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L’incoerenza del nostro tempo, le cose e le non-cose e Caspar David Friedrich

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Caspar David Friedrich, Viandante sopra il mare di nebbia, 1817

di Francesco Azzarello 

Questo articolo si interroga sulle ragioni profonde del grande successo della mostra dedicata al pittore da poco conclusasi, cercando di valutarle sullo sfondo della gara per l’attenzione umana fra mondo reale e mondo digitale, e della forte inflazione di immagini che ne è parte, nonché di metterle in relazione – alla luce di alcuni aspetti centrali della teoria di Johannes Grave sulla visione delle immagini e sul loro potere – con alcune caratteristiche della pittura di Friedrich che hanno permesso alle sue tele di resistere a detta inflazione. Tutto questo lo troverà chi legge nei paragrafi contrassegnati dalla lettera A. Chiude, quindi, l’articolo una breve sezione autonoma (ma non del tutto indipendente dalla prima), contrassegnata dalla lettera B, contenente un’analisi ermeneutica della tela Eismeer (Il mare di ghiaccio) come esempio di applicazione pratica della teoria di Grave. L’analisi è incentrata fondamentalmente sulla elaborazione del problema del male e della sofferenza riscontrabile nel quadro. 

A.1 Tempi che corrono, dualismi che restano 

Strange days have found us cantavano I Doors nel 1967 di fronte a un’umanità che stava per sbarcare sulla luna mentre, in un clima da catastrofe imminente e di rinnovamento culturale, il conflitto in Vietnam increspava tragicamente le acque già mosse della Guerra fredda. Come tutte le epoche anche la nostra ha le sue dissonanze cognitive: facile imbattersi, per citare altri versi di quella celebre canzone, in bodies confused e memories misused fra le promesse di immortalità dei guru dell’intelligenza artificiale e l’evidenza tragica di conflitti e atrocità che credevamo esserci lasciati alle spalle.

Viviamo giorni in cui la liberazione dalla sofferenza, paradossalmente, pur essendo già qualcosa di più verosimile che un’infondata speranza escatologica, si trova a condividere tempo e spazio del nostro presente col persistere e acuirsi della sofferenza e del male nella vita dei nostri simili e vicini immediati. In un rigurgito di razionalità non certo privo di panico (come dimostrano umori politici nefasti e retrogradi che in questa sede non hanno bisogno di essere ulteriormente dettagliati) stiamo tornando a comprendere per l’ennesima volta che quel che succede in Ucraina, in Israele o in Palestina potrebbe benissimo succedere anche qui da noi, abitanti dell’Europa occidentale. Un’Europa (intesa come società civile) ormai incapace di guardarsi allo specchio e riconoscersi, occupata com’è (insieme al resto tecnologicamente più avanzato del pianeta) a vagheggiare escatologie tecnico-scientiste, in particolare quella di un’immortalità di corpo e/o di spirito che, se presa sul serio (tanto per la sua negazione concettuale che per la sua tabuizzazione pratica della morte) più che transumana dovrebbe essere chiamata postvitale (essendo ciò che vive, per definizione, mortale).

Ora: come sapeva benissimo chi ci ha preceduto nel tentativo di restare lucidi la vita eterna è (se è) cosa ben diversa da quella terrena, l’una riguardando (per usare termini desueti ma non del tutto insensati) la cosiddetta anima, l’altra il corpo, l’una il racconto, l’altra l’esperienza. Questo modo di vedere le cose se, da un lato, è servito a organizzare ontologicamente la semantica umana (fatta tanto di scienza che di politica) –  la strumentazione concettuale che nel bene e nel male ci ha portati fino a questo punto (dai rituali di sepoltura paleolitici alle istituzioni teologico-politiche, gerarchie sociali e sistemi parentali inclusi) – ha, dall’altro lato, istituito un rapporto teso, a volte conflittuale e fondamentalmente contraddittorio fra il concetto di corpo e quello di spirito [1]. Intesi come separati o separabili. E se la scienza moderna ha fatto giustizia di questa divisione irreale (strumentalizzabile politicamente anche nel peggiore dei modi, specie quando un potere, per tutto il bene possibile di un’anima, fa tutto il male possibile a un corpo), la pratica umana tende a riproporla, come dimostrano i paradisi artificiali di cui sopra, in maniera ossessiva.

Questa resilienza pratica di una fallacia teorica conclamata è, evidentemente, segno anche di una certa virtù, di un’utilità ermeneutica di questa pratica, corrispondendo questa divisione all’operazione mentale che ci permette non soltanto di distinguere (in soldoni) fra l’atto e la potenza, la realtà e la possibilità, ma anche di praticarne comodamente e proficuamente i domini reali e virtuali (oggi, su tutti gli altri, quelli elettronico-digitali), ovvero di superare le dissonanze cognitive e le contraddizioni dell’esistenza e della storia. Che questa pratica di un ordine artificiale possa sconfinare nella schizofrenia è, infine, noto ma che altro è il talento dell’umano se non quello di correre genialmente sul filo di questo rasoio senza farsi troppo male, negoziando continuamente, fra lucidità e follia, le perdite e i guadagni (curiosamente, questi ultimi, prima o poi, sempre misurabili a livello di corpo)? 

caspar-david-friedrich-1024x481A.2 La corsa alle (non-) cose

Un momento di gestione illuminata della dialettica appena esposta (questa sì immortale) fra corpo e spirito, fra reale e virtuale, mi sembra essersi epifanicamente verificato (per restare in gergo religioso) di recente nel Paese in cui vivo (Germania). In occasione del 250° anniversario della nascita del pittore nazionale per eccellenza, Caspar David Friedrich (1774-1840), la mostra commemorativa Caspar David Friedrich. Kunst für eine neue Zeit (15 dicembre 2023- 1 aprile 2024) organizzata presso la Kunsthalle di Amburgo è stata talmente frequentata che gli stessi organizzatori hanno dovuto sospendere la vendita dei biglietti già un mese prima della chiusura della mostra, al fine di garantire a chi li aveva già acquistati la sicurezza fisica e una certa tranquillità nel visitarla (Vera Fengler, Nachfrage zu groß: Caspar David Friedrich sorgt für Ernüchterung in Hamburger Abendblatt 29.02.2024). Questa grande affluenza fisica, certamente, è stata facilitata dal dominio dell’universo elettronico (pubblicità, prenotazione on-line, pianificazione del viaggio in una città certamente non piccola ma geograficamente periferica). Ma se è vero, come sostiene – direi correttamente – Byung Chul-Han (echeggiando Vilém Flusser) quando afferma in Undinge. Umbrüche der Lebenswelt (2021, trad. mia [2]), che le non-cose (ovvero le informazioni) stanno scacciando le cose dal mondo, per una volta, in questa faccenda l’ordine digitale (digitale Ordnung) è stato ridimensionato a quel che originariamente era: uno strumento da usare per rendere la nostra vita reale più semplice e meno faticosa, non una sorta di universo parallelo che sgomita per spodestare quello reale. I visitatori fortunati che hanno potuto vedere la mostra e quelli meno fortunati che si sono visti negare l’accesso al museo prima della chiusura prevista hanno evidentemente preferito alla contemplazione elettronica delle opere dell’artista (disponibili sul sito del museo e non solo) l’esperienza del contatto reale con quest’ultime (con tutti gli svantaggi economici che ne derivano, inclusa una visita oggettivamente affollata e quindi ben poco agevole).

chun-hanÈ abbastanza stupefacente coi tempi che corrono che molti di noi abbiano desiderato (e qualcuno c’è anche riuscito) avvicinarsi fisicamente a delle opere d’arte pittorica. Chi ama la pittura sa benissimo che la resa elettronica di molte opere può essere, a volte, persino più appagante della visione materiale di un’opera reale, metodologia tradizionale e sicura ma affetta da variabili che spesso sfuggono al nostro controllo e possono rendere la fruizione delle immagini difficoltosa: dalla frequentazione della sala alle condizioni di luce, fino alla distanza di visione imposta dalla direzione dei musei. Le immagini elettroniche permettono notoriamente di allargare talmente tanto alcuni particolari da poter tranquillamente parlare di augmented reality, come si fa per le telecamere delle auto di lusso, che percepiscono e trasmettono angoli altrimenti del tutto impercettibili all’occhio di chi le guida [3].

