Lo straordinario viaggio di Marco Polo

Lo straordinario viaggio di Marco Polo

Nel 1271 i fratelli Matteo e Niccolò Polo e il figlio di quest’ultimo, Marco, lasciarono Venezia alla volta della Cina, dove dovevano essere ricevuti dal Gran Khan. Il loro viaggio attraverso l’Asia durò tre anni e mezzo

Consultando le opere dei geografi medievali ed esaminando i mappamondi o le carte che ci hanno fatto pervenire, non si può non rimanere colpiti dal fatto che territori vastissimi, comprendenti l’Asia settentrionale, la Cina e buona parte del subcontinente indiano risultassero allora completamente sconosciuti. Nella maggioranza dei casi ci si limitava a lasciare spazi vuoti, in altri appaiono scritte poco rassicuranti del tipo Hinc abundant leones o Antropophagi, quasi a voler giustificare tale ignoranza tirando in ballo animali pericolosi o popoli all’ultimo stadio dell’evoluzione. Lo storico Albert t’Serstevens, nell’opera che nel 1959 dedicò ai precursori del viaggiatore veneziano, scrisse: «Nessuno dei sessantaquattro mappamondi datati dal VII alla fine del XIII secolo e da me consultati dà una minima idea di ciò che potevano essere le vaste regioni che si estendono verso Oriente al di là del Gange, dell’Himalaya, del Pamir e degli Urali».

Fu necessario attendere fino alla fine del XIII secolo perché il mistero che aleggiava su quelle terre fosse finalmente svelato. E ciò grazie a un testo apparso per la prima volta in francese antico con il titolo di Devisement du Monde, ma che oggi tutti conoscono come Il Milione. Fu il prosatore Rustichello da Pisa a riordinare e a mettere nero su bianco i ricordi e gli appunti di viaggio di un giovane veneziano, Marco Polo, giunto fino alla corte di Kublai Khan, nipote di Gengis Khan. All’inizio del XIII secolo Gengis, il condottiero mongolo, era stato capace di soggiogare la quasi totalità dell’Eurasia, gettando le basi di un dominio immenso che, quando Kublai fondò il primo impero celeste della dinastia Yuan, si estendeva ormai dall’Europa orientale al mar del Giappone, Cina compresa.

Il signore del mondo

Sarebbero state proprio queste straordinarie condizioni di unità politica e militare, la cosiddetta pax mongolica, a stabilire un collegamento tra Asia ed Europa come mai era accaduto prima. Un’opportunità che Venezia, la cui fortuna era legata ai traffici con l’Oriente, non si lasciò sfuggire. E nemmeno la famiglia Polo.

Questa miniatura del XV secolo ricostruisce il momento in cui Marco Polo lascia Venezia

Questa miniatura del XV secolo ricostruisce il momento in cui Marco Polo lascia Venezia

Foto: Album

Se il giovane Marco poté imbarcarsi nell’impresa che lo avrebbe reso famoso lo dobbiamo all’abilità del padre e dello zio (Niccolò e Matteo), che già nel 1266 raggiunsero la Cina riuscendo a farsi ricevere da Kublai in persona. Al loro rientro in patria, avvenuto tre anni dopo, non erano più semplici mercanti ma speciali emissari del Khan, incaricati di condurre un’ambasceria presso il pontefice. Una missione delicata suggellata dalla ricezione di un salvacondotto, la “tavola d’oro”, che in cinese si chiamava paiza e in mongolo gerega. Questo documento permetteva loro di muoversi liberamente entro tutti i territori sottoposti al controllo mongolo sia nel viaggio di andata sia in quello di ritorno. Ecco perché quando nel 1271 Niccolò e Matteo si rimisero in cammino verso l’impero celeste con al seguito il giovane Marco, che all’epoca aveva 17 anni, sapevano che dall’esito di quell’incarico sarebbero dipese anche tutte le loro fortune.

Comincia l’avventura

Lasciata Venezia i Polo sbarcarono ad Acri, in Terrasanta, nell’aprile del 1272. Dopodiché mossero verso l’interno secondo un itinerario che li portò ad attraversare l’Anatolia orientale e l’Armenia, per poi dirigersi alla volta dell’altopiano iranico con l’obiettivo di raggiungere lo stretto di Hormuz e imbarcarsi per la Cina.

Durante questa prima parte del tragitto attraverso il Vicino Oriente i tre si spostarono via terra, da soli o unendosi a qualche carovana nei tratti più difficili. Dal momento che Il Milione non è un diario di viaggio ma un resoconto di quanto visto e udito durante il percorso, sprovvisto quasi del tutto di dettagli sugli spostamenti, non sappiamo come si relazionassero i Polo con le popolazioni locali. È però molto probabile che, in virtù della precedente esperienza di Niccolò e Matteo, ricorressero a delle guide che conoscevano le lingue del luogo e a funzionari delle terre sottoposte all’autorità del Gran Khan, il cui sostegno era garantito dalla presenza del salvacondotto. Naturalmente non mancavano rischi e difficoltà legati soprattutto al clima impietoso e alla necessità di attraversare fiumi molto pericolosi in tutte le stagioni dell’anno.

