Roald Amundsen: l’uomo dei Ghiacci che conquistò il Polo Sud – Vanilla Magazine

Roald Amundsen: l’uomo dei Ghiacci che conquistò il Polo Sud

Alle tre del pomeriggio un simultaneo “Halt!” risuonò dai conducenti. Avevano esaminato attentamente i loro odometri e tutti hanno mostrato l’intera distanza: il nostro Polo secondo i calcoli. La meta è stata raggiunta, il viaggio è finito

(R. Amundsen)

Asia, Americhe, Oceania, Africa: quasi tutti i continenti del mondo erano stati esplorati in lungo e in largo. Poche erano le aree del globo che gli europei non avevano ancora visitato. Tra queste c’era l’ultimo continente: l’Antartide.

1909 – una notizia iniziò a spargersi per il mondo: l’americano Robert Peary aveva dichiarato di aver raggiunto il Polo Nord. Un’altra grande conquista, sebbene contestata, nel campo delle esplorazioni. Un uomo, tuttavia, rimase particolarmente deluso da quell’annuncio. Era un esploratore norvegese, Roald Amundsen.

Il party di Peary in quello che pensava fosse il Polo Nord – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Nato nel villaggio di Borge (Norvegia), 1872, passati i ventuno anni decise di lasciare gli studi di medicina a favore delle esplorazioni polari. A fine secolo andò in Antartide, rimanendo intrappolato nel ghiacciato Mare di Bellingshausen; partecipò alla prima spedizione in grado di attraversare il Passaggio a Nord-Ovest; dopodiché, vedendo sfumato il piano di arrivare per primo al Polo Nord (la spedizione aveva un fine scientifico; il raggiungimento del Polo serviva ad attirare finanziatori), volgerà il suo sguardo nella direzione opposta.

Ma un piccolo angolo è rimasto

Roald Amundsen nel 1908 – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Studio, programmi, raccolta di fondi, equipaggio ed equipaggiamento durarono un paio d’anni. In una casa nel Bundefjord si progettava quello che sarebbe entrato a far parte dei più grandi viaggi della storia. Il piano era di svernare nella Baia delle Balene, dove avrebbe potuto studiare la ricca fauna, le condizioni meteorologiche e il movimento e la formazione dei ghiacci. Le notizie su quella Baia erano state portate da Shackleton, il quale segnalava il problema del movimento della massa di ghiaccio, che avrebbe fatto andare gli esploratori alla deriva. Quel punto, però, avrebbe permesso ad Amundsen di avvicinarsi il più possibile al Polo, riducendo così la distanza da percorrere in slitta o a piedi.

La Fram, la nave di Amundsen – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Le casse di legno, piene di cibo in scatola, e l’immancabile pemmican venivano caricate sulla nave. Grande attenzione fu prestata alle cibarie, ben sigillate e nutrienti. Il pemmican, tradizionalmente carne secca e lardo, ora era unito a verdure e farina d’avena, che ne aumentavano la digeribilità. Furono caricate le tende, l’abbigliamento, le medicine e tutto il necessario (carta, mazzi di carte da gioco, libri, grammofono e dischi, cancelleria, strumenti musicali, alcolici per risollevare il morale, ecc.). Erano preparati per affrontare il freddo estremo, lo scorbuto e la cecità da neve. Ricevuto l’addio da parte dei reali norvegesi, il 3 giugno la Fram levò l’ancora, lasciandosi alle spalle la Fortezza di Akershus. Fatte alcune tappe per issare a bordo le ultime cose e soprattutto i cani, lasciarono finalmente la Norvegia, per giungere, l’11 gennaio, in vista della Grande Barriera di Ghiaccio.

Lentamente si alzò dal mare fino a trovarci di fronte ad essa in tutta la sua imponente maestosità. È difficile, con l’aiuto della penna, dare un’idea dell’impressione che questo possente muro di ghiaccio fa sull’osservatore che vi si confronta per la prima volta. Nel complesso è una cosa che difficilmente può essere descritta; ma si può capire molto bene che questo muro di 100 piedi di altezza è stato considerato per una generazione come un ostacolo insuperabile per un ulteriore progresso verso sud. Sapevamo che la teoria dell’inespugnabilità della Barriera era stata rovesciata da tempo; c’era un’apertura per il regno sconosciuto al di là di esso”

La Barriera di Ross (foto del 1997) – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Quell’apertura era la Baia delle Balene. I marinai scrutavano con apprensione la Barriera, alla ricerca dell’insenatura. Ed eccola lì, una lunghissima baia. Il ghiaccio faceva largo alla nave, fiera e caparbia, diretta col suo equipaggio verso l’immortalità.

