Polina Bosca: “Ero astemia, ora vendo spumante al mondo” - La Stampa

Sedicesimo appuntamento con «Il Bosco dei Saggi», la serie dedicata a raccontare - attraverso le loro parole - i grandi personaggi della nostra terra. Questa settimana tocca a Polina Bosca.

Una cantina buia. A tratti illuminata da luci soffuse che lasciano indovinare le sagome di decine di migliaia di bottiglie: «Noi le chiamiamo le cattedrali. Anche l’Unesco le chiama così e le ha riconosciute patrimonio dell’umanità». 25 chilometri di gallerie sotto la collina di Canelli, patria dello spumante italiano. «Quando scendo qui sotto mi sento sopraffatta, intrisa dei profumi intensi che trasudano dai muri. Mi emoziono sempre, come fosse la prima volta quando, bambina, mio padre mi ha accompagnato in questo mondo magico. E capisco che qui è la mia vita, non potrebbe essere altrimenti». Avvolta nel suo scialle di lana, Polina Bosca, la sacerdotessa, officia il rito per gli ospiti ma, in fondo, anche per se stessa: nella cattedrale del vino si riuniscono gli spiriti dei tanti che, in quasi duecento anni, hanno creato la comunità dello spumante.
Polina Bosca deve il suo nome all’origine australiana: «Detta così è un po’ esagerata. I miei genitori erano laggiù per lavoro». Polina nasce a Gold Coast, costa sudorientale del continente: «Sono rimasta poche settimane, neanche il tempo di coccolare un canguro», scherza. Ma questo succedeva e metà degli Anni Settanta quando lo spumante Bosca aveva ormai punti vendita in tutto il mondo. Per arrivare tanto lontano c’era voluto più di un secolo. Da quando Pietro Bosca, nel 1831, nella Canelli che aveva mantenuto la sua fedeltà ai Savoia dopo secoli di scontri con i signori del Monferrato, decise non limitarsi a fare il vino con l’uva della sua vigna ma acquistarla anche nei poderi vicini. E poi uscire da Canelli, acquistare nuove vigne e sperimentare. Una passione del luogo. Trasmessa ai figli e ai figli dei figli. Vinificare e sperimentare. Come ha fatto il canellese d’adozione Carlo Gancia che nel 1849 era emigrato a Reims per carpire, lui chimico travestito da semplice operaio della Piper Heidsieck, i segreti dello champagne. «Gancia tornò in Italia e raccontò al mio bisnonno i segreti del metodo classico per lo spumante italiano, quello che produciamo ancora oggi».

Una foto degli ann'20 che mostra le botti per il trasporto 

Polina inizia il racconto di un rito che può durare anche dieci anni, «dipende dalla maturazione delle bottiglie, quella che decide la qualità finale». Accatastate in orizzontale in un nicchione in fondo alla cantina stanno 12.000 bottiglie, «l’inizio del processo. Il vino, fatto con uve Cardonnay e Pinot nero, viene imbottigliato con l’aggiunta di lieviti e zucchero. Le bollicine nascono dall’azione del lievito che trasforma lo zucchero in CO₂». Sembra semplice ma il rito prevede passaggi delicatissimi: «Con il trascorrere dei mesi e degli anni le bottiglie vengono gradualmente inclinate su trespoli», che naturalmente hanno un nome francese, pupitre, pulpiti. Perché anche a Reims non scherzano quanto a sacralizzazione della produzione vinicola.

Il momento più delicato è quello del remuage, quando la bottiglia viene fatta ruotare per spostare i lieviti all’interno

Inclinando le bottiglie i lieviti esausti si raccolgono verso il collo. «Il momento più importante è quello del remuage, quando la bottiglia viene fatta ruotare per spostare i lieviti all’interno». Lo fa anche lei? «Non mi permetterei mai. È un compito troppo delicato. Abbiamo un ottimo mastrocantiniere. Io mi limito ad ascoltare la musica». Polina intende il suono ritmico di migliaia di bottiglie che rapidissimamente il mastrocantiniere fa ruotare in senso orario e antiorario a seconda dei lotti. Quello del remuage è il culmine del rito, una sorta di ostensione delle bollicine. Il resto è inevitabilmente, trattamento industriale: i tappi a corona congelati da una macchina per portar via gli ultimi residui di lievito, il sigillo della bottiglia con il sughero, l’etichettatura. Ora si può risalire in superficie, nelle ampie sale di casa Bosca, a ragionare di vino e non solo.

