Fresh Recensione: su Disney+ un esordio che convince a metà

Fresh Recensione: su Disney+ un esordio che convince a metà

Daisy Edgar-Jones e Sebastian Stan sono i protagonisti di un thriller-horror dai toni grotteschi che intrattiene ma non eccelle.

Fresh Recensione: su Disney+ un esordio che convince a metà
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La storia dell'horror e dei thriller cinematografici è piena di final girls o scream queens (basterebbe citare, a tal proposito, Halloween o Non aprite quella porta), e il cinema dell'orrore ha regolarmente sottoposto la figura della donna ad una follia violenta prevalentemente maschile. Nell'ultimo decennio però, l'avvento di nuovi e audaci titoli diretti da donne ha portato una ventata d'aria fresca alle riproposizioni dei topoi del genere e della Settima Arte più in generale, ribaltando il machismo e ragionando sull'esposizione massiccia della carne. Anche Mimi Cave con Fresh, il suo esordio alla regia di un lungometraggio su Disney+, prova a riflettere su uno spettacolo che "vende" il corpo femminile (vi basterà partire dal trailer di Fresh).

La vicenda è quella di Noa, giovane donna stanca degli atteggiamenti maschili nei suoi confronti. Durante quella che sembra una normale spesa al supermercato, tutto cambia. La ragazza incontra Steve, avvenente medico che la porta ad aprirsi e iniziare una relazione che, al netto di qualche red flag sparsa, sembra poter soddisfare. Quando egli invita la protagonista a passare del tempo nella sua casa in montagna, la situazione degenererà e Noa capirà che quello che sembrava la persona ideale in realtà nasconde un macabro segreto legato alla carne umana.

Questione di identità

Ha un attacco irresistibile Fresh. La regista e la sceneggiatrice Lauryn Kahn vanno subito al sodo e fin dalla prima sequenza impostano un clima che spinge sulla volontà di non prendersi totalmente sul serio, almeno nel primo atto. Infatti, dopo un inizio convincente e uno sviluppo della prima mezz'ora piuttosto intrattenente (un po' prevedibile ma perfettamente funzionale), piomba l'intuizione che cambia il film. Con un impatto eccezionale, ecco i titoli di testa: quello che abbiamo visto è solo il prologo della vicenda e la vera storia inizia adesso (come nel recente e meraviglioso premio Oscar Drive my car). Il punto è che essa, quando parte, non gioca le sue carte benissimo.

Uno dei motivi della riuscita soltanto parziale del lungometraggio sta nella sua natura ibrida, che potrebbe decisamente giocare a suo favore se solo riuscisse a valorizzarne le molteplici facce. Dalla commedia romantica al body horror, tutti gli aspetti dell'opera non hanno, né singolarmente né quando convergono, abbastanza vigore per incidere. Se lo stacco netto nelle atmosfere - prima e dopo i credits - è ben riuscito, lo stesso non si può dire prendendo in analisi le specifiche personalità della pellicola. Rendere il tutto sopra le righe e grottesco sembra così frutto di una scelta orientata a dare un volto peculiare ad un prodotto che fatica ad orientarsi con concretezza.

Una promessa mantenuta a metà

Siamo dalle parti di La pelle che abito di Almodovar o di Ex Machina di Garland. A mancare però è ciò che contraddistingueva quei prodotti, cioè l'energia delle immagini e della sintesi visiva.

Ma, soprattutto, si sente l'assenza dell'audacia nello spingersi oltre con decisione, sia verso un'efferatezza anche solo psicologica che verso un coinvolgimento più leggero e faceto. Sembra sempre che manchi qualcosa. Gli spunti interessanti però non sono assenti e, anzi, costituiscono alcuni dei focus principali: la riflessione sull'identità di genere e sul corpo femminile così come il legame tra la selezione di vittime donne e la richiesta del mercato. Non serve molto per comprendere come quest'ultimo possa diventare una metafora dello spettacolo tout court. Questi sottotesti funzionano bene ma solo come input, limitati da una scrittura non così brillante e con poco mordente, forse più occupata a pensare cosa dire piuttosto che come dirlo, intrappolata a crogiolarsi nelle proprie idee, non trovando con costanza la migliore via di comunicazione per esse. Da parte sua, Fresh riesce a non risultare ipocrita nella sua scelta di distaccarsi da certi modelli ma manca dell'esperienza per aggrapparsi a nuovi stimoli visivi e narrativi, specie nel confuso e affrettato segmento finale.

Ciò che fa da salvagente è anche l'ottima alchimia tra i due protagonisti che fanno il possibile per rendere gradevole la visione. In molti frangenti i due mostrano un affiatamento e un lavoro di coppia notevole. La bravissima Daisy Edgar-Jones (leggi qui la nostra recensione di Normal People) mostra nuovamente un'incredibile versatilità e la sua performance riesce a far passare in secondo piano anche le ingenuità circa la scrittura dei personaggi. Stesso discorso per un Sebastian Stan in forma smagliante, capace di dare spessore e vita ad uno Steve che, senza la sua frizzante interpretazione, sarebbe stato facilmente visto come una macchietta annacquata del Patrick Bateman di American Psycho.

Il titolo diretto da Mimi Cave resta un prodotto piacevole e per buona parte scorrevole - e non è poco - ma incapace di lasciare un segno deciso. Due ore che godono di un buon ritmo ma che sembrano una grande occasione sprecata vista anche la mole di possibilità date da un contesto così ricco di potenziali stimoli. Tutt'altro che banali, le osservazioni messe in gioco accarezzano solo l'idea di un reale sviluppo e, inevitabilmente, arrivano con poca energia, guastando il loro impatto e l'importanza sociale che le riveste.

Fresh Fresh avrebbe tutte le carte in regola per essere un esordio con i fiocchi per Mimi Cave. Ciò che però smorza e ridimensiona le buone impressioni iniziali è lo sviluppo di un soggetto che ha certamente delle buone idee ma che si perde troppo facilmente nell'esposizione. La commistione di generi non aiuta, rendendo il film su Disney+ un ibrido limitato dalla sua stessa forma. Il risultato è salvabile a metà, soprattutto grazie alle interpretazioni dei due protagonisti e ad un messaggio che si rivolge direttamente al mondo dello spettacolo e alla visione della donna come merce.

6.5

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