Certo: l’arte e la frequentazione dei musei sono ancora un fattore di distinzione sociale, dividendosi il mondo fra chi ha il tempo, l’agio e la capacità di coltivare il proprio spirito e chi non ce l’ha perché, come si suol dire, non ha né soldi né tempo da buttare o se ce li ha non è stato educato a farlo. Certo: le opere materiali hanno anche un carattere di unicità non trasmissibile a livello di riproduzione elettronica o grafica, per esempio l’antichità storica: per dirla ancora con Byung Chul-Han, le cose sono più preziose delle non-cose (come dimostra anche il valore sul mercato di un’opera d’arte rispetto a qualunque sua riproduzione). Nondimeno questa corsa golosa essenzialmente a delle immagini non-virtuali, nell’inflazione di immagini virtuali e non che popola le nostre vite, ha qualcosa di sorprendente. Da una parte, infatti, le immagini hanno assunto grazie ai nuovi strumenti di comunicazione spazi, prima dell’era digitale, tradizionalmente riservati alle parole e alla scrittura (per esempio nell’educazione e nella comunicazione scientifica [4]). Dall’altra, la loro forza comunicativa è stata fiaccata dalla rivoluzione digitale: ogni immagine ha il sapore del già visto perché tutto è diventato sempre visibile.

pxl_20231218_110127457a-cd-friedrich-in-kunsthalleNulla di nuovo sotto il sole delle immagini sembrerebbe potersi affermare: in questa sorta di pratica massiccia dell’immagine ogni nuovo nella sua fugacità – direbbe Qohelet – è già stato visto (YouTube, in un batter d’ali, ci dice persino quante volte) e sta per essere scalzato da un altro nuovo di simile durata. Nell’età della documentazione ossessiva permessa dal digitale, il rapido oblio è il destino paradossale di ogni nuova informazione.

Evidentemente le immagini reali costituite dai quadri di Friedrich esposti ad Amburgo obbediscono a leggi economiche diverse da quelle a cui sottostanno le altre immagini, specie quelle virtuali. Le immagini proposte dalle tele di Friedrich sono artistiche, si dirà, e per questo sfuggono all’inflazione di cui sopra. Ma anche le immagini artistiche sottostanno all’impietosa legge dell’informatività, secondo la quale nella comunicazione l’attenzione del destinatario di un testo diminuisce in assenza di elementi inaspettati (cosa che rende, per esempio, le formule liturgiche in genere noiose ai più) e aumenta in loro presenza, sempre che conoscenze previe e in qualche misura inerenti al testo stesso ne permettano la decifrazione (e infatti comprendiamo che quelle macchie e linee nere sopra e sotto la bocca della Monna Lisa sono baffi – celebri, quelli aggiunti da Marcel Duchamp – prima ancora di scandalizzarcene). E molte opere d’arte sono diventate a forza di essere viste e riviste, visitate o nominate (senza mai essere state viste), lentamente cartoline per turisti o cosiddette icone (dall’urlo di Munch al David di Michelangelo…).

Evidentemente chi ha deciso di andare alla mostra aveva qualche buona ragione per attendersi dalla contemplazione di quelle immagini non-virtuali qualcosa di nuovo, di inaspettato, al di là della semplice esposizione alla loro materialità (che pure, come osservavo più sopra, è anche essa contestualmente significativa ed estranea a ogni riproduzione tecnica) ma anche al di là del letterale inflazionalmente già visto, essendo i quadri di Friedrich non solo alcune delle tantissime immagini che ci passano sotto gli occhi tutti i giorni ma addirittura immagini fra quelle più presenti intertestualmente (e non solo) nell’immaginario visivo contemporaneo: dagli echi intertestuali nel cinema di Walt Disney e di altri autori più ricercati (come, fra molti altri, Carl Theodor Dryer), alle foto di spalle su panorami sempre meno mozzafiato che affollano le reti sociali [5] alcuni dei suoi quadri sono fra i più riprodotti (in toto o in parte) sul pianeta. 

A.3 Il potere delle immagini 

Azzarderei un’ipotesi: forse – accanto a tutte le ragioni normali che possono portarci a visitare una mostra di pittura da qualche parte nel mondo (dal conformismo radicale di chi va dove lo portano gli altri alla fissazione malsana verso un artista in particolare di chi va solo dove può trovarne delle opere) in questo momento di estremo disorientamento e dissonanza cognitiva molti di noi per comprendere il tempo che stiamo vivendo hanno sentito la necessità di tornare al corpo. Tanto al proprio che desidera esperienze oliste (non solo visive o mentali) che a quello del mondo, un mondo (per una volta) tornato, nei termini di Byung-Chul Han, terrestre (terran), stabile, un mondo con qualche informazione (pura) in meno e qualche cosa in più. In fondo sono le cose che hanno vita duratura a dare una forma al mondo [6], a rendercelo abitabile e capace di verità, osserva Byung-Chul Han richiamandosi a testi di Hannah Arendt. Continua il filosofo: 

«Le informazioni nella loro forma post-fattuale sono volatili. Dove non c’è nulla di tangibile, si perde ogni stabilità. Oggi le pratiche che richiedono tempo stanno scomparendo. Anche la verità richiede tempo. Quando un’informazione rincorre l’altra, non abbiamo tempo per la verità. Nella nostra cultura post-fattuale di eccitazione, gli affetti e le emozioni dominano la comunicazione. Al contrario della razionalità, sono molto volatili in prospettiva temporale. È così che destabilizzano la vita. […] Per stabilizzare la vita è necessaria una diversa politica del tempo». 

71bbobfuygl-_ac_uf10001000_ql80_Lo stile di queste affermazioni (e certamente anche il metodo puramente filosofico che le ha prodotte) urterà molti lettori e lettrici (me compreso, più aduso a fidarmi dell’argomentazione scientifica basata su dati piuttosto che di un discorrere poetico-concettuale) ma, pur con tutti i loro difetti, è difficile ignorare il buon senso di queste intuizioni. Che mi sembrano, del resto, confermate dalle idee presentate in Bild und Zeit. Eine Theorie des Bildbetrachtens (2022a) di uno storico dell’arte – peraltro esperto di Friedrich –, Johannes Grave, intorno al potere delle immagini [7]. Sostiene Grave, infatti, che le immagini hanno il potere di imprigionarci in processi temporali che sono al di fuori del nostro controllo (abbiamo bisogno di essere intercettati dalle immagini per poterci trovare coinvolti in quei processi) e che ci aprono nuovi spazi cognitivi: 

«[…] quel che rende preziosa l’esperienza delle immagini al punto da renderla una delle esperienze umane più affascinanti osserva lo storico si rivela soltanto se non ignoriamo il valore intrinseco del tempo trascorso a guardarle» (Grave: 212, trad. mia molto libera). 