Le cantine di Bosca 

Un grande fortepiano del ‘700 fa da sfondo ai divani in pelle che accolgono gli ospiti. Oltre alla musica del remouage, che cosa le piace ascoltare Polina? «Direi gli U2, i Coldplay e per gli italiani Elisa e Fiorella Mannoia». E la musica classica? Quella che suona al fortepiano? «Il fortepiano non emette suoni da decenni. È impossibile da riparare. Mi piace Chopin. Quando ascolto il Notturno 2 mi emoziono». Lo dica non è un brano scelto a caso: «Se allude alla data di composizione, le giuro che è casuale. L’ho scoperto solo dopo questo curioso collegamento. Ma è vero che mentre Chopin componeva il Notturno il mio trisnonno fondava l’azienda di famiglia. Per questo ogni tanto lo ascolto mentre lavoro in cantina». Perché non basta saper fare le bollicine, bisogna anche imparare a raccontarle.

A Canelli il vino è stata un’industria, l’industria per eccellenza. Ancora oggi sulle vie del centro si affacciano le sedi delle aziende che hanno fatto la storia delle bollicine italiane: Bosca, Contratto, Gancia. «Davano lavoro a migliaia di persone. La prima camera del lavoro italiana è nata qui, per rappresentare i dipendenti dei bottai». Il figlio di Pietro Bosca, Carlo, ampliò il giro d’affari vendendo il vino agli italiani che andavano a cercar lavoro all’estero. Lo chiamavano «il vivandiere degli emigranti». Aveva fondato sedi dell’azienda a Buenos Aires e a New York. Spiegò il suo successo con due considerazioni: «Innanzitutto il vino è una bevanda apprezzata dagli italiani ma, in più, per gli emigranti rappresenta anche un forte legame con la terra d’origine». Un legame forte che negli Stati Uniti seppe superare anche il periodo difficile del proibizionismo.

Gigi, Pia e Polina Bosca mandano avanti l’azienda fondata dal trisnonno a Canelli (Asti) 

Poi, nel secondo Dopoguerra, è sembrato che il tocco magico delle bollicine dell’astigiano venisse meno, cedesse il passo a vantaggio degli spumanti del Nordest. «Questo era il cruccio di mio padre, Luigiterzo». Luigiterzo, tutto attaccato? «Sì, lo avevano trascritto così. Era il terzo Luigi della dinastia. Oggi c’è il quarto, il figlio di mio fratello. Ma per sua fortuna è stato trascritto correttamente». Luigiterzo e l’amico Lorenzo Vallarino Gancia si ingegnarono per far uscire dall’ombra le cantine di Canelli. Nel 2004 presentarono all’Unesco la domanda per dichiarare quelle colline e le cattedrali sotterranee patrimonio dell’umanità. «Non fu facile. Ci sono voluti dieci anni per raggiungere l’obiettivo. Ma ci riuscirono. Mio padre seppe del riconoscimento il giorno prima di morire».

Nella mia famiglia, è tradizione fare un’esperienza all’estero prima di lavorare a Canelli. A me è capitato di andare in India

Ora tocca a Polina, Pia e Gigi, la sesta generazione. Si è sentita obbligata a continuare il mestiere di famiglia? Avrebbe preferito percorrere un’altra strada? «Io sono sempre stata affezionata al mondo del vino. A differenza di mio padre che da giovane voleva fare il matematico. Ho studiato da agronoma all’università per prepararmi professionalmente a questo mondo». Le piace il vino? «La sorprenderò: fino a 25 anni ero astemia». Una rivolta? «No, un’abitudine. Quando ero bambina mio padre intingeva il mignolo nel bicchiere e me lo dava da succhiare. Ma a me non piaceva. Mi rifiutavo. Lui faceva buon viso a cattivo gioco: “Vuol dire - si consolava - che sarai bravissima nella degustazione. Gli astemi colgono meglio le differenze tra i vini”». Ma era chiaro che non era contento. Nella famiglia Bosca la tradizione vuole che prima di cominciare a lavorare a Canelli, ciascuno faccia un’esperienza all’estero: «Io andai in India. Il nostro partner locale non produceva un vino eccellente, stava rovinando il brand. Arrivai e scelsi una diversa azienda del posto. Una sera a Pune partecipai a una festa. Mi ubriacai. Il giorno dopo lo raccontai a mio padre. Credo che sia stato l’unico caso al mondo in cui un padre, alla notizia, abbia risposto alla figlia “che bello!”». Quel giorno Luigiterzo aveva scoperto che Polina, la sacerdotessa, era finalmente pronta ad officiare nel mondo magico delle bollicine.

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