Entrati nella Barriera, bisognava trovare un luogo adatto a stabilire una stazione. Questa avrebbe dovuto essere posizionata là dove il ghiaccio si presumeva fosse ben fissato alla terraferma, dato che andare alla deriva nel Pacifico, su una grossa zattera di ghiaccio, non sarebbe stato un evento auspicabile. Proseguirono, dunque, verso l’interno, ammirando le creste, le cavità e gli archi visibili all’interno della Barriera, fin quando non raggiunsero un buon punto.

La Fram e la Barriera – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Finalmente si poteva scendere dalla nave. Quattro uomini, indossati gli sci e bardati di tutto punto con l’abbigliamento artico, partirono per un primo giro d’ispezione. Il cielo era limpido e il sole regalava un gradevole tepore anche alle foche che sonnecchiavano al bordo della barriera. L’accampamento fu stabilito nella valle innevata tra il Monte Nelson e il Monte Rönniken, su un piccolo rilievo. Il gruppo tornò, dunque, alla nave, portando la lieta notizia ai propri compagni, mentre numerosi pinguini di Adelia osservavano curiosi i loro movimenti.

Il giorno dopo tornarono alla valle, dove montarono due tende, a due chilometri circa di distanza l’una dall’altra. Nella seconda tenda andarono a vivere i falegnami e Amundsen, che avrebbero dovuto montare una capanna dove un gruppo avrebbe svernato. Il lavoro non mancava. Scarichi, faccende varie, trasporti (strumenti, bagagli, legna, petrolio, carbone, cibarie, ecc.), costruzione della capanna. Appena si aveva l’occasione si andava a caccia di foche (e quando si avvicinavano non ci si lasciava scappare i pinguini imperatore) e la sera si riparava alla tenda o alla capanna dove ci si godeva un buon pasto in compagnia, al lume di una lampada Lux e al calore di una stufa.

Il fumo si levava allegramente dal nero e splendente camino, e proclamava che ora la Barriera era veramente abitata. Com’era piacevole, quando siamo venuti in slitta dopo la giornata di lavoro, vedere quel fumo che si alzava nell’aria. E’, in realtà, una piccola cosa, ma significa comunque tanto

La base di Amundsen (denominata Framheim) – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Il 4 febbraio un evento curioso scosse la placida permanenza dei norvegesi. La Terra Nova era arrivata alla Baia. Robert Falcon Scott era in Antartide, ma aveva preso una via diversa da quella di Amundsen. Difatti i due non si erano incontrati. Gli ufficiali delle due navi si scambiarono i convenevoli e consumarono qualche pasto; poi ognuno per la sua strada.

La mattina del 10 febbraio iniziarono i viaggi per il posizionamento dei depositi di viveri. L’estate successiva avrebbero tentato la grande impresa. Quattro uomini, tra cui lo stesso Amundsen, partirono con tre slitte cariche di viveri (pemmican, carne di foca, lardo, pesce essiccato, cioccolato, margarina e biscotti) e manufatti (tra cui tende, sacchi a pelo, utensili da cucina e bandiere per segnalare la via).

Non potevamo dire, nemmeno approssimativamente, quanto tempo sarebbe durato il viaggio, poiché tutto era sconosciuto

La Terra Nova nel 1911 – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Dovevano affrontare quella immensa distesa di ghiaccio che è la Barriera. Non avevano esperienza, solo le informazioni prese dai libri. I cani trainavano le slitte attraverso piane e collinette innevate, talvolta finendo ribaltati. Dopo qualche giorno arrivarono all’Ottantesimo parallelo. Lì eressero il primo deposito, poi tornarono alla base. Nelle settimane successive si dedicarono alla creazione di altri depositi, sopportando una temperatura che andava oltre i 40 gradi sotto zero. Ma ciò che metteva più ansia nell’animo dei viaggiatori era il pericolo che questi depositi venissero sepolti dalla neve. Per questo si portarono dietro delle bandiere, che avrebbero segnalato in futuro la presenza di viveri agli esploratori. Un gran numero di queste fu posizionato, e quando finirono vennero usati pezzi di legno ricavati dalle casse, sparsi in una sconfinata piana innevata. In caso di nebbia, perdersi sarebbe stato pericoloso e avrebbe certamente compromesso la spedizione. Ma a preoccuparli c’erano anche i crepacci, spesso invisibili a causa della nebbia.