A patto che – aggiunge – implementiamo il tempo trascorso a contemplarle parlandone con altri che hanno fatto la stessa esperienza. E a farlo in un registro libero e paritario: come fra visitatori occasionali di una mostra, appassionati anche, ma non eruditi o specialisti, liberi di scambiarsi le proprie impressioni o di tacerle. Lo storico è infatti convinto che nella contemplazione delle immagini la preconoscenza di informazioni (imposta per esempio da un discorso specialistico) ci obbliga alla ricerca della loro conferma, rubando tempo (cioè potenzialità) alla nostra esperienza ermeneutica. 

A.4 Perché cercare proprio Friedrich? 

Ammessa questa ricerca di un tempo diverso, fatto di cose più durevoli che le informazioni effimere, resta da capire perché a molti di noi è venuto in mente di cercarlo fisicamente proprio nei quadri reali di Friedrich. Le ragioni profonde (che presento ovviamente come mere supposizioni da affiancare a quelle relative al normale interesse, specialistico e non, per le opere di un grande artista) mi sembrano molteplici. 

norbert-wolfcaspar-david-friedrich-1774-1840-der-maler-der-stilleA.4.1 Il silenzio e la verità 

La prima fra quelle che riesco a intuire – probabilmente la più importante, almeno fra quelle che illustrerò – mi sembra collocabile nel portato complessivo della sua poetica. Friedrich, come osserva Norbert Wolf (2023: 89) è celebrato oggi come geniale designer del silenzio (genialer Gestalter der Stille). Chiunque conosca le sue opere sa benissimo che il loro tema fondamentale non è tanto (come si è per lungo tempo ritenuto) la rappresentazione del sublime (v. Grave, 2001 [8]) ma l’atto di esperirlo nella natura al di là del suo immediato apparire (anche psicologico, come forte spavento p.e.), al di là di qualunque altro immediato apparire naturale (idilli più o meno naturalistici e narrazioni più o meno storiche comprese). Per citare ancora Wolf (ibidem, tr. mia) il pittore «[…] raffigurava attimi che comprendono l’eternità e l’infinito, la riflessione fra il divenire e il trapassare, la sofferenza e l’azione». Attimi, in altre parole, di Stille, di quella dimensione cioè che Byung-Chul Han nega all’ordine digitale assegnandola in esclusiva all’ordine terrestre, che con la sua stabilità e capacità di resistenza a ogni nostra interpretazione, sa dirci dei no che lungi dallo scoraggiarci ci hanno sempre stimolato a superare qualsivoglia colonna d’Ercole si opponesse al nostro cammino: 

«Il silenzio è un prodotto della negatività. È esclusivo, mentre il rumore è il risultato di una comunicazione permissiva, estesa, eccessiva. Il silenzio emana dall’indisponibile. L’indisponibile intensifica e approfondisce l’attenzione, fa emergere lo sguardo contemplativo. Ha la pazienza del lungo e del lento. Dove tutto è disponibile e accessibile, l’attenzione profonda non si sviluppa. Lo sguardo non si sofferma. Vaga come quello di un cacciatore». 

Cosa è indisponibile in un quadro di Friedrich? Senza addentrarmi in dettagli che esulerebbero dagli obiettivi di questo articolo e che certamente non sono familiari alla maggioranza di chi ha voluto recarsi alla mostra [9], la risposta più ovvia è il senso univoco e referenziale delle immagini che ci propone. Disponibile mi sembra invece sempre la loro verità, intesa con Arendt e Heidegger (ripresi da Byung-Chul Han) come fatticità, come singolarità che si oppone a ogni astrazione, a ogni virtualizzazione, a ogni manipolazione. Nei termini di Arendt (cit. da Byung-Chul Han, tr. mia):  «[…] [la] verità come concetto potrebbe essere definita come ciò che l’essere umano non può cambiare». Per dirla banalmente: la verità (nella sobrietà di questo senso del termine) non soltanto dà stabilità alla nostra vita ma si oppone concettualmente a ogni sorta di fake news. Messe così le cose si capisce meglio perché chi ha visitato o voluto visitare la mostra ha rifiutato di accontentarsi della sua versione elettronico-digitale. La fatticità delle immagini pittoriche reali di Friedrich

-    è una verità muta (perché non traducibile esaustivamente in parole [10]);

- che ricusa ogni nostra interpretazione (e una riproduzione elettronica di un quadro di Friedrich, per scintillante e illuminante che sia, è un’interpretazione prodotta sulla base di indici astratti, che correla colori a diverse gradazioni di luce, tanto che possiamo manipolare questa relazione – per esempio in una foto digitale – in misura molto maggiore rispetto al tradizionale procedimento chimico dell’analogico); 

 - e si esperisce in genere con il corpo (o col presupposto dello stesso, considerando in genere più autorevole un’opinione qualunque su un quadro purché venga da chi ne abbia fatto esperienza vera, come quando si sente dire da qualcuno la cappella Sistina? Non so chi l’abbia fatta ma quando l’ho vista sono rimasto senza parole oppure Io non ho mai visto un Monet) 

La verità di quelle immagini è, in altri termini, che ogni interpretazione è difettiva rispetto all’esperienza che ne possiamo fare. Esperienza che vista la loro fatticità va fatta con il nostro corpo reale. Andando alla mostra cerchiamo di entrare, insomma, in una dimensione temporale in cui, reti sociali nonostante, non tutto ciò che si può umanamente esperire può (o deve) diventare visibile e dicibile [11]. Andiamo insomma alla ricerca di una verità esperibile anche se non detta [12], non digitalizzabile, non esplicabile, di un privato resistente per definizione a ogni tentativo di profanazione [13]. 

grave-2024A.4.2 Natura? Fine corsa? 

La seconda ragione che ha spinto così tante persone a visitare la mostra, con buone speranze di ritrovare una dimensione temporale in cui potersi confrontare con una verità forse non universale ma cognitivamente ed esistenzialmente utile (nei termini e con le caratteristiche appena esposte), mi sembra legata ai suoi temi più ricorrenti: la sofferenza, il silenzio, il lutto inteso come perdita e separazione. Tutti temi inevitabili ma difficili da mettere in parole senza svilirli e soprattutto terribilmente attuali. Tuttavia, come avverte Johannes Grave nel saggio di apertura del catalogo della mostra, intitolato “Natur und Subjekt bei Caspar David Friedrich. Zur Leitfrage der Ausstellung” (in Bertsch / Grave 2024: 17) prima di ogni altro tema (religioso, politico o filosofico) al centro dell’opera del pittore c’è la natura, o meglio il rapporto (fondamentalmente patologico) fra essere umano e natura.

Seppure Friedrich, a differenza del suo celebre contemporaneo inglese Joseph Mallord William Turner e del suo connazionale tedesco Carl Blechen – che visse una generazione dopo quella di Friedrich –, presenti paesaggi non ancora invasi dalla rivoluzione industriale, è impossibile imbattersi nelle sue tele in un facile mimetismo naturale pseudo idillico. I suoi paesaggi sono sempre figli di uno sguardo umano, a volte segnalato esplicitamente attraverso i famosi e ricorrenti personaggi di spalle, altre volte implicito ma facilmente intuibile (per esempio nell’abitudine di usare schizzi di zone o regioni diverse in un solo paesaggio). Friedrich respirava l’aria del suo tempo. Il XVIII secolo aveva messo in crisi l’unità della natura (dividendola in regni angusti quanto le nuove scienze che servivano a indagarla, biologia e fisica su tutte).

