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The Hours – Il coraggio di vivere

Redazione Settima Arte

Marzo 28, 2017

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Scritto da Roberta Massarelli

Era il 28 marzo.

Quella mattina Virginia si alzò tardi. Erano le undici e mezza quando, dopo aver indossato il suo cappotto più pesante, lasciò per sempre la sua casa di campagna a Rodmell, nel Sussex, e si diresse verso il fiume Ouse. Testa bassa, schiena ricurva e un grosso masso nella tasca ad assicurarle il peso necessario a porre fine ai suoi tormenti. Camminava con la stessa passione con cui aveva vissuto, un’intera vita racchiusa in quel gesto estremo, greve come quel sasso insopportabile.

Succedeva oggi, nel 1941.

Virginia Woolf, che per 59 anni aveva vissuto in un perenne stato di apnea emotiva, viveva così l’ultima delle sue immersioni, nelle acque fredde dell’Ouse. Riempendosi le tasche di sassi, metteva la parola fine al romanzo più bello che avesse mai scritto: la sua vita.

The hours – La morte di Virginia Wolf

È con l’ineluttabilità di quel gesto che inizia The Hours, film diretto da Stephen Daldry e uscito nelle sale cinematografiche nel 2002. Con ben dieci nomination agli Oscar, un cast di primo ordine, The Hours è sicuramente uno dei capolavori della cinematografia mondiale.

Il film è tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore americano Michael Cunningham, pubblicato nel 1999, ben presto diventato un autentico caso letterario in tutto il mondo. La pellicola ha conquistato il premio “Pulitzer” e, in Italia, il premio “Grinzane Cavour” per la narrativa straniera. Il monologo di una Virginia Woolf alle prese con il demone della sua scrittura (mentre compone, per l’appunto, Mrs. Dalloway), fa da sfondo, e a tratti si intreccia, alle vicende di altre due donne: un editor newyorkese contemporanea, e una casalinga californiana dell’immediato dopoguerra.

Tre donne, tre luoghi, tre diversi momenti storici, legate tra loro da Mrs. Dalloway, spiate dall’autore del romanzo nell’arco di una sola giornata. Ventiquattr’ore cruciali per fare i conti con la propria esistenza, per dare un nome a quell’inquietudine, a quel bisogno di fuga, a quel senso d’incompletezza.

Il regista si muove quasi in punta di piedi, tra le pagine di Cunningham, prestando attenzione a non creare pieghe né sulla carta e né, tantomeno, nella storia. Ci trasporta così, in modo magistrale, nella disperata quotidianità di quelle vite.

Ogni singolo gesto, anche il più banale, a partire dalla famosa immagine dell’acquisto dei fiori, rivela un profondo male di vivere e un senso di insoddisfazione che accomuna le tre donne.

Il primo episodio è ambientato nell’Inghilterra degli anni venti.  Un’irriconoscibile Nicole Kidman è Virginia Woolf. Nella placida quiete delle campagne londinesi, una superba Kidman-Woolf, è raccontata mentre scrive uno dei capolavori della letteratura mondiale. La conosciamo mentre, tormentata dal desiderio di indipendenza, cerca di combattere contro l’aspirazione al suicidio.

Con un balzo di qualche decennio, la pellicola ci porta dentro un’altra storia fatta di sofferenza interiore: è la vita di Laura Brown (interpretata dall’insuperabile Julienne Moore), ambientata nella Los Angeles degli anni Cinquanta. La protagonista vive una doppia vita, da una parte quella di moglie e madre perfetta, in attesa del secondo figlio e, dall’altra, quella di donna in preda a un’indomabile insoddisfazione interiore. Sarà proprio la lettura del romanzo di Virginia Woolf a consentirle di aprire gli occhi sulla propria infelicità.

È proprio nella placida quotidianità dei preparativi della festa per suo marito, che scopre di non sopportare la vita che le è stata ritagliata addosso. La possibilità del suicidio, come strumento ultimo per ritrovare la pace, diventa il pensiero che, contemporaneamente, matura nella mente di Laura e nella penna di Virginia Woolf.

La terza storia si svolge in una caotica New York di inizio millennio: questa volta la cinepresa è tutta puntata sulla vita inquieta di Clarissa Vaughan, una sorta di Mrs. Dalloway più vicina ai nostri giorni, raccontata, ancora una volta, mentre prepara una festa. Il festeggiato è un amico della Vaughan, uno scrittore in fin di vita, malato di Aids, che ama chiamarla appunto: «signora Dalloway».

Tre vite nelle loro ore cruciali. Da qui, il titolo The Hours che, curiosamente, era stato anche il titolo provvisorio che Virginia Woolf aveva inizialmente ideato per il suo capolavoro Mrs Dalloway.

Il tempo è la presenza invisibile che tiene insieme la narrazione. È un tempo che sembra immobile, che esprime in qualche modo la staticità del vivere. Questa inerzia della loro esistenza, spinge le tre donne alla ricerca di un nuovo sentiero, di un’alternativa.

