Il mio posto è qui, film: Intervista Bortone e Porto, trama, temi- The Wom
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Il mio posto è qui: Intervista esclusiva ai registi Daniela Porto e Cristiano Bortone

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Il mio posto è qui è un film che sfrutta il passato per parlare al presente grazie alla storia di due emarginati che nell’Italia del dopoguerra diventano l’uno il sostegno dell’altro. Emancipazione, libertà e lotta contro i pregiudizi alcuni dei temi che abbiamo affrontato con i due registi, Daniela Porto e Cristiano Bortone.

Incontrare Cristiano Bortone e Daniela Porto, registi del film Il mio posto è qui, al cinema dal 9 maggio grazie ad Adler Entertainment, e coppia nella vita di tutti i giorni, è immergersi in un dialogo vibrante sulla passione e l'artigianalità del cinema. Cristiano Bortone apre la conversazione sottolineando un approccio al cinema che predilige la curiosità e un pizzico di follia, piuttosto che la ricerca di fama e riconoscimenti. Questo ethos si riflette chiaramente nel loro ultimo progetto, Il mio posto è qui, un film che trascende i confini temporali per toccare questioni di emancipazione femminile e pregiudizio.

La trama del film Il mio posto è qui, originata da un romanzo scritto da Daniela Porto e pubblicato da Sperling & Kupfer, si ispira a un racconto tramandato dalla madre, su un uomo omosessuale nella Calabria degli anni '60. Questo personaggio, che nella realtà aiutava le donne a organizzare i loro matrimoni, nel film diventa un simbolo di libertà e diversità, incontrando Marta, una giovane madre single, in un'epoca cruciale post-bellica.

Siamo all’indomani della fine della Seconda Guerra mondiale, in un piccolo paese calabrese, quando l’incontro tra Marta (Ludovica Martino), ragazza madre promessa in sposa a un uomo che non ama, e Lorenzo (Marco Leonardi), l’omosessuale locale conosciuto come “l’organizzatore dei matrimoni”, fa nascere una profonda amicizia che porta la giovane ragazza a sfidare i pregiudizi della comunità che li circonda e a lottare per trovare il proprio posto nel mondo come donna.

La decisione di trasformare questo racconto in un film nasce da un profondo legame personale e professionale che Bortone e Porto condividono, unitamente al desiderio di esplorare temi rilevanti attraverso un medium potente come il cinema. Nonostante le sfide e le iniziali resistenze, la loro visione comune emerge chiaramente attraverso la loro collaborazione sinergica.

Il mio posto è qui è un film che si distingue non solo per la sua narrazione potente ma anche per il cast scelto con cura, con Ludovica Martino e Marco Leonardi che portano autenticità e profondità ai loro personaggi. Il casting di Ludovica come Marta è particolarmente significativo, simboleggiando una nuova generazione di attrici capaci di affrontare ruoli complessi e sfidanti.

Il mio posto è qui non è solo un'opera cinematografica; è un dialogo aperto su temi di attualità come il genere, l'identità e la resistenza contro gli stereotipi. Bortone e Porto ci invitano a riconoscere e celebrare la diversità attraverso il loro film, rendendolo un importante contributo culturale e sociale nel panorama cinematografico italiano.

Cristiano Bortone e Daniela Porto sul set del film Il mio posto è qui.
Cristiano Bortone e Daniela Porto sul set del film Il mio posto è qui.

Intervista esclusiva a Daniela Porto e Cristiano Bortone

“Facciamo questo lavoro, quasi una fortuna, per amore di ciò che facciamo, nel bene e nel male: che siano progetti più impegnati o pop corn movie, lo portiamo avanti con curiosità e un pizzico di follia, non per stare sotto i riflettori o ricevere gli applausi”, esordisce Cristiano Bortone quando lo incontro insieme a Daniela Porto per parlare di Il mio posto è qui, il film di cui entrambi sono registi. La risposta di Bortone arriva quasi subito quando gli faccio notare come davanti a me ci sia uno dei produttori e registi che più hanno riscontrato successo all’estero, soprattutto in Cina, con titoli come 10 regole per fare innamorare, La ricetta italiana o Rosso come il cielo.

Altri, al suo posto, avrebbero riempito le caselle mail degli operatori di settore con decine e decine di comunicati: “Non ci appartiene come modus operandi. Vale sia per me sia per Daniela, dopo tanti anni insieme siamo praticamente simbiotici”, aggiunge.

Il mio posto è qui è un film ambientato nel passato ma che parla al presente. Permette di riflettere sull’emancipazione femminile ma anche sul pregiudizio, sugli stereotipi e sulle etichette che apponiamo sopra a ogni cosa. È frutto di un romanzo di Daniela: cosa ha dato origine all’idea?