Si arrivò così ad Aprile. Le giornate erano sempre più corte; il sole sorgeva e spariva poco dopo. La sera si ascoltava un po’ di musica, ci si fumava un sigaro e si beveva un buon bicchiere di toddy. Durante il giorno si facevano osservazioni meteorologiche e si pensava alle faccende quotidiane. L’inverno era ormai giunto. La notte polare era alle porte. “Il 19 aprile abbiamo visto il sole per l’ultima volta; da allora è andato sotto il nostro orizzonte, la cresta a nord. Era rosso intenso e circondato da un mare di fiamme, che non scomparve del tutto fino al 21”. L’inverno durò circa quattro mesi, durante i quali ampliarono gli spazi di lavoro, ne costruirono altri, aggiustarono gli strumenti, trattarono le carcasse congelate delle foche catturate precedentemente, si occuparono dell’abbigliamento e delle slitte, facevano osservazioni scientifiche e imballavano le provviste. Non dovevano cedere alla noia: il morale ne avrebbe risentito troppo e avrebbe messo a rischio l’impresa.

Un deposito – immagine di Nasjonalbiblioteket sotto licenza CC BY 2.0 via Wikipedia

Fu un inverno lungo e freddo. Le temperature raggiunsero i -58°C. Ogni tanto si poteva ammirare l’incantevole e variopinta Aurora Australe. Il 24 agosto riapparve finalmente il sole, ma le temperature erano ancora troppo basse per permettere una partenza, e l’ansia provocata dal pensiero della presenza di Scott, arrivato chissà quanto lontano, assaliva costantemente la mente di Amundsen. Appena il clima lo permise, Roald non perse tempo e deliberò di partire. Era l’8 settembre.

Il nostro obiettivo era raggiungere il Polo

Aurora Australe in Antartide – foto di Samuel Blanc – immagine sotto licenza CC BY-SA 3.0 via Wikipedia

Le vetture erano pronte. Fatta colazione, imbrigliati i cani alle slitte e caricate le ultime cose, si prese il via. Il percorso era tracciato e le slitte andavano spedite, rallentate talvolta dalle rivalità che scoppiavano tra i cani delle diverse squadre; dai crepacci, in cui una slitta rischiò di perdersi; e dai picchi di freddo, che rendevano pericoloso il procedere della spedizione: il 12 settembre il termometro registrò -52°C, una temperatura troppo bassa per i cani, che furono trovati raggomitolati nel modo più stretto possibile, col corpo percorso da brividi di freddo.

Non potevano neppure contare sulle bussole, il cui fluido si era congelato; e cosa ancora peggiore, a essersi congelato fu anche il Gin, la cui bottiglia esplose in fase di scongelamento, provocando ai cani frequenti starnuti. Dovevano fermarsi. Costruirono rifugi con la neve e vi si ripararono. Il 14 raggiunsero il primo deposito. Non era ancora il momento di andare oltre. Scaricate le slitte, si prese la via del ritorno. Alcuni cani furono abbandonati e mai più visti (un gran numero di loro perderà la vita durante il viaggio, anche in modo atroce). Presto il gruppo raggiunse il punto di partenza. I piedi degli esploratori erano congelati, ma fortunatamente nulla di eccessivamente grave. Qualche incisione sulle vesciche, impacchi giornalieri e la situazione era risolta. Ora bisognava aspettare la primavera, pervenuta alla fine del mese. Il 19 ottobre si partì nuovamente. La nebbia mattutina pian piano si diradava, mentre la brezza accarezzava la capanna da est.