The Hours
The Hours

Il film si muove su tre piani temporali, in un continuo alternarsi di gesti e rituali che sembrano ripetersi, ma che in realtà hanno ogni volta un senso ed una valenza narrativa diversa. L’unità del piano psicologico è importante tanto quella del piano temporale.

Le tre donne vivono in uno stato di profondo turbamento interiore, quell’insoddisfazione del vivere che, seppur inconsciamente, le rende amiche in grado di comprendersi.

Il regista coglie molto bene il senso di questo collegamento nei gesti delle tre protagoniste, completandoli, quasi stessero portando in scena un unico soggetto. In una scena, Virginia Woolf, scrive le prime righe del suo romanzo: «la signora Dalloway disse che avrebbe comprato lei i fiori»; nella scena successiva la signora Brown legge quelle righe, in quella ancora successiva Clarissa compra quei fiori. Parole scritte, lette, vissute.

Se nel libro Cunningham gioca al risparmio sui dialoghi, per soffermarsi sulla descrizione dei moti d’animo, nel film questo gioco è spinto all’estremo. Il regista inglese raccoglie insieme pezzi di vite, li monta in sequenze alternate. Il ricordo di un bacio, tema centrale nel romanzo della Woolf, ritorna prepotente in ogni storia. Clarissa ricorda il bacio con Richard, l’amico omosessuale. Lo stesso bacio muove Virginia verso la sorella e quel bacio spinge Laura ad una fugace esperienza omossessuale con la sua vicina di casa.

La dimensione dell’omosessualità in qualche modo è presente in ognuna delle tre storie, anche se in modo differente.

Nella vita della Woolf quella dimensione è un tutt’uno con la sua sensibilità artistica, rappresenta una risposta al suo malessere del vivere, malessere di cui è a conoscenza, a differenza di Laura. Quest’ultima naviga nell’oceano della sua depressione senza esserne consapevole. È una donna che vive con un senso di estraneità il suo stesso matrimonio e, l’unico barlume di libertà, lo ha assaporato dando un bacio alla sua vicina. Clarissa, invece, sembra l’unica ad aver trovato una pace con il presente, vivendo con la sua compagna e senza fare mistero della sua omosessualità. Eppure anche lei conosce quell’angoscia, inseguita dai fantasmi del passato.

The Hours
The Hours

Quello che le tre protagoniste non dicono, ce lo racconta la musica.  E quando la parola passa alla musica, in The Hours, i personaggi scendono dal palco e diventano pubblico.

Quando Laura sprofonda nei suoi lunghi silenzi, densi di solitudine, guardando il mondo dalla finestra, sono i violini di Philippe Glass a parlare per lei. Quando la scena è immobile, il movimento è dato dalla musica. Gli archi, in The poet acts, si alternano al pianoforte che sembra voler prendere il sopravvento.

Quasi sempre la trasposizione cinematografica di un romanzo, finisce per privare i personaggi del loro pathos, della loro profondità. In The Hours questo rischio era potenzialmente enorme, avendo il romanzo una scarsa vocazione narrativa ed una forte propensione introspettiva.

Eppure, se possibile, quei personaggi, attraverso la pellicola, acquistano di intensità. Il gioco della metafora fa il resto. Il film traduce in una perenne metafora visiva il testo di Cunningham (bellissima, ad esempio, la scena del tentato suicidio di Laura, in cui la stanza d’albergo si riempie d’acqua, quasi evocando l’annegamento di Virginia Woolf nelle acque del fiume Ouse).

The Hours
The Hours

Il film non si limita a prendere ispirazione dal romanzo, ma lo mette in scena, preservandone l’intensità, i ritmi, il respiro.

La prova attoriale è davvero da Oscar. La Kidman rinuncia alla dolcezza del suo viso, con parrucca e naso che fanno rivivere sullo schermo la penna più tormentata del novecento.

Anche Meryl Streep e Julienne Moore sono superbe, la prima con una gestualità che parla, la seconda con la profondità degli sguardi.

Il sipario cala su un suicidio. La pellicola quindi si riavvolge su sé stessa. A morire questa volta è Richard, l’amico di Clarissa, malato di Aids. Non è un caso che a morire siano i due poeti (Virginia Woolf e Richard), coloro che guardano in faccia il proprio demone attraverso lo specchio della scrittura. Quello che emerge, nel finale, è paradossalmente un inno alla vita. È questa l’eredità più grande di Virginia Woolf.

«Caro Leonard, guardare la vita in faccia, sempre; guardare la vita in faccia e conoscerla per quello che è; al fine conoscerla, amarla per quello che è, e poi metterla da parte. Leonard, per sempre gli anni che abbiamo trascorso, per sempre gli anni, per sempre l’amore; per sempre, le ore».

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