DP: Entrambi i miei genitori sono calabresi, ragione per cui amo e al contempo odio la Calabria, regione che ha un posto particolare all’interno della storia d’Italia. Il romanzo nasce da un racconto, molto blando, tramandatomi da mia madre su un uomo realmente esistito che, riconosciuto omosessuale da tutti quanti, negli anni Sessanta aiutava le ragazze del posto a organizzare il giorno del loro matrimonio. Mia madre me ne parlava quasi con un po’ di invidia: anche se era omosessuale, aveva la libertà di fare ciò che voleva perché comunque era un uomo, una libertà che lei donna invece non poteva vivere appieno.

Dalle parole dal sapore un po’ amaro di mia madre, ho cominciato pian piano a dare vita a una storia completamente diversa da quella che mi raccontava. Rimaneva al centro il personaggio dell’omosessuale ma ho pensato di farlo incontrare con una ragazza madre sullo sfondo dell’Italia che usciva dalla Seconda guerra mondiale: l’anno scelto per la vicenda è il 1946, cruciale per la storia del nostro Paese, alle prese con promesse e sogni che dopo non sarebbero stati mantenuti ma traditi. È nata così la vicenda di due emarginati che insieme intraprendono un cammino di amicizia e di scoperta in un momento peculiare.

Quando avete cominciato a pensare di trasformare il libro in film, non era ancora arrivato in sala C’è ancora domani di Paola Cortellesi, con cui ovviamente ci sono dei punti in comune, a cominciare dall’anno in cui tutto si svolge.

DP: Dal momento che fino a poco tempo fa non mi potevo fregiare del titolo di scrittrice, ero semplicemente una filmmaker, ho scritto il romanzo nel tempo libero quando riuscivo a mettermi alla scrivania e a dar vita alla storia che avevo in mente. Ho iniziato a farlo almeno sei anni fa…

CB: Non mi aveva fatto leggere nulla fino allo scorso anno. La riteneva una stupidità ma, quando ho letto quelle pagine, mi sono ritrovato di fronte a una storia stupenda, talmente bella che Mondadori ha deciso poi di pubblicarla come romanzo. Quando è uscito il trailer del film, qualcuno ci ha sottolineato come stesse diventando di moda il 1946, come se fosse ai suoi occhi un’onda da cavalcare. Ma, non volendo fare a tutti i costi il professore, ricordo a chi ha espresso quel genere di commento che un film non si realizza da un giorno all’altro. Quindi, anche volendo, non avremmo mai potuto prendere spunto dal film di Paola Cortellesi: il tutto era stato scritto e sviluppato prima.

Trovo semmai interessate il fatto che si sia creato n questo particolare momento un movimento cinematografico e letterario di riscoperta di certe tematiche. Evidentemente, non è un caso: nella nostra società c’era o c’è qualcosa che spinge in quella direzione.

Da produttore, oltre che coregista, cosa ti ha convinto a trasformare il romanzo in un film?

CB: Prima di qualsiasi altro ragionamento, il fatto che l’avesse scritto mia moglie. In un universo in cui tutti vogliono far film per andare a Hollywood o vincere l’Oscar, per me esistono altri valori fondamentali a cui tenere molto. Tra questi, per me, ci sono il lavoro e i sentimenti. E si è rivelato un’avventura meravigliosa poter condividere con lei non solo il nostro percorso di vita, una figlia e una casa, ma anche ideali, idee e passioni.

In qualche modo, è stato emozionante mettere insieme le nostre forze per creare un film, che per un regista equivale a un figlio. Quando abbiamo paventato l’idea, di resistenze ce ne sono state: erano in molti a dire che eravamo pazzi o che avremmo finito con il divorziare. Ma abbiamo puntato sulla nostra sicurezza di coppia, dandoci però delle regole come il non contraddirsi mai l’uno con l’altro sul set davanti agli altri.

Poi, mi ha spinto anche il desiderio di cimentarmi ancora una volta con un’opera che fosse differente dalle precedenti che avevo realizzato. L’ho sempre fatto e lo considero una ricchezza: in Italia c’è purtroppo la tendenza a inscatolare anche gli autori ma io ho cercato di non farmi mettere nessuna etichetta addosso. Il perché è semplice: sono curioso della vita, del mondo e dell’universo, e cerco di assaggiare sapori che siano ogni volta diversi.