Kant, Schelling, Schiller, Novalis e molti altri cercavano di recuperarla concettualmente quest’unità, al fine soprattutto di chiarire quale fosse il ruolo dell’essere umano al suo interno. Grave avverte che è molto difficile affermare con precisione se e quanto vuoi gli scritti vuoi le idee degli autori su menzionati convincessero Friedrich (che ne avesse sentito parlare, almeno dal circolo colto dei suoi amici è altamente probabile) ma a orecchio, almeno a me, i suoi quadri ricordano le idee di Schelling, salvo che (come osserva anche Grave) con le sue figure di spalle sempre intente a contemplare o meditare (ovvero molto indaffarate in attività non assimilabili a un lavoro tradizionale) Friedrich sembra aver trovato il modo di porre la questione del rapporto fra essere umano e natura senza tuttavia rispondervi veramente [14].

grave2022I suoi personaggi non sono mai né vittime né carnefici o (invincibili dominatori) della natura. Se, come conclude Grave, le sue opere finiscono per scontentare tanto gli e le ecologist* radicali che i e le loro oppost* omologh*, possono comunque contribuire a rimettere in discussione il nostro ruolo all’interno della natura (a differenza dei due radicalismi appena indicati, apparentemente incapaci di o non disposti a discutere, razionalmente francamente e liberamente di qualcosa).

Ma questa centralità del rapporto uomo-natura nell’opera di Friedrich è davvero sufficiente a spiegare, da sola, tanta (e così furiosa) affluenza? Friedrich, in fondo, arriva buon ultimo nella corsa di cassandre cui siamo ormai tutti discorsivamente esposti. E il suo messaggio non mi sembra più chiaro o più forte degli altri. Anzi! Grave ci ha avvertito che l’unica cosa che si può affermare con certezza rispetto alle sue idee al riguardo è che quando Friedrich rappresenta la natura lo fa sempre insieme a un soggetto umano. Cioè senziente, sia fisicamente che psicologicamente. Questo aspetto della questione mi sembra veramente decisivo: questo soggetto (presente non solo nei quadri di Friedrich come immagine attuale ma potenzialmente anche in ogni aspirante visitatore e visitatrice della mostra) è  (o si ritiene che sia) infatti ormai cosciente che lo spettro che fra gli anni ‘40 e ‘60 del secolo passato si evocava con l’espressione la morte del sole – locuzione che alludeva alla certezza scientifica che tutto il nostro mondo sarebbe stato spazzato via dall’esaurimento del carburante nucleare di questa stella e dai processi apocalittici che ne sarebbero seguiti, metaforicamente analoghi alla crisi delle grandi narrazioni, ai disastri dei totalitarismi e alle catastrofi nucleari e ambientali di ieri – non solo è tornato a inquietare le sue notti ma lo ha fatto perché non è più (o è tornato a non essere più) soltanto un’astrazione concettuale matematica. Rathgeb ritiene che Friedrich rappresentasse la natura come se la storia dell’umanità fosse giunta alla fine. Il pittore avrebbe percepito nella natura «un vuoto sublime e una ritrosia misteriosa» (eine erhabene Leere und eine geheimnisvolle Reserviertheit).

La natura, nel gesto muto, austero e per nulla materno che ha secondo Rathgeb nelle tele del pittore, starebbe semplicemente lì come un sopravvissuto, come un ultimo testimone di una storia, quella del viaggio dell’umanità su questa terra, che se era iniziata sotto i migliori auspici stava finendo molto male. Osserva Rathgeb: 

«I paesaggi che [Friedrich] dipingeva sono uno specchio della moderna solitudine. Nelle sue passeggiate all’aperto guardava alla natura con gli occhi aperti e con attenzione ma anche con lo stupore dello smarrimento, come se il tempo si fosse fermato». 

Rathgeb mette in relazione questa solitudine con la sensazione appunto dello smarrimento riportandola, mi sembra, tanto alla tradizionale Entfremdung da rivoluzione industriale che alla crisi ecologica (odierna o ottocentesca?) ormai agli sgoccioli: 

«Nei suoi quadri migliori il mondo è immerso in una luce assurda. Una luce in cui l’essere umano non è più previsto. La natura lo ha espulso, è lei che se ne è separata. Non c’è più ritorno, C’è soltanto da attendere quel che potrebbe ancora accadere. È nelle mani dell’essere umano. La natura avrà l’ultima parola». 

eberhard-rathgeb-malerNon condivido quest’interpretazione della luce nei quadri di Friedrich (e includo nella mia valutazione, senza sapere quali siano, anche i quadri che Rathgeb considera peggiori, in modo da potermi riferire a tutti) e ancor meno il passo successivo: una cosa è la posizione contemplativa che Friedrich spesso dà ai suoi personaggi (e anche allo spettatore), un’altra che Friedrich all’inizio dell’Ottocento prevedesse Armageddon ecologici o sensibilizzasse con i suoi quadri alla difesa dell’ambiente. Non dico che non sia possibile vedere oggi nei suoi quadri quest’inquietudine e questo smarrimento (e persino un invito a guardare alla natura o al paesaggio in modo diverso), ma penso che questa prospettiva sia fondamentalmente determinata dal nostro contesto storico piuttosto che veicolata come tale, intenzionalmente, dall’artista nelle sue opere.

Se la tesi di Rathgeb appare, nella sua estrema laconicità, interessante quanto eccessivamente audace, quella di Grave (più argomentata) forse è troppo prudente nelle conclusioni. Il combinato disposto di entrambe mi sembra però cogliere nel segno: quella di Grave affronta la questione a partire dall’oggetto in mostra, cioè le tele di Friedrich, quella di Rathgeb a partire dai soggetti che le hanno volute vedere: coscienti di esser giunti a fine corsa (se non biologicamente almeno culturalmente e politicamente) ma insoddisfatti intellettualmente dalla virtuale parodia di dibattito circolante nell’ordine digitale, gli spettatori e le spettatrici (fisicamente giunti/e ad Amburgo o no), hanno cercato una risposta non banale (perché radicale nel suo atteggiamento interrogativo) e affidabile (perché rispettosa della fatticità di ciò che interroga e perché valutabile a partire dall’organo semantico primordiale dell’essere umano: il proprio corpo). Si trattava probabilmente, recandosi alla mostra, di riappropriarsi di quel che, in questi strange days di naufragio culturale e politico[15], abbiamo la sensazione di star più o meno inesorabilmente perdendo cioè: tanto la cosiddetta natura nel senso della condizione abitativa del pianeta per un’esistenza stabile al punto giusto (quel che Byung-Chul Han chiamava ordine terrestre) che la capacità di agire al suo interno con veridicità, lucidità, integrità ed equilibrio di corpo e spirito. 

