Sono tornate le spie. Perché il mondo è di nuovo pieno di 007 - HuffPost Italia

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Sono tornate le spie. Perché il mondo è di nuovo pieno di 007

“Non andare mai a casa la sera senza chiederti dove sia la talpa”. È il consiglio che nel 1987 Richard Helms, dal 1966 al 1973 direttore della Central Intelligence Agency, diede a Robert Gates, appena direttore ad interim della stessa agenzia, alla fine di un pranzo. Un suggerimento sempre attuale, che però suona più forte oggi, dopo giorni di notizie sulle attività di funzionari d’intelligence e agenti al loro servizio in diversi paesi d’Europa, Germania e Regno Unito in particolare dove soggetti legati a Russia e Cina hanno tentato di interferire nelle politiche nazionali e internazionali.

Sono tornate, dunque, le spie? In realtà, non erano mai sparite.

La caduta del Muro di Berlino e la dissoluzione dell’Unione Sovietica, la Prima guerra del Golfo, la guerra al terrorismo e la rivoluzione tecnologica nell’era della globalizzazione. Quattro elementi che, in modi diversi, hanno cambiato il mondo e la percezione dell’intelligence, ovvero della raccolta, o per meglio dire del furto, di informazioni tra Stati.

La fine del Muro di Berlino e dell’Unione Sovietica hanno portato con sé quella delle ideologie, tanto che gli addetti ai lavori oggi si interrogano sulla “i” dell’acronimo Mice che riassume il reclutamento della fonte: un tempo stava per “ideologia” (“m” per money, ovvero denaro; “c” per coercizione; “e” per ego) e ora? Inoltre, la fine della Guerra Fredda ha lasciato i servizi occidentali senza il “nemico”, e dunque alla ricerca di una nuova identità. Ciò è vero per le grandi potenze ma anche, e ancor di più, per le medie potenze a carattere regionale come l’Italia.

La Prima guerra del Golfo ha palesato la potenza dei media nel “villaggio globale”.

La guerra al terrorismo, con il ritorno di un nemico seppur transnazionale, ha visto le azioni clandestine prevalere sull’intelligence estera. Lo dimostra l’operato della statunitense Central Intelligence Agency all’inizio del millennio in corso, diventata quasi un’organizzazione paramilitare più che un servizio d’intelligence.

Infine, la rivoluzione tecnologica ha ampliato l’arsenale di armi di raccolta informativa arrivando al punto da far credere a qualcuno che l’intelligence su fonti aperte (OSINT) potesse uccidere l’intelligence segreta.

Nulla di più sbagliato. Piuttosto, “per quanto il mondo stia cambiando, lo spionaggio rimane un’interazione tra uomo e tecnologia”, come ha scritto a gennaio William Burns, direttore della Central Intelligence Agency, sulla rivista Foreign Affairs. Perché, come aveva detto invece nel 2018 Sir Alex Younger, allora capo del britannico Secret Intelligence Service (noto anche come MI6), “anche in un’era di artificial intelligence, abbiamo bisogno di human intelligence”. Una riflessione che si può facilmente utilizzare sia nel dibattito sui rischi e sulle opportunità dell’intelligenza artificiale sia quando si parla di spionaggio.

È innegabile che il contesto dell’aggressione russa dell’Ucraina sia segnato da un aumento importante dell’intelligence su fonti aperte, per quanto riguarda sia la raccolta sia la diffusione. Società private e media (come Belligcat, per citare l’esempio più noto) hanno potuto svolgere attività di ricerca e inchiesta in maniera autonoma. Ma anche verificare le dichiarazioni pubbliche delle agenzie statali quando fanno ricorso alla cosiddetta “declassificazione strategica”, cioè la divulgazione intenzionale di alcuni segreti per indebolire i rivali e unire gli alleati. Basti pensare agli avvertimenti lanciati dai servizi di Stati Uniti e Regno Unito agli alleati nelle settimane prima dell’invasione. Ciò ha aiutato le agenzie stesse a ripristinare un po’ di quella credibilità persa dinnanzi delle opinioni pubbliche all’inizio del millennio.

Tuttavia, la human intelligence, come ha scritto Burns, rimane vitale per i servizi, specie “in un mondo in cui i principali rivali degli Stati Uniti”, e dell’Occidente in generale, “ovvero Cina e Russia, sono guidati da autocrati personalistici che operano all’interno di piccoli e riservati circoli di consiglieri”. E così, in questi mesi la sua agenzia ha pubblicato ben tre filmati in lingua russa facendo appelli ai russi delusi dalla leadership di Vladimir Putin, contrari all’invasione dell’Ucraina. Un momento che Burns ha definito “un’opportunità” di reclutamento “che capita una sola volta in una generazione per noi della CIA, che siamo un servizio di human intelligence” (basta questa frase, confrontata con l’andazzo durante la guerra al terrorismo, a fotografare il cambio di paradigma). Allo stesso modo, l’estate scorsa, Richard Moore, capo del Secret Intelligence Service, aveva scelto Praga, la città della Primavera repressa dai carri armati sovietici nel 1968, per un discorso su presente e futuro dello spionaggio, con tanto di appello ai russi a disertare.

