ENZO, RE DI TORRES E DI GALLURA in "Federiciana" - Treccani - Treccani

ENZO, RE DI TORRES E DI GALLURA

Federiciana (2005)

ENZO, RE DI TORRES E DI GALLURA

FFrancesca Roversi Monaco

Figlio naturale di Federico II e di una donna da ultimo identificata con la nobile tedesca Alayta (Adelaide) di Vohburg o Alayta di Urslingen Marano (Trombetti Budriesi, 1996, pp. 210-214), nato con ogni probabilità intorno agli anni Venti del Duecento, Heinrich, chiamato con il diminutivo Heinz, latinizzato in Encius e volgarizzato in Enzo, per distinguerlo dal primogenito legittimo Enrico, fu, con verosimiglianza, allevato alla corte paterna, in Sicilia e in Puglia. Gli svariati interessi culturali e scientifici, l'abilità militare, la passione per la falconeria e la poesia suffragano tale ipotesi. Inoltre, in una sua canzone egli ricorda con struggente nostalgia le terre della Puglia e della Capitanata, che aveva visitato prima del 1239 (anno della sua legittimazione).

Le fonti contemporanee guelfe e ghibelline ne sottolineano, unanimi, la bellezza del corpo e la valentia nelle armi, assimilandolo al padre, di cui era considerato lo specchio: "nella figura e nel sembiante il nostro ritratto", ebbe a dire lo stesso Federico II del figlio (Kantorowicz, 1988, p. 467), perfetto cavaliere, audace combattente, colto intrattenitore. Salimbene de Adam così lo descrive: "Erat autem rex Hentius, qui et Henricus, naturalis, id est non legitimus, filius Friderici imperatoris condam depositi, et erat valens homo et valde cordatus, id est magnifici cordis, et probus armatus, et solatiosus homo, quando volebat, et cantionum inventor et multum in bello audacter se exponebat periculis: pulcher homo fuit mediocrisque stature" (I, 1998, p. 501). Tommaso Tosco lo definisce, in maniera assai efficace, "falconellus, quia ad omnia expeditus, corpore levis erat" (1872, p. 515). L'epiteto non esaurisce così le sue ragioni di essere: E. aveva "in comune con il falco, oltreché le connotazioni positive di agilità, prestanza, determinazione nella lotta [...] un'altra significativa caratteristica: come nei bestiari medievali il falco era tradizionalmente collocato un gradino sotto quello più alto occupato, nella gerarchia dei rapaci, dall'aquila, il predatore per eccellenza, il simbolo dell'imperatore, così Enzo, seppur legittimato, veniva dopo i figli legittimi: egli non poté mai essere ‒ e mai fu denominato ‒ pullum aquilae, il pulcino dell'aquila, come Saba Malaspina aveva felicemente detto di Corradino" (Trombetti Budriesi, Re Enzo nel teatro, 2001, p. 60). D'altra parte, la falconeria non fu per Federico II un semplice svago, ma un modo complesso di rapportarsi alla natura per comprenderla e dominarla una volta conosciutene le regole attraverso lo studio e l'esperienza diretta. "L'universo regolato dal falconiere è lo specchio del mondo retto dall'imperatore, così il falco è per eccellenza il simbolo del suddito, sia esso un figlio del sovrano sia esso l'ultimo dei villani [...] un principe che sia chiamato 'falconello' è, nella logica imperiale federiciana, un principe perfetto" (Ead., 2002, p. 22).

La prigionia del fratello Enrico, ribellatosi al padre, e la minore età del fratello Corrado, designato sotto tutela alle questioni tedesche, fecero sì che E. trovasse spazio nel progetto politico paterno sul controllo dell'Italia. Mancano, peraltro, documenti a lui relativi fino al 1238-1239 quando, dopo essere stato investito cavaliere e legittimato dal padre, fu inviato in Sardegna a svolgere il primo incarico politico, il suo matrimonio con Adelasia, giudicessa di Torres, vedova di Ubaldo II Visconti, giudice di Gallura.

