killers quando si è soli in macchina. Mi interesso e discetto di cinema, arti visive, politica e attualità tout court, con la lente prediletta dei gender studies. Collaboro tutt'oggi con diverse realtà editoriali. Nel 2021 è uscito il mio primo saggio 'Wonder Woman - Un'Amazzone tra noi', edito da Armillaria.