Coetzee - La Stampa

Recensione di TOMMASO PINCIO

Coetzee

Sette racconti «morali» del Premio Nobel sull’inevitabilità delle bugie e il bisogno di perdono: dai tradimenti coniugali alla vanità di tingersi i capelli

Anni fa, in un suo prezioso romanzo, J. M. Coetzee sollevava il seguente dubbio. Pensare di ricavare insegnamenti di vita dalla lettura dei classici non sarà ormai un’illusione da relegare al passato, a epoche più felici della nostra? Al giorno d’oggi - diceva il personaggio di Elizabeth Costello - ci siamo accontentati, piuttosto mestamente, di rivendicare lo studio dei classici come semplice scelta di vita, senza più pretendere che siano di insegnamento al mondo. Visto che per classici si intendeva tanto gli antichi greci quanto figure a noi più vicine come Shakespeare e Dostoevskij, è lecito pensare che i dubbi del personaggio si spingessero ben oltre; che riguardassero la letteratura nel suo complesso. Scrivere e leggere libri, discuterne e farne tesoro può avere ancora un senso profondo o sono occupazioni che si esercitano ormai per passione, se non per passatempo, quale scelta di vita appunto, o al più come una sorta di culto laico praticato da una comunità sempre più ristretta? E se così è, che condotta deve tenere un letterato di fronte al mondo in generale, il mondo che è fuori delle biblioteche ma di cui comunque i libri parlano?

Simili dubbi morali non suoneranno certo nuovi a chi ha dimestichezza con l’universo di Coetzee. I suoi libri ne sono pieni, anzi si potrebbe perfino dire che il nocciolo dei suoi libri sia rappresentato proprio da questi dubbi. Stanno ai suoi romanzi un po’ come un delitto sta a un poliziesco. Ciò è vero soprattutto per quei libri che hanno Elizabeth Costello per protagonista. Elizabeth Costello è un’anziana quanto immaginaria scrittrice australiana con al suo attivo sette romanzi, due volumi di poesie, uno di ornitologia e una ragguardevole mole di contributi giornalistici. Si è guadagnata una certa fama e la considerazione della critica scrivendo un romanzo su Molly Bloom, la moglie del protagonista dell’Ulisse di Joyce. È stata sposata due volte ed è madre di due figli. La sua invenzione precede di pochi anni l’assegnazione del Nobel a Coetzee. Appare per la prima volta nel 1999, nel romanzo La vita degli animali, dove la vediamo mettere in imbarazzo un consesso accademico parlando non dei suoi libri ma delle violenze che andiamo perpetrando dalla preistoria, più precisamente sugli animali da quando l’uomo ha adottato la dieta carnivora. Da allora Elizabeth Costello si è ripresentata a intermittenza nell’opera dello scrittore sudafricano. È protagonista di un romanzo intitolato con il suo nome; ha avuto un ruolo importante in Slow man; è presente in maniera più o meno esplicita in sette brevi storie ora riunite in volume da Einaudi e magnificamente tradotti da Maria Baiocchi, Bugie e altri racconti morali.

Che lo stesso Coetzee ne dichiari fin nel titolo la qualità morale conferma che il personaggio di Elizabeth Costello trascende i confini del semplice alter ego. Non è, per intenderci, quel che poteva essere Nathan Zuckerman per Philip Roth. Svolge piuttosto una funzione duplice, analoga a quella di Maigret nei gialli di Simenon o di Marlowe negli hardboiled di Chandler. È sia un personaggio ben definito che il lettore impara a conoscere e ritrovare di libro in libro alla stregua di un vecchio amico, sia una lente attraverso cui indagare il caos del mondo per dargli un senso. Nei polizieschi, questo senso è quasi sempre garantito dalla scoperta dell’assassino; nei racconti morali di Coetzee la risoluzione dei casi è faccenda ovviamente più problematica, anche se a far scattare l’indagine filosofica può essere un evento all’apparenza banale o comunque assai meno sconvolgente di un omicidio, per esempio un cane che ringhia a chiunque passi in bici davanti alla casa dei suoi padroni. Nondimeno un’affinità tra Elizabeth Costello e gli investigatori dei polizieschi esiste.

Ritrovare lo stesso personaggio in storie sempre diverse serve a esaltare il contrasto tra il rassicurante conforto di ciò che è noto e la potenziale minaccia insita in ciò che ci appare ignoto, tra l’amico e l’estraneo, il dentro e il fuori. In Coetzee, a venire esaltato è il confine che separa il calore quieto e accogliente delle biblioteche dal freddo molesto e rumoroso con cui dobbiamo fare i conti appena mettiamo il naso fuori dai libri, nella baraonda della vita reale. È tuttavia fatale domandarsi perché certi pensieri vengano ingabbiati all’interno di una finzione narrativa, quando una dissertazione filosofica consentirebbe di andare dritti al punto. Una risposta possibile è che l’autore scelga di restare in bilico tra il mondo ricreato nei libri e quello che ci attende al termine di una lettura perché vuole che il rischio della speculazione oziosa penda costante sulle nostre teste come una spada di Damocle. Il travaso dalla banale crudeltà della vita ai giganti della cultura umanista è infatti continuo in queste storie morali. Il cane che ringhia diventa l’occasione per confutare le parole di Sant’Agostino. Una moglie che non si sente in colpa per la sua infedeltà legge su invito dell’amante un racconto di Musil in cui un’adultera finisce per tornare dal marito più innamorata che mai. Il veniale peccato di vanità di tingersi i capelli in età avanzata trova per monito il comportamento di quei personaggi di Čechov che «cercano di tornare giovani e si fanno del male».

Un’altra possibilità è che i racconti di Coetzee non diventino dissertazioni perché, come prevede la grande letteratura, non regalano facili risposte. Rimangono perlopiù enigmi, momenti sì illuminanti ma dal chiarore incerto, offuscato dal persistere del dubbio, dalla frammentarietà opaca ed elusiva che caratterizza il nostro transito su questa terra. Su un punto, però, Coetzee è fermo: i diritti violati degli animali, le violenze subite nel corso dei secoli per mano dell’uomo. Gli unici e indiscussi colpevoli dei suoi polizieschi morali siamo noi. Ecco allora la sua Elizabeth Costello immaginare mattatoi di vetro posti nelle pubbliche piazze affinché le gente veda, senta e fiuti l’odore del massacro di cui è complice e ne tragga le conseguenze. Più che una provocazione, sembra la reiterazione del dubbio da cui eravamo partiti: la letteratura può ancora bastare a se stessa?