Berengo Gardin, la fotografia diventa specchio del reale - Messaggero Veneto
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Berengo Gardin, la fotografia diventa specchio del reale

Inaugurata in Castello a Udine la rassegna dedicata all’artista, esposte 192 immagini: «Sono un professionista che scatta con la passione di un fotoamatore»

Alvise Rampini
2 minuti di lettura

Gianni Berengo Gardim alla presentazione della rassegna a lui dedicata, ospitata in Castello a Udine

 

UDINE. Maestro indiscusso della fotografia di reportage, Gianni Berengo Gardin, novantaquattro anni portati con disinvoltura, espone per la prima volta a Udine per celebrare i suoi 70 anni di carriera, con una importante antologica di 192 fotografie.

Gianni Berengo Gardin. L’occhio come mestiere, questo il titolo della mostra che si è inaugurata ieri nel Castello di Udine, prodotta dal MAXXI di Roma in collaborazione con Contrasto e i Civici Musei di Udine, curata da Margherita Guccione e Alessandra Mauro, coordinata da Silvia Bianco, si propone di attraversare l’intera carriera del fotografo nato a Santa Margherita Ligure, veneziano di adozione e da tempo residente a Milano.

L’esposizione racconta la storia dei tanti luoghi del nostro Paese attraverso scatti sorprendenti, frutto della profonda adesione, mai smentita, ai valori di una fotografia “vera”, non costruita, non manipolata, vissuta con l’integrità di chi le riconosce lo status di “specchio della realtà”.

Infatti, fin dagli esordi fotoamatorali a Venezia, nei primissimi anni Cinquanta, nel contesto del circolo fotografico La Gondola, sotto la guida sapiente di Paolo Monti, tutto il lavoro di Berengo Gardin è costruito attorno all’idea che l’immagine fotografica costituisca uno strumento leale di registrazione delle vicende umane, capace di trasmettere nel modo più diretto e corretto le informazioni, diventando un efficace strumento di conoscenza e di denuncia sociale.

Elia Falaschi © 2024 

Il passaggio al professionismo, dopo un veloce apprendistato osmotico a Parigi, nella metà degli anni Cinquanta, a contatto diretto dei più famosi cantori della Ville Lumiére, da Robert Doisneau a Edouard Boubat, ma soprattutto Willy Ronis, non muterà minimamente questo indirizzo, in cui l’uomo, il sociale, è sempre posto al centro di ogni progetto.

È la poetica enunciata proprio in quegli stessi anni da Henry Cartier-Bresson, nume tutelare di tutta la fotografia di reportage da allora a oggi, che il giovane Berengo Gardin fa sua, insieme ai canoni formali respirati nei primi anni di formazione. «Ho succhiato latte in bianco e nero e il bianco e nero non mi ha mai tradito una volta», ci ha detto recentemente, nel corso di un’intervista rilasciata per il Craf, che è partner ufficiale di questo progetto, e ribadisce il concetto nella preview della mostra udinese quando afferma “i colori distraggono, rimango fedele alla fotografia analogica, che si conserva nel tempo”.

Elia Falaschi © 2024 

E proprio l’adozione delle modalità espressive del bianco e nero e la tradizionale tecnica analogica ai sali d’argento, da cui l’autore non ha mai derogato in favore della praticità dei nuovi media digitali, sono state il corollario di quella originaria scelta di campo, di una visione artigianale della fotografia, vissuta sulle strade del mondo e in camera oscura, in un’idea autoriale che rifugge le lusinghe dell’arte, per prediligere la funzione socio-culturale della professione.

«Sono un fotografo professionista che esegue i suoi scatti con la curiosità e la passione di un fotoamatore – afferma Berengo Gardin – Ho frequentato la città di Udine più volte tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, collaborando con la rivista Julia Gens, coinvolgendo molti studenti che frequentavano il corso di Bruno Zevi a Venezia».

Qualche anno prima il maestro era presente a Spilimbergo con il Gruppo Friulano per la Nuova Fotografia ideato dall’amico Italo Zannier che lo ha voluto premiare nel 1991 in una edizione del Craf per la rassegna Friuli Venezia Fotografia.

La carriera di Berengo Gardin si è sviluppata soprattutto attraverso lo strumento del libro fotografico, a partire dal fondamentale Morire di classe, realizzato insieme alla collega Carla Cerata, raccontando i manicomi lager nel 1968, come quello che a Gorizia un giovane psichiatra, Franco Basaglia, si stava preparando a rivoluzionare.

Da allora ad oggi sono 265 i fotolibri che Berengo Gardin ha dato alle stampe, mettendo a disposizione il proprio archivio da un milione e mezzo di immagini, generando per collazione una storia visuale dell’Italia (ma non solo) di proporzioni monumentali, che solo in parte, ma con grande professionalità, sarà restituita da questa esposizione udinese.

Una selezione che riesce a toccare i punti più rappresentativi della produzione fotografica di Berengo Gardin e dei suoi settant’anni di lavoro, coinvolgendo emotivamente lo spettatore, anche grazie ad un suggestivo allestimento, attraverso degli scatti capaci di registrare la realtà trasformandola in immortali e universali icone.

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