Il percorso di Amundsen – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Eravamo in cinque: Hanssen, Wisting, Hassel, Bjaaland e io. Avevamo quattro slitte, con tredici cani ciascuno… Giù sul ghiaccio marino c’era Prestrud con il cinematografo, girando la manovella il più velocemente possibile mentre passavamo. Quando siamo arrivati ​​alla Barriera dall’altra parte, lui era di nuovo lì, girando incessantemente. L’ultima cosa che ho visto, mentre superavamo la cima del crinale e tutto ciò che ci era familiare è scomparso, è stato un cinematografo; stavo arrivando nell’entroterra a tutta velocità

Si procedeva spediti, forse anche troppo. Se avessero perso il controllo della slitta sarebbero caduti in un profondo crepaccio, che avrebbe posto fine alla spedizione e alla vita di Amundsen. Per un soffio si salvarono. Percorsi circa ventisette chilometri, si fermarono per montare la tenda. Dopo un po’ di riposo, ripartirono, proseguendo fino a sera. Il giorno dopo dovettero affrontare una bufera di neve. Il vento li rallentava ulteriormente e come se non bastasse la visibilità si era abbassata.

All’improvviso abbiamo visto la slitta di Bjaaland affondare

Una delle slitte – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

L’uomo e i cani cercavano di resistere. Questi ultimi erano ancora legati alla slitta e cercavano di aggrapparsi con tutte le forze alla neve, mentre Bjaaland era riuscito a saltare e ora tentava di impedire che la vettura cadesse nell’abisso. Quando tutto sembrava perduto, arrivarono gli aiuti. Gli altri membri della spedizione erano sopraggiunti. Wisting si calò nel crepaccio e assicurò i bagagli, che furono portati su; poi issarono la slitta.

Poco dopo sarà lo stesso Wisting a cadere, riuscendo, tuttavia, ad allargare le braccia in tempo, evitando di sprofondare in quel baratro senza fondo. Diverse volte rischiarono la pelle in questo luogo, che chiamarono “La Trappola” e che si erano rifiutati di aggirare, pur di non perdere altro tempo. “Crepacci correvano in ogni direzione, come una lastra di vetro rotta”. A un certo punto si resero conto che la pericolosità del luogo era eccessiva; dunque, si voltarono e raggiunsero il perimetro di quella che scoprirono essere una conca. La Trappola era superata. Presto sarebbero arrivati al deposito, dove finalmente avrebbero potuto rifocillarsi e riprendersi dalla fatica.

“Il 6 novembre, alle 8 del mattino, siamo partiti dall’82º S. Davanti a noi c’era l’ignoto”

Nelle montagne – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Erano ancora in quella massa piatta e bianca che è la Barriera. Ma la terraferma si avvicinava. Le alture si stagliavano all’orizzonte, sovrastate da grossi cumuli di grigie nubi, mentre il forte boato del movimento dei ghiacci rendeva tesa l’atmosfera. Erano i Monti Transantartici, raggiunti tra il 14 e il 15 novembre. Da oltre un anno non toccavano terra. Lasciato un messaggio ai piedi delle montagne, indicante informazioni sul percorso che avrebbero intrapreso e sul bagaglio delle slitte, iniziarono la scalata. Era il 17 novembre.

Il tempo era promettente; i cani trainavano le slitte senza grosse difficoltà, evitando i ben visibili crepacci e risalendo i ripidi pendii, coperti talvolta di neve bruna e rossastra. Ci si fermava e si esploravano i dintorni, alla ricerca di un facile passaggio. Un po’ di cioccolata calda e si ripartiva. Attraversato uno stretto passaggio si ritrovarono in uno spiazzo, dal quale poterono ammirare lo spettacolo delle candide Montagne Trans-Antartiche. Ma non potevano restare ad ammirare il panorama troppo a lungo. Dovevano prepararsi alla discesa. Il pericolo era di perdere il controllo delle slitte, per questo dovevano discendere lentamente e prestando molta attenzione. Appena raggiunsero un altopiano all’Ottantaseiesimo approntarono un deposito. Dopo aver superato altre creste e crepacci, il gruppo si ritrovò su un altro altopiano. Il Polo era a portata di mano. Era il 4 Dicembre.