In questo mosaico del 1867 conservato nel palazzo Doria-Tursi di Genova si ricorda l’intrepido viaggiatore e la sua opera, Il Milione

In questo mosaico del 1867 conservato nel palazzo Doria-Tursi di Genova si ricorda l’intrepido viaggiatore e la sua opera, Il Milione

Foto: Leemage / Getty Images

Le informazioni su queste prime tappe nell’interno dell’Asia sono numerose e spesso affascinanti: «Ancor vi dico che in questa grande Erminia [Armenia] è l’arca di Noè in su una grande montagna», scrive Marco riferendosi al mitico monte Ararat, su cui si sarebbe arenata l’arca alla fine del diluvio universale. Ma non mancano neppure le scoperte curiose. A poca distanza da quel monte biblico c’era una sorgente di petrolio, probabilmente bitume, che le popolazioni locali sfruttavano da tempi immemorabili. In Il Milione Marco ne riporta un’interessante descrizione: «In questo confine è una fontana, ove surge tanto olio e in tanta abbondanza che 100 navi se ne caricherebboro a la volta. Ma egli non è buono a mangiare, ma sì da ardere». E in effetti secondo il veneziano la fama del luogo era tale che venivano «uomini molto da la lunga».

Marco Polo racconta in Il Milione Marco Polo che l'arca di Noè si troverebbe sulla cima del monte Ararat, nella regione dell’Armenia

Marco Polo racconta in Il Milione Marco Polo che l'arca di Noè si troverebbe sulla cima del monte Ararat, nella regione dell’Armenia

Foto: Tuul et Bruno Morandi / Gtres

L’esploratore descrive con dovizia di particolari anche il territorio dell’attuale Iraq, ma non specifica se i Polo vi abbiano veramente messo piede o si siano limitati a riportare informazioni, per quanto puntuali, di seconda mano. Comunque sia andata, si tratta di uno spaccato prezioso sui popoli che vi abitavano, le lingue parlate, gli usi e i costumi. Come la celebre descrizione del reame di Mosul, città famosa per i «panni di seta e d’oro». Marco si riferisce quasi certamente alla mussola, un tessuto molto fino e leggero che fece la fortuna dei mercanti locali ed è originario dell’Iraq settentrionale. Il veneziano restò affascinato anche dal fatto che nella regione vivesse una comunità cristiana molto numerosa, ma il cui credo non era «come comanda la Chiesa di Roma». Si trattava del nestorianesimo, una dottrina che sosteneva la totale separazione delle due nature di Cristo, quella umana e quella divina, e che per questo motivo era considerata eretica. Poco più avanti nel testo viene menzionata Baudac (Baghdad), dove risiedeva «lo califfo di tutti li saracini del mondo, così come a Roma il papa di tutti li cristiani». È una città vasta, attraversata da «uno fiume molto grande [il Tigri] per lo quale si puote andare infino nel mare d’India, e quindi vanno e vegnono mercatanti e loro mercatantie».

Nel cuore dell’Asia

È probabile che i tre veneziani fossero giunti fino in Persia attraverso le selvagge montagne del Kurdistan, arrivando poi a Tabriz, città nel nord-ovest del Paese, dove rimasero affascinati da «li sovrani tappeti del mondo e i più begli». Il transito per l’altopiano iranico, suddiviso in otto regni, è una miniera d’informazioni. Basti ricordare il passo che menziona la città di Saba (la cui ubicazione è attualmente sconosciuta), dove si troverebbero le tombe dei re magi che andarono ad «adorare Dio quando nacque». I tre magi sono «in una bella sepoltura, e sonvi ancora tutti interi con barba e co’ capegli». Quella scoperta inattesa suscitò la curiosità del giovane Marco, che più volte chiese informazioni alla gente del posto, ma «niuno gliene seppe dire nulla, se non che erano tre re soppelliti anticamente».

Ricerca di rubini sulle montagne di Badakhshan. Miniatura del Libro delle meraviglie di Marco Polo​

Ricerca di rubini sulle montagne di Badakhshan. Miniatura del Libro delle meraviglie di Marco Polo​

Foto: Album

È presente anche una preziosa testimonianza sugli «adoratori del fuoco», le comunità religiose zoroastriane (l’antico culto iranico) sopravvissute all’avvento dell’islam, sei secoli prima. Dopo Tabriz i tre fecero tappa a Yazd, descritta come una città molto bella e ricca grazie ai panni d’oro e alla seta, e a Kerman, dove si allevavano «li migliori falconi e li più volanti del mondo». Lì vennero a sapere che a Hormuz non era disponibile alcuna imbarcazione in grado di tenere il mare. Questo stravolse i loro piani e li costrinse a continuare via terra attraverso il deserto del Dash-e-Lut, l’Afghanistan e la valle del Panshir. Da qui, percorrendo un lungo ramo della via della Seta, raggiunsero in seguito il Wakhan, una striscia di terra che s’incunea fino in territorio cinese. Ma era solo il prologo a una delle imprese più ardue: l’attraversamento della terribile catena del Pamir, durato ben quaranta giorni, che permise loro di giungere fino al bacino del Tarim – l’attuale regione di Xinjiang –, un territorio ai confini del mondo riscoperto da esploratori occidentali solo nel XIX secolo.

