Virginie Efira, le mille sfumature di una donna | Corriere.it

Virginie Efira, le mille sfumature di una donna

diCristiana Allievi

L'attrice belga sa muoversi tra ruoli molto diversi: dalla suora con fantasie erotiche di Verhoeven, alla donna "prigioniera" di un marito possessivo nel film di Valérie Donzelli sugli schermi italiani dall'inizio di maggio

«Ogni cosa, se osservata per abbastanza tempo, diventa interessante». La citazione di Gustave Flaubert sembra spiegare alla perfezione le scelte di Virginie Efira, attrice capace di gestire con grazia ruoli trasgressivi come quello di una suora italiana lesbica e ricca di fantasie erotiche, vissuta nel diciassettesimo secolo e poi accusata di blasfemia: la Carlini che ha incarnato in Benedetta. E proprio il regista del film, Paul Verhoeven, è stato colui che anni prima l’aveva trasformata da mattatrice della tv belga in una delle attrici più quotate Oltralpe, grazie a Elle (premio Cesar e miglior film straniero ai Golden Globe) e al ruolo di moglie dell’uomo sessualmente soddisfatto da Isabelle Huppert. Maggio è il mese della consacrazione di Efira grazie a due film in uscita: dal 2 è al cinema con Il coraggio di Blanche (Movies Inspired), film in Concorso a Cannes nel 2023. Tratto dal romanzo di Éric Reinhardt L'amore e le foreste (Salani), il lungometraggio di Valerie Donzelli è una storia di violenza domestica e psicologica, un viaggio nella mente di una donna che pensa di aver trovato l’uomo perfetto (l’ottimo Melvil Poupaud, che vedremo presto nei panni di un candidato alle presidenziali francesi nel film sul libro scritto da un ex primo ministro di Macron). Blanche lascia la sua famiglia e la sorella gemella con il sogno di farsi una nuova vita ma pian piano, e a fatica, realizzerà di avere accanto un uomo pericoloso che sta cercando di chiuderla progressivamente in una prigione. L’interpretazione di Efira è fisica, toccante e magnifica, e rende bene anche i rischi dell’immaginario in questo viaggio che è una specie di contraltare di Inferno di Chabrol, in cui il punto di vista della gelosia era quello maschile.
Dal 16 maggio sarà poi nelle sale anche Niente da perdere (Wanted cinema) un’altra storia di grande impatto emotivo in cui Efira si fa dirigere da una regista al primo lungometraggio, Delphine Deloget, per affrontare il dramma sociale della protezione dei bambini e l’ostilità di un sistema ottuso. Sylvie è una madre single di due figli difficili, una notte mentre è a lavorare e loro sono a casa da soli il piccolo ha un incidente domestico. In seguito a una denuncia, il bambino viene mandato in un istituto. Per Sylvie è l'inizio di un incubo che la rende instabile: combatterà con le forze che ha una lunga e dura battaglia amministrativa e legale per riportare a casa suo figlio e dimostrare la sua capacità di madre al mondo intero.

Due film in un mese per l'attrice belga

Virginie Efira, le mille sfumature di una donna

Come ci si sente psicologicamente durante la lavorazione di un film come Il coraggio di Blanche, che restituisce una violenza sottile e potente? 
«Ho molte esperienze di ruoli estremi che ho interpretato prima, fino a oggi il mio lavoro mi ha fatto esplorare la condizione femminile da diversi punti di vista. Qui la sfida è stata cercare di trasmettere qualcosa di molto intimo e vicino, e allo stesso tempo tremendo. Ho cercato di amplificare quella paura che paralizza aiutandomi con certe posture del corpo, e non solo: in questa storia c’era da comprendere la disfunzionalità psicologica, in modo che lo spettatore riesca a identificarsi in modo diretto con la storia».
Ha capito qualcosa in più sulle violenze all’interno della coppia?
«Sul set io e Melvil abbiamo lavorato con molte testimonianze vere, mi sono accorta che forse in vita mia ho frequentato solo luoghi di gioia. La difficoltà non è stata solo scoprire un “programma” psicologico carico di tutte le violenze possibili e immaginabili all’interno di una relazione, il problema era renderlo tangibile in modo fisico, non trasformarlo in un concetto intellettuale».
Come si è aiutata?
«Giocandoci, non passando attraverso l’analisi e l’intelletto ma scoprendo come il corpo reagisce fisicamente a certi stimoli. Sappiamo tutti molto bene che esiste la violenza, il punto è che la sperimentiamo noi stessi ma in realtà non la viviamo…».
Attuiamo una scissione?
«Si pensa “C’è la violenza coniugale, ma non è quello che sto vivendo, quello che vivo io è un’altra cosa…”. È difficile ammettere con sé stessi la verità, ovvero che è esattamente quello che ci sta accadendo. Ho cercato di creare un feeling con cui ci si potesse identificare bene, in modo che attraverso questa donna si possa indagare come viene messa in atto la manipolazione».
C’è qualcosa di nuovo nel modo di rappresentare la violenza nella coppia, in questo film.
«Quella che mostriamo è una relazione disfunzionale: che sia in una coppia, in un matrimonio o in una famiglia, il cuore sono la violenza e la gelosia e il punto di vista è chiaramente quello della donna. Si entra nella sua testa e nel suo processo, e la cosa che Donzelli volevo colpisse chi guarda è questo continuare a chiedersi se è la nostra percezione della realtà a non essere oggettiva o se è l’altro che sta davvero mettendo in atto una manipolazione consistente».
C’è una scena in cui dopo una festa lui guida come un matto e massacra psicologicamente la moglie, è ispirata a una testimonianza precisa?
«Pensi che una mia amica mi ha chiesto se ci eravamo ispirate a quello che mi aveva raccontato lei... Sono reazioni sistemiche, sono codificate: l’auto è un luogo classico per prendere in ostaggio un’altra persona, la sua vita è nelle tue mani e mentre tu guidi come un folle non può fare niente. La vittima è in una situazione di blocco totale, il carnefice può esercitare la sua collera su di lei, la puo’ martirizzare... L’auto è il luogo in cui avviene di tutto, è un luogo delicato». 