In questo scenario i servizi russi e cinesi non hanno aumentato l’intensità delle loro attività su Bruxelles e sulle altre capitali dell’Unione europea e della Nato. Né sono cambiati i metodi se è vero che l’honey-trap, la trappola di miele, rimane uno dei più diffusi anche perché tra i più economici. Addirittura, secondo un recente rapporto della Jamestown Foundation, le loro reti in Europa si vanno via via sovrapponendo man mano che l’amicizia “senza limiti” tra Mosca e Pechino si rafforza.

Spuntano, o meglio emergono, così assistenti parlamentari reclutati da servizi segreti stranieri (e ostili) o direttamente legati a essi (come nel recente caso tedesco). Ma anche politici con legami inappropriati con rappresentanti delle autocrazie. E ancora megafoni della propaganda di Russia e Cina. Poi criminali usati per sabotaggi e assassinii (come nel caso dei tre arrestati dalle autorità tedesche e polacche nei giorni scorsi) o esfiltrazioni (come nella vicenda “italiana” di Artem Uss). Infine, talpe nelle agenzie occidentali.

Ciò che è cambiato, anche alla luce del contesto internazionale emerso dopo la pandemia Covid-19 e l’aggressione russa dell’Ucraina, sono tre fattori. Il primo riguarda esclusivamente l’intelligence russa: il ruolo sempre più centrale del GRU, il servizio militare, che sembra stia prendendo il posto dell’SVR in Europa, lasciando però più tracce al suo passaggio. Il secondo: una maggiore attenzione verso la minaccia, merito anche dell’omogeneizzazione delle politiche tra alleati, che ha rafforzato la detection della stessa. Il terzo: una maggiore inclinazione a usare la pubblicità di questi casi come metodo di contrasto e di rafforzamento della consapevolezza – sempre che il soggetto non possa essere “girato” o non sia più politicamente facile rispedirlo a casa nel caso di un funzionario d’intelligence colto in attività ostili.

Lo dimostra il caso di Walter Biot, capitano di fregata condannato a 20 anni di reclusione per spionaggio dalla Corte d’Assise di Roma a gennaio (un tribunale militare, con competenza sui reati militari commessi dai membri delle forze armate, nel 2023 lo aveva condannato a 30 anni). Nelle motivazioni della sentenza del 9 gennaio i giudici della prima corte di Assise di Roma hanno sottolineato la condotta di Biot “nell’acquisizione e trasmissione delle notizie”, con “non comuni cautele e accorgimenti per non essere scoperto”. Come le due scatole del medicinale Crestor rinvenute in occasione dell’arresto il 30 marzo 2021, in un parcheggio di un centro commerciale a Roma: una con 5.000 euro “rinvenuta sotto il sedile lato conducente dell’autovettura alla cui guida si trovava l’imputato”, ovvero Biot, “al momento dell’arresto”; l’altra, “contenente la micro SD, rinvenuta addosso al cittadino russo, sorpreso nel momento in cui era appena uscito dalla vettura” alla cui guida c’era il capitano italiano.

Fu uno dei primi segnali inviati dal governo di Mario Draghi alla comunità internazionale, a seguito del quale l’Italia tornò a partecipare, a vari livelli, alle riunioni formato Quint con Stati Uniti, Regno Unito, Francia e Germania dopo essere stata lasciata in disparte con Giuseppe Conte presidente del Consiglio. 

Consapevolezza e pubblicità sono elementi fondamentali per fronteggiare la minaccia più complessa nella fase attuale, ovvero quella ibrida, che si può semplificare come una serie di puntini da collegare per ottenere la figura completa. È la sua natura a rendere difficile individuare gli strumenti di contrasto, se non il rafforzamento della consapevolezza tramite la pubblicità. Le condotte, infatti, avvengono su diversi domini (anche cyber), a opera di attori non sempre “classici” (per esempio aziende, media e diaspore all’estero utilizzati come proxy) sono facilmente negabili, sempre un gradino sotto la soglia del conflitto armato, e soprattutto coordinate. Il tutto, sfruttando “alcune delle caratteristiche sistemiche che connotano le nostre società, quali l’apertura dei mercati e le garanzie di libertà e indipendenza dei media”, come si legge nella relazione annuale 2023 dell’intelligence italiana in cui vengono definite la Russia e la come i “principali attori” di questa minaccia.

Le spie, termine che alle stesse piace molto poco, ci sono sempre state e ci saranno sempre. Il mito di James Bond ha stufato perfino il Secret Intelligence Service che, pur apprezzandone il ruolo nel rafforzare l’immagine del servizio, non ne sopporta gli stereotipi ormai fuori tempo rispetto al contesto internazionale, alla società britannica ma soprattutto ai suoi funzionari. Ve lo immaginate quel tizio tutti muscoli, in abiti strettissimi, andare a parlare di controproliferazione a Teheran senza combinare qualche casino finendo per dare nell’occhio?

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