Le sfide più difficili

L’opera di Marco è molto parca di dettagli su questa parte del viaggio: non riporta né le impressioni dell’autore, né si dilunga sulle difficoltà che dovette affrontare. Il veneziano menziona solo che fu costretto a fermarsi per un certo tempo sui monti del Balasciam (l’attuale Badakhshan in Afghanistan) per riprendersi da una malattia. Si trattava di una terra ricca di pietre preziose chiamate balasci, una varietà di rubini che venivano estratti in grandi quantità ma che era proibito esportare, pena la morte. A quanto sembra la sosta permise al giovane di soffermarsi su alcuni particolari della popolazione locale, come per esempio l’usanza delle donne d’indossare brache dalla forma insolita. Un costume che lo stesso autore spiega così: «E questo fanno per parere ch’abbiano grosse le natiche, perché li loro uomini si dilettano in femine grosse».

Ma se una volta raggiunto il bacino del Tarim i Polo pensavano di essersi lasciati alle spalle la parte più difficile del viaggio si sbagliavano di grosso. Li attendeva la traversata del deserto del Taklamakan, lungo una pista che si snodava per le città commerciali di Kashgar, Kotan e Cherchen, e quindi il cammino proseguiva attraverso il deserto del Gobi. Per non correre inutili rischi i tre, che si muovevano a dorso di cammello, decisero di unirsi a una carovana. Fu una pessima idea perché il gruppo fu presto attaccato dai predoni. I Polo furono abili: riuscirono a sganciarsi dagli accompagnatori e trovarono rifugio in una città vicina; molti dei compagni furono trucidati.

Ritratto su seta di Kublai Khan dipinto poco dopo la sua morte avvenuta nel 1294​

Ritratto su seta di Kublai Khan dipinto poco dopo la sua morte avvenuta nel 1294​

Foto: Album

Arrivo alla meta

Sfuggiti per un pelo a un destino terribile non poterono far altro che proseguire e la fortuna anche questa volta non gli voltò le spalle. Dopo aver percorso quasi duemila chilometri di deserto, capirono di essere in salvo: un reparto della guardia imperiale li attendeva per condurli a corte. Ci volle ancora più di un mese di viaggio, ma alla fine si trovarono al cospetto della favolosa Shangdu – la mitica Xanadu –, residenza estiva di Kublai Khan edificata pochi anni prima a nord di Pechino. Dopo tre anni e mezzo di peripezie i veneziani erano finalmente giunti in Cina. Quando furono ricevuti a corte con tutti gli onori non poterono fare altro che ammirare estasiati la ricchezza e lo sfarzo di quel palazzo «di marmo e d’altre ricche pietre», le cui sale e camere erano «tutte dorate». L’udienza con Kublai fu uno dei momenti più importanti nella vita di Marco, come spiega lui stesso: «Egli [Kublai] li fece levare [i Polo] e molto mostrò grande alegrezza, e dimandò chi era quel giovane ch’era con loro». Niccolò rispose: «Egli è vostro uomo e mio figliuolo». Allora Kublai assentì: «Egli sia il benvenuto, e molto mi piace».

Il pittore Tranquillo Cremona immaginò così l’incontro tra i veneziani e Kublai. In realtà, i Polo si prostrarono al cospetto del Khan

Il pittore Tranquillo Cremona immaginò così l’incontro tra i veneziani e Kublai. In realtà, i Polo si prostrarono al cospetto del Khan

Foto: Dea / Album

Per il giovane Marco, ormai ventunenne, alla corte del Khan si aprivano le porte di quell’immenso Paese che, in capo a poco, avrebbe finito per conoscere a menadito. Impratichitosi molto velocemente delle lingue – pare ne conoscesse quattro –, non tardò a essere nominato ufficiale governativo. Questo privilegio gli permise di prendere parte a importanti missioni in ogni angolo dell’impero, dal Tibet alla Birmania e dalla Cocincina all’India. Per volontà di Kublai i Polo rimasero in Cina per quasi 17 anni, fino a che nel 1292 il Gran Khan non gli concesse il permesso di far ritorno in patria.

Salparono verso il golfo Persico su una flotta di 14 giunche. Iniziava così un viaggio per mare che non avrebbe avuto nulla da invidiare a quello che anni prima avevano percorso via terra: dopo aver costeggiato la Malacca arrivarono a Sumatra, dove furono costretti a fermarsi per cinque mesi a causa dei venti contrari. Poi toccarono i porti dell’India e di Ceylon, che Marco Polo dimostrò di conoscere bene per esservisi già recato nel corso di una precedente missione governativa. Dopo 18 mesi la flotta giunse finalmente a Hormuz. Avrebbero trascorso un altro anno e mezzo in Persia, prima d’intraprendere l’ultima parte del viaggio che li avrebbe riportati, dopo una sosta a Costantinopoli, fino in patria. Era il 1295 e i Polo mancavano da Venezia da ben 24 anni.

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