La Sardegna, suddivisa nei giudicati di Cagliari, Torres, Gallura e Arborea, rappresentava allora una realtà politico-istituzionale assai frammentata, sulla quale a partire dall'XI sec. Impero e Papato avevano cercato di imporre la loro sovranità. Alle loro mire si affiancarono dall'inizio del XIII sec. le analoghe aspirazioni di Pisa e Genova, e delle rispettive consorterie dei Visconti, dei conti della Gherardesca e dei Doria. Nel 1222 il pisano Ubaldo Visconti, impadronitosi del giudicato di Gallura, sposò Adelasia, figlia di Mariano di Lacon Gunale, giudice di Torres, riunendo alla morte del suocero, nel 1236, le due corone di Torres e Gallura. Nel 1237 Gregorio IX ottenne il giuramento di fedeltà e vassallaggio dai re sardi, a esclusione del Regno di Gallura, già riconosciuto a Pisa e lasciato nel 1238, alla morte di Ubaldo, al cugino Giovanni. Il papa, però, non riconobbe il testamento e tentò di indurre Adelasia, divenuta regina dei due giudicati, a sposare il pisano Guelfo de' Porcari, gradito alla Santa Sede. In tale contesto si inserirono gli interessi di Genova e dei Doria, imparentati con Adelasia, che per evitare un'eccessiva influenza pisana suggerirono a Federico l'unione di E. con la giudicessa: in tal modo buona parte della Sardegna sarebbe passata sotto il controllo imperiale.

Il matrimonio, celebrato nell'ottobre 1238, fu subito funestato dalla scomunica papale ricaduta sui due sposi. E. si intitolò rex Sardinie e non solo rex Turrium et Gallurae, ma il suo potere fu in realtà limitato al giudicato di Torres, poiché la Gallura rimase sotto il dominio dei Visconti. Sulla sua permanenza nell'isola, durata circa dieci mesi, si conoscono pochissimi dati: esclusa la moglie dall'esercizio del potere, si stabilì a Sassari ed ebbe contatti con il giudice di Cagliari, dal quale ricevette in prestito alcune galee.

Le pressioni papali determinarono, però, la rottura dei rapporti fra Federico e Genova, che si alleò con Venezia in funzione antimperiale. Pisa venne così ad assumere un'importanza strategica fondamentale, quale unico punto d'appoggio per le comunicazioni con il Regno di Sicilia. Occorreva riconciliarsi con la città e rassicurare nei loro interessi sardi i Visconti e i conti della Gherardesca: E. fu richiamato sul continente nel 1239 lasciando a rappresentarlo sull'isola, dove non sarebbe più tornato, un vicario.

Adelasia, abbandonata dal marito ed esclusa dal governo del giudicato, si ritirò nel castello del Gocèano; sottomessasi al papa, nel 1243 fu sciolta dalla scomunica, ottenendo nel 1246 l'annullamento dell'unione con E., che perdeva così i titoli ottenuti in seguito al matrimonio. Egli, però, non riconobbe mai decaduti i suoi diritti, che continuò in parte a esercitare anche durante la prigionia, grazie al matrimonio della figlia Elena con Guelfo della Gherardesca, figlio dell'Ugolino dantesco che era stato uno dei suoi vicari nel giudicato. Adelasia morì nel 1255 senza lasciare eredi: sembra, infatti, da escludere che la succitata Elena possa essere figlia della regina sarda.

Il 25 luglio 1239 E. fu nominato legatus totius Italiae con ampi poteri di intervento e giurisdizione sul territorio italiano: egli diveniva così un importante fattore di stabilità dell'alleanza ghibellina in Italia, ponendosi nel cruciale decennio successivo quale alter ego dell'imperatore e impegnandosi soprattutto in ambito militare, dove ottenne notevoli successi, pur vivendo in prima persona "la drammatica contraddizione tra il disegno imperiale [...] e il suo tragico venire a confronto, soprattutto fra il 1239 e il 1250, con la realtà magmatica, incoerente, incostante delle città del Nord [...] che condizionarono fino a corroderlo alle radici più profonde il progetto statuale italiano di Federico II" (Trombetti Budriesi, 1996, p. 207).

Alla fine del 1239 E. combatté contro il papa nella Marca anconetana, ricevendo la seconda scomunica; nel 1240 partecipò all'assedio di Ravenna e a quello di Faenza; nel 1241 portò a termine con successo la cattura delle navi genovesi che trasportavano a Roma i cardinali convocati da papa Gregorio IX per il concilio che avrebbe dovuto deporre l'imperatore (v. Giglio, battaglia del).