Caspar david Friedrich, Das Eismeer,

Caspar David Friedrich, Das Eismeer, 1823 (olio su tela, 97×127 cm. Kunsthalle Hamburg

B.1 Un esempio: Eismeer e il suo potere 

Propongo a titolo di esempio un’interpretazione del dipinto in linea con le idee di Grave sul potere delle immagini (cosciente di non potere, per definizione, esprimerla tutta), un’interpretazione dunque poco erudita [16], certo, ma non soltanto personale, ovvero costruita su letture di testi specialistici, idee o associazioni di un profano (quale certamente io sono) debitamente scambiate con quelle di altri e altre profane. Per seguire il discorso è necessario tenere presente queste cinque informazioni contestuali: 

1)  Nel 1787 il tredicenne Caspar David Friedrich (già orfano di madre a sette anni) vede annegare il fratello minore Johann Christoffer mentre tentava, probabilmente, di salvare il pittore stesso, tradito dal ghiaccio su cui si trovava.

2) Nel 1820, molto probabilmente, lo storico e teorico dell’arte Johann Gottlob von Quandt commissiona a Friedrich un quadro che rappresenti la terribile bellezza del nord.

3) La tela che sto discutendo è nota anche col titolo Il naufragio della Speranza, dall’omonima nave naufragata in Groenlandia intorno a quegli anni e riconoscibile in una versione precedente del dipinto oggi perduta (nave a cui quella visibile in questa versione potrebbe dunque rimandare, anche se solo contestualmente)

4) Caspar David Friedrich non conosceva l’Artico se non dalle descrizioni delle spedizioni leggibili sui giornali e dai racconti di un suo amico e vicino di casa norvegese. Alcuni studi preparatori alla tela mostrano il suo interesse per i banchi di ghiaccio che vide formarsi sull’Elba gelato (Friedrich viveva a Dresda).

5)  Friedrich è stato a lungo considerato un pittore del cosiddetto sublime, genere all’epoca in voga nelle arti figurative. Di che si tratta? Del paradossale senso di sicurezza che, secondo vari teorici dell’arte (fra i quali il committente del quadro), sarebbe prodotto nello spirito di chi osserva un’immagine contenente qualcosa di terribile o grandioso dalla combinazione dello stupore che il rappresentato genera in chi lo guarda e della distanza fisica di questo da quello, che ne garantisce la sicurezza [17]. Lo stesso museo descrive il quadro in questi termini (traduzione e riduzione del testo reperibile on-line allo stesso link mie): 

«Enormi banchi di ghiaccio si accumulano a formare una montagna al centro di questo paesaggio polare. Una nave che viene spinta sotto le banchise sulla destra, come se fosse sepolta da esse, simboleggia i pericoli di una simile spedizione in regioni inospitali. L’attenzione dell’osservatore è inoltre attirata da un pezzo di ghiaccio a forma di freccia e da un’imponente banchisa appuntita in primo piano. Il freddo gelido si percepisce davanti all’immagine. Tutto sembra immobile, come congelato. Tuttavia, nonostante il dramma, il dipinto non è un rifiuto della vita, poiché il cielo si schiarisce sul bordo superiore del quadro. Con questo riferimento alla trascendenza, Friedrich intendeva presumibilmente infondere la speranza di una vita eterna dopo la morte». 

Esclusi gli aspetti descrittivi della morfologia del quadro, non condivido quasi nulla delle osservazioni finali del testo appena citato. La tela suggerirebbe speranza? A me non sembra convincente che quei pochi centimetri di cielo la manifestino. Se c’è nella tela una qualche speranza, questa mi sembra misteriosa, nel senso letterale di mistica, ovvero di non-vista. Come è misterioso e terribile, invisibile ma potente, il potere dei ghiacci eterni. Apparentemente immobili ma capaci di stritolare qualunque barca osi attraversarli. Il mistero di questa speranza [18], la meditazione dolorosa ma sobria del suo infrangersi hanno prodotto tanto un’interpretazione politica del quadro secondo la quale la tela rappresenterebbe il naufragio dei liberali tedeschi (siamo in piena restaurazione e ben prima dell’unificazione politica tedesca) quanto un’interpretazione biografica (la tela rappresenterebbe la morte del fratello, annegato nel ghiaccio per salvare forse il pittore ragazzino). È pensabile anche una terza lettura, metafisico-ecologista, quasi dantesca (penso all’Ulisse) o melvilliana? Certamente sì. Anne Hemkendreis, p.e. nel saggio Die Wiederentdeckung der Romantik. Eislandschaften im Klimawandel (2024) offre un resoconto ragionato di varie opere d’arte contemporanea ispiratesi al quadro, tutte legate alla crisi ambientale contemporanea, nelle quali risuonano tanto l’Ulisse di Dante che Moby Dick. 

Delle tre interpretazioni riscontrate nella letteratura quella che mi sembra meno fruibile per chi si è recato alla mostra è quella politica. L’interpretazione biografica mi sembra altrettanto inattuale che quella politica ma non veramente evitabile per chiunque provi a farne ermeneutica: difficile credere che ci fosse qualcosa di più terribile nel vissuto di Friedrich che la perdita (avvenuta con quelle modalità) del fratello. Il mistero di quella morte e, in qualche misura, della propria sopravvivenza a un potere terribile e magnifico non poteva che tradursi in una colpa che gli anni avranno, forse, reso al pittore distante (ovvero, almeno in teoria, sublime). Ma Friedrich sapeva di non parlare solo a se stesso. E forse in quest’occasione mentre ammiccava al naufragio storico di una nave, cercando di farlo in modo universalmente leggibile, senza saperlo, ha parlato anche di quanto e come questo naufragio lo riguardasse. La terza interpretazione probabilmente costituisce l’orizzonte ermeneutico più vicino (e anche più ovvio) al sentire di chi ha deciso, oggi, di visitare la mostra. In ogni caso, però, trattandosi qui di tirarne su una nuova di interpretazione, sospenderei la questione e comincerei a lavorare.

Da dove iniziare? Potendo scegliere (Grave insiste molto sulla libertà dell’interprete) partirei dal titolo, precisamente dal suo alias: Il naufragio della Speranza. Questo passo mi permette di dare un nome alla nave che vedo e, con un po’ di fantasia, di immaginarmi la storia del suo naufragio. Non è un granché come primo passo, così che decido di togliere il nome alla nave che vedo (e che, del resto, non ce lo aveva) e pensare al naufragio non come a un fatto storico ma come a un motivo, a un tema. Il motivo del naufragio (legato com’è al sublime), di per sé, era ed è, di fatto, molto interessante. La memoria mi porta alla mente due tele marine di naufragi più o meno coeve di Eismeer che conosco. 

V. Turner, Slave shp, 1840

Villiam. Turner, Slave ship, 1840

B.2 Tre navi, tre naufragi. tre sublimi 

La prima è Slave Ship di Joseph Mallord William Turner del 1840 [19] che rappresenta un episodio terribile e già allora percepito come tale, non solo dagli abolizionisti: il capitano della nave Zong, nel 1781, ordinò a causa della scarsezza di acqua potabile a bordo di gettare in mare 132 schiavi in modo da poter incassare il premio dell’assicurazione, impossibile da percepire in caso di morte naturale di questi ultimi. Se di sublime si può parlare, questo è un sublime (ribrezzo) morale proiettato (con grande maestria pittorica), non saprei dire se dalla distanza di sicurezza di una riva (che qui comunque, contrariamente ai dettami del genere del sublime paesaggistico, non si vede) o dal Padreterno (cui Turner sembra credesse). 