«Non mi piacciono le donne forti, sono un clichè e basta»

Mentre in Niente da perdere lo è la casa: lì accade un incidente a suo figlio e sempre lì questa madre fatica a stare insieme.
«Sylvie non è una donna perfettamente in equilibrio, e la società la distrugge. Il punto di vista è ambiguo, serve a capire che la madre perfetta non esiste. Questa ha un temperamento difficile da gestire, fa fatica, è molto reattiva. Ma quando diventa una caricatura, il sistema fa altrettanto, non si mette nei suoi panni, non la aiuta in nessun modo».
La legge è contro la madre single?
«In Francia c’è molto movimento, ci sono manifestazioni per le riforme del sistema delle pensioni, le donne sole sono molto svantaggiate, hanno salari molto inferiori rispetto agli uomini. Inoltre faticano a trovare lavori stabili e in caso di separazione non hanno alcun supporto da parte degli ex partner per quanto riguarda l’educazione dei figli».
Allo stesso tempo uno spettatore si chiede cosa sarebbe successo a questo figlio se non lo avessero tolto a sua madre.
«Il motivo per cui giriamo film è aprire conversazioni, analizzare le cose. Questa è una madre che fa del suo meglio, e c’è un punto in cui si dice che l’amore non è abbastanza. Però è anche vero che il figlio non ha mai subito violenza, non è mai stato abusato, e forse portandolo via gli creano un problema peggiore di quello che vogliono risolvere».
Come gestisce le relazioni emotive con i suoi figli?
«La grande mi prende in giro, ogni tanto mi dice “mamma sei incinta? Sei bipolare!”. Ma per me è tutto più facile rispetto a Sylvie, da attrice con un ruolo da protagonista mi assistono sul set. Ho girato Niente da perdere in Bretagna e Ali ha frequentato lì la scuola pubblica. Poteva andare al doposcuola, avevo un camerino e veniva a trovarmi quando voleva. A parte questo, posso parlare tanto di emozioni, sono un tipo di persona che quando fa errori lo ammette».
Non si è mai sentita in colpa perché non ha tempo per i suoi figli…
«No, e forse cinque anni fa era peggio, adesso ho una posizione che prima non avevo, mia figlia è sempre con me».
In questo film è single, in Il coraggio di Blanche ha un marito estremamente violento…
«Vorrebbe girassi un film sulla felicità perfetta? (ride; ndr) Non sono una madre ideale nei film e non lo sono nemmeno nella vita».
Ma parlando di uomini, persino Dio, in Benedetta, era un uomo così così… «So di non voler girare film per parlare delle abilità maschili… Anche se nella mia vita ho avuto relazioni con uomini positivi, non è questo il punto».
I ruoli per cui fa questo mestiere quali sono?
«Non mi piacciono le donne forti, è un clichè post #metoo. Ci sono mille modi di essere donne, non dobbiamo ridurre le contraddizioni e le ombre, o eliminare la complessità. Mi piacciono le figure che realizzano quello che stanno vivendo nel nostro tempo, e anche le donne che possono diventare il tuo peggior nemico. Ho iniziato a girare film che avevo più di 30 anni, prima ho lavorato molto in tv e i miei personaggi erano ragazze divertenti, poi sono venute le commedie romantiche… Per un po’ va bene, ma poi le cose devono cambiare».
Dopo la suora lesbica di Benedetta ha avuto difficoltà a tornare a ruoli meno estremi?
«Ho amato quel film, ma ha disturbato tante persone, persino mia madre. L’esperienza è così, lascia segni, ci sono cose che vuoi approfondire e lo fai... Ma dopo Benedetta non ho ricevuto proposte di personaggi perversi, se è quello che mi sta chiedendo».
Perché?
«Il motivo è la faccia, la mia faccia: è quella dell’amica della porta accanto».

4 maggio 2024