Nel 1242 fu impegnato in azioni militari ai danni dei comuni guelfi lombardi: dopo una serie di scorrerie nel Milanese e nel Piacentino, venne ferito presso Palazzolo, nel Bresciano, e si ritirò a Cremona, che divenne la base della sua attività nell'Italia settentrionale. Nel 1243 proseguì le sue campagne in Lombardia: si recò in aiuto di Savona, assediata dai genovesi, che furono costretti a ritirarsi; avanzò poi verso Lodi e Milano, sfidando a Melegnano i milanesi in un combattimento in campo aperto, ma ottenendone un rifiuto. Nel 1244 puntò verso Piacenza, ripiegando poi su Cremona per il sopraggiungere di un forte contingente della Lega lombarda. Nel 1245, eletto papa Innocenzo IV, fu scomunicato per la terza volta, mentre il padre veniva deposto. Federico decise allora di attaccare Milano: E., proveniente dall'Adda con le truppe di Cremona, Parma, Reggio e Bergamo, fu catturato durante uno scontro e rinchiuso nel campanile di Gorgonzola per essere liberato all'arrivo delle truppe imperiali, dopo aver giurato ai milanesi di abbandonare la campagna militare contro di loro. Nel 1246 fu investito dal padre della Lunigiana e della Garfagnana e, dopo avere cacciato da Parma la fazione guelfa di Bernardo Rossi, compì scorrerie nel Piacentino e nel Piemonte.

Nel 1247 la ribellione di Parma mise in crisi lo scacchiere ghibellino dell'Italia settentrionale: mentre Federico si accingeva all'assedio della città, a E. fu affidato il compito di sorvegliarne gli accessi, per bloccare rinforzi e vettovagliamenti. Il re fu dapprima nel Bolognese, poi in Garfagnana, infine presso Brescello, nel Reggiano, dove nel febbraio 1248 lo raggiunse la notizia della distruzione del campo imperiale di Vittoria da parte delle truppe parmensi. E. ritornò allora a Cremona, dove assunse la podesteria della città, unendosi l'anno dopo in matrimonio a una nipote di Ezzelino da Romano, di cui si ignora il nome.

Nel maggio del 1249 i bolognesi attaccarono Modena; da Cremona E. accorse in aiuto della città, muovendo con le fanterie modenesi verso il fiume Panaro, dove si era arrestato l'esercito nemico. Le truppe imperiali e ghibelline, sorprese ai fianchi dalla cavalleria bolognese, furono costrette a ritirarsi; in località Fossalta la ritirata si trasformò in una rotta disastrosa a causa dell'ingrossamento di un torrente. E., giunto alle porte di Modena, fu catturato insieme a milleduecento fanti e quattrocento cavalieri, fra i quali Buoso da Dovara, capo delle milizie cremonesi, Marino da Eboli, podestà di Reggio, e Corrado di Solimburgo. Nei mesi successivi buona parte dei prigionieri ottenne la libertà dietro il pagamento di un riscatto, ma la sorte di E. fu diversa: rinchiuso fino al 17 agosto nei castelli di Castelfranco e Anzola dell'Emilia, fu condotto il 24 agosto a Bologna, dove il consiglio comunale deliberò di trattenerlo in prigionia fino alla fine dei suoi giorni.

L'ingresso in città delle truppe vincitrici fu un grande avvenimento: "strade addobbate, cittadini vestiti a festa, l'esercito ‒ fanti e cavalieri ‒ che sfila al suono delle trombe, al rullo dei tamburi, con le bandiere spiegate e trascinando nella polvere le insegne nemiche, portando il bottino, ‒ 'preziose vesti, vasi d'oro e d'argento con altre cose di pregio e massimamente gli ornamenti regali…'. Seguiva il carroccio e dietro al carroccio venivano i prigionieri legati a due a due, e 'ultimamente il re Enzo, sopra un muletto […], il re […], che non passava ventiquattro anni, bello di corpo, con un'angelica faccia, avendo i capelli biondi istesi fino alla cintura'" (L. Alberti, 1588, p. 17; Fasoli, 1974, p. 922).