La seconda tela è Le Radeau de La Meduse (1818-9) di Théodore Géricault o come indicato dall’autore alla sua prima esposizione Scène d’un naufrage [20]. La tela è contemporanea al fatto cui allude. Gli oltre 250 sopravvissuti al naufragio della fregata francese Méduse, incagliata in un banco di sabbia al largo della Mauritania, colti nel momento della salvezza, salvezza da morte sicura ma anche da sofferenze terribili e… dall’antropofagia. Doppiamente sublime dunque (naufragio e antropofagia: due malore scampate e capitate ad altri) anzi triplamente: dei 250 imbarcati (apparentemente salvi dunque) su quella terribile zattera di 20 x 7 metri, soltanto 15 si salvarono una seconda volta. 

Jean Louis Theodore Géricault, Le Radeau de La Meduse, 1818

Jean Louis Theodore Géricault, Le Radeau de La Meduse, 1818

Le differenze evidenti fra queste tele e quella di Friedrich mi sembrano riguardare: 

1) la dimensione temporale dell’immagine rispetto al fatto sublime cui è riferita (le altre due tele inscenano una simultaneità ovviamente fittizia laddove in quella di Friedrich si capisce che ci deve essere stato almeno un naufragio e, strettamente parlando, non si sa neanche di quale nave); 

2) La posizione assunta nelle immagini dagli esseri umani: parte della scena (a diverso grado di presenza) nelle tele di Turner e Géricault, assenti fisicamente (almeno a prima vista) in quella di Friedrich. 

Per mettere a profitto ermeneutico queste differenze basta riflettere sulla funzione del sublime nell’arte. Le esperienze-limite, come quella di un naufragio, ci mettono di fronte a quel che siamo: esseri mortali. Per definizione, dunque: in costante pericolo. Le immagini sublimi attraverso la rappresentazione di esperienze-limite non fanno altro che ricordarcelo dalla distanza di sicurezza della finzione. In ottemperanza al genere del paesaggio sublime, infatti, le tele di Turner e Géricault presentano entrambe, nonostante le apparenze, elementi di ancoraggio dello spettatore a qualcosa di sicuro, di lontano dal pericolo: la distanza storica (o ottica) degli spettatori dal fatto rappresentato nella finzione come simultaneo. Ma questa distanza, se da un lato salva chi guarda queste immagini dall’altra lo sfida: il sublime nelle due tele presentate non è costituito da un pericolo naturale (come una tempesta o un terremoto) ma da azioni umane.

Chi guarda queste tele è posto davanti a uno specchio. Impossibile infatti da quella posizione non porsi questa domanda: chi siamo veramente? Dei gran figli del libero mercato direi partendo dalla tela di Turner, che probabilmente interpretava il sentire comune, la rabbia, dei suoi contemporanei e delle sue contemporanee di fronte a quel fatto e la restituiva in immagine, come potrebbe fare oggi un regista cinematografico con un film o un documentario sulle migliaia di morti annegati nel Mediterraneo. Darwinisti radicali mi sembra la risposta, più calma dell’anteriore, prodotta dalla tela di Géricault. Nel quadro infatti, superato il limite ossianico dell’orrore, del disgusto causato dal richiamo al tabù dell’antropofagia (i cadaveri a pezzi sono rappresentati con un certo pudore, a differenza della nudità e del tormento), ci si trova davanti a un dilemma meno intenso dell’orrore precedente ma altrettanto forte. Ci si chiede cioè: io, nella stessa situazione, l’avrei fatto? il (doppio) dilemma fra la salvezza fisica e la perdizione morale.

9783775757218_8L’esperienza limite, a questo livello, è costituita dalla scelta che l’immagine pone a chi la contempla. Tanto più che una volta superato il primo dilemma ne nascono subito altri due: 1) del dilemma dei naufraghi: se stare fra questo o quel lato della zattera (il lato che vede la salvezza o quello che gli dà le spalle) e 2) del dilemma dei soccorritori: se salire fisicamente sulla nave della salvezza assolva veramente o meno chi ha oltrepassato il limite e per questo, da dannato che era adesso è – ingiustamente, inesorabilmente – salvo. L’autoassoluzione mi sembra apparire problematica a giudicare dalla tela ma il fatto che l’autore ponga questo terzo dilemma a chi guarda l’immagine indica che aveva qualche ragione per credere molto al moralismo comune e poco alla capacità di perdonare (cioè salvare veramente).

E come rispondere alla domanda chi siamo veramente di fronte al sublime di Eismeer? Per affrontare correttamente la questione mi sembra necessario come primo passo valutare se la susciti veramente quest’interrogativo (come mi è sembrato fosse il caso per le altre due) tenendo conto del fatto che Eismeer, per dirla con Grave, in effetti vanifica il mandato teorico del sublime preferendo annullare la distanza fra lo spettatore e il rappresentato [21]. Come fa ad annullarla? Privando lo spettatore di un punto chiaro dove collocarsi a osservarlo: chi guarda questa tela è in questo modo costretto a un corpo a corpo ravvicinato e durissimo con l’immagine. Le grandi dimensioni della tela e la costruzione dello spazio rappresentato impongono e insieme facilitano questo cammino ermeneutico.

La sensazione fisico-spirituale che provoca la lenta esplorazione del quadro nello spettatore, più che sublime, è fortissima. I contrasti (verticale-orizzontale, duro-molle ovvero inconsistente e solido, piatto e appuntito) che lo strutturano visivamente sono tutti veramente comprensibili soltanto fisicamente. La crudeltà fisica delle enormi lastre di ghiaccio è interrotta da quella narrativa, astratta e appena suggerita dai resti di alberi della nave ritratta. Quest’ultima è richiamata nella forma da una grossa lastra, in basso in primo piano, che ricorda una nave congelata mentre cola a picco per la poppa. La neve fresca, che sembra la schiuma delle onde di questo mare di ghiaccio, forma abbastanza chiaramente, sulla destra, fra la nave di ghiaccio e quella vera di legno, la sagoma di un moribondo, il cui gesto (a me) ricorda i dannati dell’inferno di Dante, le statue di sale del Genesi o i calchi dei morti e delle morte di Pompei. Questa neve imbruttita, probabilmente, si farà presto ghiaccio orizzontale. Lo suggerisce la fisica di questo ambiente: e sarà rosso e marrone, come nelle enormi lastre in primo piano, come il sangue e la terra. La pesantezza di queste lastre di ghiaccio non ha nulla di celeste o di spirituale. E neppure di liquido, di marino…. Ma il titolo non era il mare di ghiaccio?

grave1La descrizione del quadro proposta dal museo vedeva (echeggiando autorevoli quanto datate esegesi) nell’azzurro del cielo una certa speranza ultraterrena. Possibile: ma in questo quadro, dei quattro elementi che compongono il cosmo mancano l’acqua e il fuoco. La vita e la passione. Questo universo è, insomma, incompleto, imperfetto. La terra sepolta, intrappolata nel ghiaccio dovrà attendere un’eternità per tornare in movimento, sciogliersi in acqua e farsi vapore. Penso che questo processo fisico di apparente sparizione, conservazione e quindi liberazione di ciò che finiva nel ghiaccio incuriosisse il pittore, come testimoniano, peraltro, i suoi studi di preparazione alla tela sull’Elba gelato.