I sastrugi – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Sfidando la bufera di neve la marcia proseguì imperterrita. Erano nella zona dei sastrugi, dure formazioni di neve create dal vento (simili a dune), odiate dagli esploratori, in quanto le irregolarità rendevano difficile l’avanzata e facile la caduta, considerando l’ingombro dell’abbigliamento artico e dell’attrezzatura. Ma dopo un paio di giorni la superficie si era appiattita nuovamente. Nelle slitte furono issate le bandiere norvegesi.

Da tempo ero caduto in una fantasticheria, molto distante dalla scena in cui mi stavo muovendo; a cosa pensassi ora non ricordo, ma ero così preoccupato che avevo completamente dimenticato ciò che mi circondava. Poi all’improvviso fui destato da un grido di giubilo, seguito da applausi. Mi voltai rapidamente per scoprire il motivo di questo avvenimento inusuale, e rimasi senza parole e sopraffatto. Trovo impossibile esprimere i sentimenti che mi hanno posseduto in questo momento. Tutte le slitte si erano fermate, e dalla prima sventolava la bandiera norvegese… l’88º 23′ era passato; eravamo più a sud di quanto lo fosse stato qualsiasi altro essere umano

Una piccola pausa – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Amundsen si era leggermente distaccato dal gruppo, era solo e immerso nei suoi pensieri, col volto imbruttito dalle piaghe e dalla fatica, solcato da intrattenibili lacrime. Solo Shackleton era arrivato così lontano, così a Sud. Tutti erano in festa. Tutti si erano dimenticati della stanchezza; il morale era più alto che mai. Ricompostosi, Roald tornò dagli altri. Si strinsero le mani e si congratularono l’un l’altro. C’erano riusciti insieme, ma la sfida non si era ancora conclusa. La meta era ancora più a Sud. Si accamparono, adibirono un deposito e ripartirono. La tensione era palpabile, si sentivano come bambini la notte della Vigilia di Natale. Si discuteva sull’ora in cui sarebbero giunti a destinazione. Sapevano che il giorno sarebbe stato il 14 dicembre. E così fu.

Wisting è arrivato al Polo – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Ognuno cercava di allungare il collo per vedere il più lontano possibile in quella piana sconfinata. “Il collo di Hanssen crebbe il doppio nel suo sforzo di vedere qualche centimetro più lontano”. Qualche nuvoletta copriva il cielo, mentre il sole si affacciava tra di esse, accarezzando insieme alla brezza i volti quasi completamente coperti degli esploratori.

Alle tre del pomeriggio un simultaneo “Halt!” risuonò dai conducenti. Avevano esaminato attentamente i loro odometri e tutti hanno mostrato l’intera distanza: il nostro Polo secondo i calcoli. La meta è stata raggiunta, il viaggio è finito

Oscar Wisting, Olav Bjaaland, Sverre Hassel e Roald Amundsen al Polo Sud – immagine di Nasjonalbiblioteket sotto licenza CC BY 2.0 via Wikipedia

Con fare solenne, tutti insieme piantarono la bandiera norvegese e dedicarono quella piana al re Haakon VII. Ma Amundsen non era soddisfatto. Certo aveva compiuto un’impresa straordinaria, era entrato nella storia, ma una cosa gli lasciava ancora l’amaro in bocca. Non aveva soddisfatto il sogno della sua vita, il sogno di quand’era bambino: raggiungere il Polo Nord. Ironia della sorte era divenuto il primo a toccare il Polo Sud.

Così ti piantiamo, amata bandiera, al Polo Sud

Membri della spedizione al Polo Sud di fronte alla tenda – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

Una piccola tenda fu piantata. Al suo interno Amundsen lasciò una lettera per Scott, da consegnare al Re norvegese, contenente la lieta notizia, e una lettera dedicata allo stesso Scott, insieme ad alcuni strumenti. Una tavoletta di legno con incisi i nomi dei pionieri fu attaccata al palo della tenda, nella quale trovarono dei messaggi lasciati dai compagni lasciati alla partenza: “Benvenuti al 90°”. Dato un ultimo saluto al Polo, ripartirono alla volta di casa. Mentre si allontanavano lo sguardo continuava a volgersi indietro. Tornati alla nave si diressero in Tasmania, da dove inviarono subito la notizia a tutto il mondo.

I viaggi antartici della spedizione Terra Nova di Scott (verde), che perirà durante l’impresa, e della spedizione di Amundsen (rosso) – immagine di pubblico dominio via Wikipedia

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