Dalla cancelleria imperiale partì una lettera aspra e sdegnata che esigeva l'immediata liberazione di E. pena la distruzione della città, ma i bolognesi, per nulla intenzionati a cedere il simbolo della loro superiorità sull'imperatore stupor mundi, così replicarono: "non isperate atterrirci colle vostre vane parole: non siamo canne palustri, tremole a ogni tenue spiro di vento, né a piume simili siamo, né a nebbie dileguanti al raggio solare. Sappiate che tenemmo in nostra mano re Enzo, che lo teniamo e lo terremo; se volete punire l'offesa date mano alle armi e opponete forza a forza. Infatti noi cingeremo le nostre spade e ruggiremo al par di leoni, ostilmente affrontandovi; né varrà alla vostra magnificenza l'innumerevole moltitudine: poiché così dice il proverbio antico: spesso da un piccolo cane è immobilizzato un cinghiale" (Frati, 1902, pp. 114-117). Le lettere, tramandate dalla trecentesca cronaca Villola, furono attribuite a Pier della Vigna (la missiva imperiale) e a Rolandino Passaggeri (la risposta bolognese). In realtà, Pier della Vigna era morto alcuni mesi prima, e risulta dubbia anche l'attribuzione al Passaggeri, ritenendosi la risposta bolognese non tanto una missiva diplomatica vera e propria, quanto un esercizio di scuola accolto in seguito fra i documenti ufficiali del comune (Hessel, 1975, p. 127; Giansante, 2001, p. 104).

Federico, peraltro, non rinnovò i tentativi di ottenere la liberazione del figlio: nel 1250 moriva senza neppure rammentarlo nel suo testamento, quasi a voler negare la sconfitta subita e, con essa, l'esistenza stessa del figlio che, pure, lo aveva così fedelmente e onorevolmente servito.

E. fu rinchiuso nel Palazzo Nuovo del comune (poi divenuto Palazzo di Re Enzo), dove rimase fino alla morte, avvenuta il 14 marzo 1272. Alcune disposizioni statutarie ne regolamentarono la custodia, l'onere della quale, inizialmente di sua spettanza, divenne gratuito dal 1262 per il suo impoverimento; nel 1263 si stabilì di liberarlo della presenza di Corrado di Solimburgo, incarcerato con lui e forse nel frattempo impazzito. La prigionia, dapprima assai rigida, divenne nel corso degli anni più sopportabile: E. ebbe a disposizione servi e paggi e godette della compagnia di alcuni nobili bolognesi, fra i quali pare prediligesse Pietro degli Asinelli, conoscitore del tedesco (Ghirardacci, 1596, p. 183); mantenne anche contatti con l'esterno, come dimostrano le lettere scambiate con Buoso di Dovara (liberato nel 1251), ed ebbe alcune figlie, ricordate nel suo testamento. Pare, inoltre, che negli ultimi anni gli fosse consentito intrattenersi sotto un porticato del palazzo (Falletti, 1908, p. 55).

Ebbe anche la possibilità di dedicarsi alla poesia (v. su ciò Enzo, re di Torres e di Gallura, attività poetica) e alla cultura letteraria e scientifica: chiamò presso di sé Daniel Deloc perché traducesse dal latino al francese il più importante trattato di falconeria di ambito orientale, noto in Occidente come Moamin (v.), già tradotto dall'arabo al latino da Federico II con la collaborazione di Teodoro di Antiochia. A tale proposito si deve ad Anna Laura Trombetti Budriesi (De arte venandi, 2000, p. LXXX) l'ipotesi che la redazione in sei libri del De arte venandi cum avibus di Federico trasmessa dal testimone più antico, conservato a Bologna e databile alla seconda metà del XIII sec., sia riconducibile agli anni della prigionia di E., che ne avrebbe personalmente curato la compilazione.

L'alleviarsi della prigionia non poté evitare a E. l'affievolirsi di ogni speranza di essere liberato. Condannato a una reclusione "che ha indotto gli storici ad appuntare la loro attenzione più sulla figura triste del prigioniero che su quella audace dell'uomo di azione [...] fu testimone impotente della disfatta della sua casata: il fratellastro Corrado morì in Germania nel 1254; l'altro fratellastro, Manfredi, governò il Regno di Sicilia prima di trovare la morte nella battaglia di Benevento nel 1266" (Braidi, La battaglia, 2002, p. 53); il nipote Corradino fu catturato e giustiziato dopo la battaglia di Tagliacozzo nel 1268.