Sublime in questa tela allora non è l’esperienza-limite di un episodio di sopravvivenza (come concetto) ma la sopravvivenza stessa. Eismeer non rappresenta alcun istante storico limite e nemmeno un dilemma: nessuno aveva vissuto il naufragio della nave Speranza e al massimo poteva chiedersi se era disposto/a a partecipare a una spedizione nell’Artico. La tela non cerca di congelare (se mi si passa il termine) l’esperienza del dolore nella sua intensità immediata ma di riprodurla nel corpo dello spettatore per fargliela rielaborare, arricchita dall’empatia di cui è capace, con lo spirito. Con buona pace di Edmund Burke e degli altri teorici del sublime (incluso il committente del quadro), l’effetto (di regola inibente l’empatia in quanto fondato su una distanza fisica destinata a diventare emozionale per far accrescere il senso di sicurezza del solo spettatore) non ha nulla di catartico. Anzi è talmente fisico, corporale che il quadro fu bocciato dai contemporanei e dalle contemporanee che lo giudicarono (critica inclusi) raggelante e, addirittura, irritante.

E non è meraviglia: la tela di Friedrich non spinge chi la guarda a chiedersi chi siamo veramente noi umani (al massimo cosa siamo) ma colloca chi la contempla sul filo acutissimo del rasoio percorso da chi è obbligato a osservare l’esperienza della sofferenza; cioè – mi sembra suggerirci Friedrich –  da ogni umano vivente. Percependo la sofferenza attraverso il corpo (come la tela impone di fare) diventa possibile osservarla non soltanto empaticamente ma anche coscientemente, con la calma che solo lo spirito può dare. Diventa possibile vederla, per così dire, sub specie aeternitatis. Una lenta esplorazione del quadro rivela infatti sempre più richiami all’universalità della sofferenza. A sinistra della grande formazione di ghiaccio centrale la neve è interrotta e forma come una sagoma umana (un’altra). Fra i primi due lastroni verticali un orso, intrappolato, sembra urlare. Un po’ più a sinistra, sulla terza lastra orizzontale, si indovinano due volti umani. In basso, un po’ più a destra la superficie gelata è interrotta e dà l’impressione che un corpo intero giaccia lì sommerso. Più in basso ancora, un po’ a sinistra sembra che qualcuno cerchi faticosamente di risalire dall’abisso in cui è precipitato/a: si intravede una sorta di testa a destra, un bassorilievo dall’altro lato della stessa lastra orizzontale che ha tutta l’aria di un braccio che cerca di afferrarsi… Era il naufragio della Speranza o la visione di sé stesso e del fratello annegato? È evidente che la domanda ormai non ha molto senso. Ma ancor meno, su questo piano del discorso, avrebbe senso qualunque risposta, fosse pure quella giusta: con un po’ di sforzo, in secondo piano, a sinistra, si riconosce un gruppo di lastre verticali che ricorda vagamente un volto sofferente. Se San Paolo si fosse trovato al cospetto di quest’immagine avrebbe certamente affermato di sentirvi risuonare tutto il dolore del mondo. E dubito fortemente che il protestante Friedrich non avesse mai letto la lettera ai Romani anche se non potrei garantire che la mia parafrasi (concettuale) di 8,22 lo avrebbe soddisfatto, né posso dire con certezza se e quanto la teologia di Lutero sia corroborata (o addirittura affermata) da questa tela. 

arendtB.3 Sul filo del rasoio, tra lucidità e follia 

Eismeer colloca la morte e la sofferenza umana all’interno di tutte le sofferenze reali: individuali e altrui, umane e animali, biologiche e fisiche. La sofferenza umana ne esce ridimensionata, non negata (vuoi da una sofferenza di tipo diverso, vuoi in assoluto, vuoi da un istinto di autoconservazione che sconfina nell’egocentrismo) e neppure giustificata o assolta in nome di qualsivoglia divinità o ideologia. Scorgerla attraverso l’empatia tipica dell’umano (e di molte altre specie sociali) significa correre su quel filo di rasoio che separa il possibile dal reale, la fatticità dal concetto, il reale dal virtuale, l’empatia dall’indifferenza e – fallacemente, patologicamente anche se non del tutto in modo insensato – la cosiddetta anima dal corpo, il mentale dal fisico. Difficilissimo in quella posizione mantenersi lucidi e resistere alla tentazione delirante e pericolosa di voler eradicare ogni sofferenza, ogni fatica, ogni imperfezione, ogni centimetro di oscuro, di indicibile, di inguardabile di enigma incomprensibile che l’esistenza si ostina a opporci. E probabilmente insiste a farlo perché, banalmente, è fatta così. O forse perché (e un po’ meno banalmente) quand’anche riuscissimo davvero a far girare l’universo, per dirla con Ricoeur, senza più nulla di tutto ciò la cui esistenza non comprendiamo e ci ferisce, molto probabilmente non riusciremmo a farlo funzionare meglio (ovvero in modo più bello, solidale, giusto e libero) sempre per tutto e tutti.

Se aveva ragione Hannah Arendt quando sosteneva che rischiamo di fare il male ogni volta che smettiamo di pensare [22], una pratica ermeneutica come quella a cui ci invitano le immagini libera, condivisa, franca e paritaria e – aggiungerei ai requisiti elencati da Grave anche ferma nel rifiutare la violenza come metodo comunicativo e il dolore e la sofferenza (propria e altrui) come mezzo per qualsivoglia fine –, potrebbe veramente aiutarci a ritrovare la rotta in questi giorni strani. In piena era digitale la barca della nostra storia assomiglia ancora troppo al Titanic. 