Il 6 marzo 1272, gravemente malato, dettò le sue ultime volontà in presenza delle autorità comunali, di alcuni frati domenicani e degli amici più intimi. Egli nominò quali eredi dei diritti sull'Impero, sui feudi concessigli dal padre dopo la legittimazione e sui titoli sardi Alfonso X re di Castiglia e Federico III langravio di Turingia, nonché i nipoti Enrico e Ugolino della Gherardesca e Corrado di Antiochia, cui furono affidati diversi legati a favore di parenti, amici, creditori e domestici. "Nessuno degli eredi legittimi di Federico II era ancora vivo nel 1272: Enzo aveva dunque titolo a trasferire ai propri eredi l'eredità degli Hohenstaufen, o almeno le pretese per una sua improbabile rivendicazione" (Trombetti Budriesi, 1996, p. 215).

Nel testamento, a suo modo una leggenda "per questo vagheggiare una ricchezza, una potenza che non esistono più, per questo richiamarsi alla solidarietà morale dei principi che in realtà lo hanno completamente dimenticato" (Fasoli, 1974, p. 930), E. ricordò con affetto le figlie Elena, Maddalena e Costanza, nate durante la prigionia, disponendo per il mantenimento della sorellastra Caterina da Marano ‒ figlia naturale di Federico e di una nobildonna cremonese ‒, che lo raggiunse a Bologna per condividerne gli ultimi anni, senza dimenticare coloro che lo avevano aiutato e servito nel lungo periodo della prigionia: dagli amici bolognesi, ai due cuochi, al calzolaio, al sarto, ai servitori addetti alla sua persona, ai medici che con magnanimità il comune gli aveva messo a disposizione.

In atto di umiltà perdonò il comune di Bologna per la lunga reclusione, supplicandone la benevolenza circa il proprio funerale: la sepoltura fu effettuata a spese del comune, che gli tributò gli onori consoni al suo lignaggio.

E., che era stato re per un tempo molto breve e prigioniero per oltre metà della sua esistenza, ottenne esequie degne di un grande sovrano: il Cantinelli riferisce che venne sepolto cum maximo honore, e Salimbene riporta la notizia dell'imbalsamazione del suo corpo. Iniziava così a formarsi nell'immaginario cittadino il mito di re E., scaturito, secondo la densa espressione di Antonio Ivan Pini, in una "leggenda agiografica laica" (1972, p. 173), arricchita nel corso del tempo di particolari sempre nuovi.

Alcune fonti riportano che il re, di notte, era rinchiuso in una gabbia di legno e ferro sospesa dal suolo, con ceppi ai polsi e alle caviglie per impedirne la fuga (Annali genovesi, 1923, p. 185; Antonelli-Pedrini, 1996, pp. 259 s.), enfatizzando così la durezza della sua reclusione. Anche Salimbene de Adam narra un episodio che getta una luce sinistra sulle condizioni del prigioniero: un giorno che i custodi di E. si rifiutavano di nutrirlo, infatti, frate Albertino da Verona, predicatore francescano, avrebbe proposto loro di giocare a dadi, chiedendo in caso di vittoria il pasto per il re (I, 1998, p. 501). D'altra parte, secondo Iacopo da Acqui, egli riceveva ogni giorno pane, vino, frutta e una torta fatta delle cose che più gli piacevano (1863, coll. 1585, 1588).

La leggenda enziana fu filtrata nelle fonti narrative e storiografiche dalle diverse ideologie: in una prima fase, coeva o di poco successiva agli eventi, prevalse una lettura politica della prigionia, per i ghibellini segnata da una deplorevole durezza, per i guelfi dalla massima deferenza e amabilità, mentre il racconto della sua cattura diveniva il simbolo dell'orgoglio comunale. Dall'inizio del XIV sec. le fonti concordano nell'assegnare alla presenza di E. un ruolo cruciale nelle lotte fra guelfi e ghibellini (Geremei e Lambertazzi, dal nome dei rispettivi capofazione) che dilaniarono Bologna dalla fine del Duecento. A partire dal Serventese dei Geremei e dei Lambertazzi e dal Chronicon del Cantinelli per arrivare alle grandi cronache trecentesche, infatti, la fine della concordia cittadina fu variamente correlata alla prigionia e alla morte di E. (Antonelli-Pedrini, 1996, pp. 244 ss.).

In una seconda fase, quattrocentesca, con l'affermarsi della signoria e la sempre maggiore influenza del dominio pontificio sulla città, il ruolo di E. nel panorama cittadino muta in base a un vero e proprio processo di reinvenzione: accanto alle antiche virtù militari del comune, "si esalta l'amichevole e rispettosa dimestichezza fra il re e l'aristocrazia bolognese, si attribuisce all'augusto prigioniero la paternità del capostipite della famiglia dei Bentivoglio e ci si consola della perdita della libertà e della soggezione al papa con il ricordo delle glorie passate e dell'opposizione alla volontà di un imperatore" (Fasoli, 1974, p. 919). La riscoperta della leggenda di E. fu forse incoraggiata da Giovanni II Bentivoglio, per legare la sua famiglia all'unico re che Bologna poteva vantare e che, da prigioniero e nemico, era trasformato nel depositario del personale mito fondatore della signoria cittadina. Fu così diffusa la leggenda degli amori del re con la contadinella Lucia di Viadagola, che E. apostrofava sospirando "anima mia, ben ti voglio". Grazie ai buoni uffici di Pietro degli Asinelli, i due si sarebbero incontrati finché la fanciulla "partorì un putto maschio et poseli nome Bentivoglio" (ibid., p. 927 n. 39). Allo stesso periodo appartiene il racconto del fallito tentativo di fuga del re, che avrebbe cercato di eludere la sorveglianza dei suoi carcerieri nascondendosi all'interno di una brenta, il recipiente vinario con il quale i facchini portavano il vino nelle case (Garzoni, 1902, p. 84).

Accanto a fonti con maggiori garanzie di veridicità storica, l'amplificazione leggendaria in chiave cavalleresca proseguì nella storiografia cinquecentesca, nelle opere dell'Alberti, del Sigonio, del Ghirardacci. Il processo di trasformazione della figura del re, correlato ai mutamenti politico-istituzionali della città, può, dunque, dirsi terminato alla fine del '500. Da nemico prigioniero, assimilato ai problemi di una città divisa in fazioni, E. divenne nel corso del tempo una sorta di eroe domestico, una gloria cittadina, utile a non perdere la memoria e la coscienza della propria identità, di una potenza passata e di una libertà difesa con coraggio (Antonelli-Pedrini, 1996, p. 289).

Il mito legato al destino tragico e commovente del giovane re, pur dipanatosi entro piccole patrie, se rapportate alle dimensioni dell'Impero (Trombetti Budriesi, Re Enzo nel teatro, 2001, p. 59), è giunto fino all'età contemporanea: ancora all'inizio del XX sec., infatti, la storiografia bolognese si preoccupava di negare la durezza della prigionia di E., esaltando la magnanimità del comune (Vallerani, 2001, p. 24), ma è soprattutto in ambito letterario che si colgono la continuità e la vitalità della leggenda enziana. A partire dal poema eroicomico la Secchia rapita di Alessandro Tassoni (1622), componimenti poetici e romanzi storici sembrano essere la cifra preferenziale di espressione della letteratura ispirata a E., tratteggiato di volta in volta come nemico acerrimo e crudele, come vittima di una sorte beffarda e capricciosa, come perfido sposo della regina di Torres: dalle Canzoni di re Enzio di Giovanni Pascoli (1908-1909), ai romanzi e racconti storici incentrati sul matrimonio con Adelasia, fra cui spicca la novella Il Sigillo d'amore di Grazia Deledda (1926), per arrivare al poema Enzo Re. Tempo viene chi sale e chi discende del bolognese Roberto Roversi (1997), storia, storiografia, mito e creazione poetica si nutrono a vicenda fino a creare un personaggio fremente di vita e sofferenza (Braidi, Re Enzo, 2002; Roversi Monaco, 2002).

"Del re prigioniero, del 'leone in gabbia del comune', come lo definì Pascoli, si è distillata nei secoli, anche a livello colto, un'immagine assai semplificata, che raggruma, confondendole, la complessa esperienza di un'educazione principesca alle armi e alla poliedrica cultura della corte federiciana, di una vita avventurosa di combattente [...] con quella di una lunga, incolore detenzione, assai poco percorsa dagli storici, mitizzata, talora [...] come trascorrere uguale di giorni da parte di un sopravvissuto a se stesso, alla sua Casa, al suo tempo" (Trombetti Budriesi, Una città, 2001, p. 22).

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