Dialoghi Mediterranei, n. 67, maggio 2024
Note
[1] In quest’articolo uso i lemmi spirito e anima (ognuno con le proprie sfumature) nel senso corrente (e rifiutato dalla scienza) di qualcosa di “umano e vitale ma non-corporeo”, non come termini del lessico specialistico della filosofia.
[2] Consulto il libro in edizione elettronica. Pertanto non posso fornire il numero di pagina relativo alla parafrasi. Nel prosieguo dell’articolo sarò costretto a procedere allo stesso modo ogni volta che mi riferirò a una pubblicazione cui ho avuto accesso solo elettronicamente. Valga questo avviso per tutti i casi seguenti ove manchi un’indicazione precisa di pagina.
[3] Che questa capacità dei mezzi elettronici di implementare la fruizione delle opere d’arte non sia una banalità ludica, estranea alla pratica dei veri amanti dell’arte lo dimostrano secoli di pubblicazioni in ambito artistico, piene di cosiddetti particolari. Lo storico dell’arte Daniel Arasse (2021) consiglia addirittura di approcciare l’arte a partire dai dettagli enigmatici delle opere. Sull’importanza dei dettagli enigmatici per imporre a chi guarda un’immagine di impiegare più tempo vicino a lei e quindi, trovata la propria risposta, dire che che ne è valsa la pena d’impiegare il proprio tempo a cercarla v. Grave (2002: 202-207).
[4] Dai tomi di Yuval Noah Harari a quelli di Thomas Piketty in Graphic novel, passando per le guide visuali di qualunque scienza, all’ubiquità delle presentazioni Power point (un nome per tutti i programmi di questo genere) fino ai grandi classici di filosofia a fumetti, le immagini sembrano aver conquistato, se non altro, i gusti del pubblico interessato alla scienza. Alcuni esperimenti sono veramente pregevoli, altri meno riusciti, altri ancora si sono rivelati impossibili. L’economista (recentemente scomparso) Daniel Cohen, p.e. aveva iniziato un progetto di breve storia dell’economia a fumetti che ha dovuto interrompere e per il quale aveva già stilato un manoscritto semplificato rispetto ai suoi precedenti scritti sul tema. Come afferma l’editore Alexandre Wickham nella prefazione del manoscritto (ormai pubblicato in prosa senza immagini): « Cette ambitieuse entreprise achevée [scil. il manoscritto], Daniel a lui-même admis assez vite que son text était trop riche, trop savant en quelque sorte, pour être transformé en BD [scil. bande dessinée cioè fumetto] .» (Cohen 2024:18). 
[5] Sulla fortuna/sfortuna intertestuale del pittore cf. p.e. Rathgeb (2023).
[6] Il filosofo tedesco si avvicina qui (senza farne menzione) al concetto di reale in Lacan (cf. Recalcati, 2023). Il pensiero dello psicanalista francese pur se percepibile esplicitamente a partire da un solo rimando pervade in effetti tutto il libro.
[7] Riporto la teoria di Grave in maniera molto semplificata. La teoria, peraltro, riflette esplicitamente tutte le discussioni teoriche intorno alle immagini da Gottfried Boehm in poi. Impossibile nello spazio di questo articolo riferire tutte le categorie concettuali implicate nella discussione. Per un’efficace sintesi della questione concernente anche in certo modo l’inflazione di immagini v. L’introduzione di Furlani (2019: 7-19) alla raccolta Immagini differenti. Problemi, natura e funzione dell’immagine nelle altre culture da lui stesso curata.
[8] Chi avesse bisogno di saperne di più sul sublime può trovarne una brevissima esposizione già in questo articolo al paragrafo B.1.
[9] Per un’ottima presentazione tecnica delle categorie ermeneutiche più importanti a livello specialistico nella ricezione di Friedrich v.  Busch (2021).
[10] Come osserva acutamente Rathgeb (2023, tr. mia): «Friedrich è il più moderno dei romantici perché ha espresso ciò che voleva dire in un linguaggio diverso, in immagini che non possono essere tradotte in parole.»
[11] La filosofa e psicanalista Clotilde Leguil, in un’intervista rilasciata a Cédric Enjalbert sul rapporto fra visione e sguardo in Lacan, osserva: «[…] Ce que Lacan restitue, c’est toujours le mystère de ce qui est vu, là où aujourd’hui, les images de la toile nous font croire à une certaine transparence du visible et attisent la pulsion de tout voir» (2024: 115).
[12] Anche in questo contesto non si può non pensare a Lacan e al suo modo di inquadrare il rapporto fra reale e linguaggio. Osserva Recalcati (2023): «[…] [Per Lacan] tra reale e linguaggio non sussiste un semplice rapporto di esclusione – dove c’è linguaggio non ci sarebbe reale e viceversa, dove c’è reale non vi sarebbe linguaggio – quanto, piuttosto, una sorta di esclusione interna: il reale come escluso dal linguaggio può essere esperito solo da un soggetto del linguaggio».
[13] Per chiarire meglio questo punto senza perdere il filo del discorso aggiungo qui quanto segue: le cosiddette profilazioni (la selezione dell’offerta di contenuti ritenuti interessanti per l’utente) oltre all’aspetto di profanazione che ho indicato nel testo, hanno anche quello di essere percentualmente inefficaci. Il profilo di un utente non corrisponde infatti a una copia fedele del suo spirito, come penso che la maggior parte di noi avrà potuto verificare su se stesso/a, ma soltanto al riflesso di un suo comportamento (non di tutti quelli che potrebbe avere o non avere, in passato, al presente o in futuro). È vero che Grave presuppone una discussione libera e paritaria come condizione necessaria alla piena articolazione del potere delle immagini. Ma è evidente che per discussione non intende le dichiarazioni in stile proclama unilaterale, potenzialmente urbi et orbi, tipiche delle reti sociali, quanto piuttosto il dialogo libero, corretto e volontario fra amici o conoscenti, concernente impressioni, ipotesi, sensazioni private non necessariamente destinate alla divulgazione di massa, alla conservazione o documentazione ossessiva.
[14] È chiaro che il filone teologico protestante della cosiddetta teologia naturale (da Schleiermacher a Kosegarten) è presentissimo nell’opera di Friedrich (e lo stesso Grave — autore di una monografia sul tema della teologia nelle opere di Friedrich (2012) — lo sa molto bene. Nondimeno resta molto difficile dimostrare a partire dal suo lascito tanto artistico che epistolare in che misura il pittore  facesse proprie quelle teorie ovvero, per dirla con una formula approssimativa, che l‘unità della natura si riflettesse in Dio (e viceversa). Sul tema del rapporto con la natura e a proposito di questa monografia v. anche Grave (2022b: 16) ma soprattuto Amstutz (2020) che restituisce un Friedrich credente ma molto più partecipe delle discussioni scientifiche della sua epoca (che avrebbe riflesso nelle sue tele, un po’ come il suo collega britannico Joseph Mallord William Turner) di quanto la ricezione (incluso Grave 2012) ha fatto risaltare. La questione è anche legata al rapporto del sé con la natura (molto meno problematico secondo Amstutz rispetto a quanto sostiene Rathgeb) ma si articola in rivoli discorsivi di cui preferisco non riferire in questa sede giacché non hanno raggiunto il grande pubblico in Germania (a differenza del discorso specialistico di Grave attraverso i grandi mezzi di comunicazione e di quello più libero e divulgativo di Rathgeb) né, oltre un’ovvia assonanza, presentano un’attinenza solida e determinante con le questioni su cui l’articolo si centra. Affrontarle sposterebbe Il focus troppo lontano dalla questione della grande affluenza alla mostra e del potere delle immagini.
[15] La cui genesi, nel discorso contemporaneo, si fa risalire alla rivoluzione industriale, ovvero all’epoca di Friedrich.
[16] Per una visione storico-artistica onnicomprensiva dell’opera e della sua ricezione v. Grave (2001).
[17] Link alla pagina del museo che conserva la tela e ne mette una riproduzione elettronica a disposizione del pubblico: https://online-sammlung.hamburger-kunsthalle.de/de/objekt/HK-1051/das-eismeer?term=Der Maler Caspar David Friedrich&context=default&position=7.
[18] L’idea che il quadro rappresentasse cronachisticamente il naufragio della nave omonima non ha mai attecchito profondamente, titolo nonostante, fra la critica più seria.
[19] Un link del museo che lo conserva con una riproduzione digitale e qualche informazione: https://collections.mfa.org/objects/31102)
[20] Un link al museo che la conserva e ne offre una riproduzione digitale e poco più:  https://collections.louvre.fr/en/ark:/53355/cl010059199
[21] Va in ogni caso onestamente ammesso che l’Artico all’inizio dell’Ottocento non poteva che risultare distante a qualunque europeo non scandinavo che non lavorasse come marittimo.
[22] V. La vie de l’esprit. 1. La pensée, Introduction, PUF: Paris 1981: 18-20. 
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Francesco Azzarello, è stato segretario della Scuola di formazione etico-politica “Giovanni Falcone”, ha partecipato a varie attività antimafia collaborando con diverse associazioni palermitane. In Germania dal 1997, ha studiato Filologia romanza e Filosofia a Colonia. Dal 2003 insegna Filologia romanza a Friburgo. Oltre alle pubblicazioni accademiche in linguistica, letteratura e storia della cultura ha scritto di mafia, filosofia, teologia interreligiosa e altro. Dal 2015, con alcuni amici, accompagna diverse famiglie di profughi nel percorso di integrazione in Germania.

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