Ciò che accomuna i miei lavori è la libertà della diversità. Anche se tutte le storie che ho presentato sono di grandi sentimenti, di grandi emozioni, di riscatto e di piccoli personaggi che lottano. Forse il mio psicanalista potrebbe trovarci del materiale interessante (ride, ndr) ma amo le storie di piccoli personaggi che sullo sfondo della grande Storia lottano per i propri sogni e per la propria identità. Mi emozionano storie di personaggi veri, di sentimenti e di interpreti, e Il mio posto è qui aveva tutti i requisiti che cerco: mi ha toccato leggere la storia di questa ragazza madre, la sua battaglia e la sua voglia di farcela… aveva quasi il gusto di un certo tipo di cinema americano, quello indipendente degli ani Settanta, su cui mi sono formato.

Il poster del film Il mio posto è qui.
Il poster del film Il mio posto è qui.

Quella di Marta nel film Il mio posto è qui è la storia di una donna che reclama il suo diritto a essere libera e indipendente. Daniela, cos’è la libertà per una donna oggi, al suo primo film da regista?

DP: Libertà, vale per gli uomini ma soprattutto per le donne, è prima di tutto avere la tranquillità che molte cose non vengano fraintese. Ci si deve sentire libere di comportarsi come meglio si crede senza che venga subito appiccicato addosso un giudizio, senza che ci si senta dire di essere una ragazza dai facili costumi perché troppo esuberante o, come nel mio caso, di essere troppo aggressiva solo perché credo in ciò che faccio. Quando si parla di noi donne, c’è sempre un qualcosa che viene ritenuto “troppo”, come se ci fossero delle limitazioni sul comportamento femminile in base alla visione che ne ha un uomo e, quindi, dovremmo stare ancora rinchiuse in certi limiti ed evitare di parlare troppo in alcune situazioni.

Libertà, poi, per una regista è riuscire a raccontare una storia dal suo punto di vista senza che questa venga ritenuta “al femminile”, come se la sensibilità interessasse solo a un determinato pubblico e non a tutta la totalità. Eppure, io sono cresciuta leggendo storie di qualsiasi tipo, da quelle dei pirati ai romanzi di formazione, e riesco a immedesimarmi in un milione di personaggi diversi. Perché un uomo non potrebbe farlo? Cos’ha la storia, ad esempio, di Marta che un uomo non potrebbe capire? O perché non dovrebbe riguardarlo? Che cosa vuol dire “storia al femminile”?

CB: A proposito di etichette, quando abbiamo cominciato a lavorare a Il mio posto è qui, abbiamo anche ricevuto il “no” di tanti attorno a noi per un film come questo: ‘Un dramma storico ambientato negli anni Quaranta a chi può interessare? È qualcosa di vecchio, la gente non si identifica’ era il commento. Fortunatamente, il film di Paola Cortellesi ha dimostrato che si possono anche realizzare storie ambientate nel passato per raccontare di storie moderne e di tematiche che, purtroppo, non sono state del tutto metabolizzate.

Viviamo in un’epoca dove, nella migliore delle ipotesi, non abbiamo ancora assorbito determinate questioni e dove, nella peggiore delle ipotesi, stiamo anche facendo molti passi che rischiano di ricondurci indietro, come sta realmente accadendo in molti Paesi. Raccontare una storia come questa non è mai banale e non sa di sentito già: è importante mantenere la coscienza su chi siamo, da dove veniamo e dove stiamo andando.

Il ruolo di Marta è stato dato a Ludovica Martino, simbolo della Gen Z. Perché questa scelta?

CB: Un film è bello fondamentalmente quando gli attori sullo schermo sono meravigliosi e permettono allo spettatore di rimanere affascinato. Il cinema, al di là di tutto, permette di indentificarsi con la finzione della vita e sullo schermo solo i grandi attori ci riescono. Avevamo una grande sfida davanti a noi: in un mondo in cui ci si lamenta che non ci sono ruoli femminili protagonisti, noi avevano una protagonista pazzesca che passa attraverso tutta una serie di sfide, dal dialetto alla fisicità, ma quante sarebbero state le attrici italiane ventenni in grado di farlo? È questa la domanda che io e Daniela ci siamo posti quando cercavamo la nostra attrice e abbiamo chiesto al casting che non fosse uno dei volti che periodicamente si ripete nel cinema italiano.

DP: Quando la direttrice del casting Anna Pennella ci ha proposto Ludovica Martino, siamo rimasti inizialmente sorpresi: oggettivamente, non era nei nostri pensieri per tutta una serie di fattori. Chiaramente, sapevamo che era una professionista ma è un po’ il simbolo delle ragazze degli anni 2020 e ha una fisicità che a prima vista non associ a una ragazza del meridione. Ma, dopo aver letto la sceneggiatura, Ludovica in un incontro online (all’epoca, vigevano ancora le restrizioni per il CoVid) ha cominciato a parlare del personaggio in maniera così approfondita da dimostrare di aver capito tutto: aveva già individuato i punto deboli, dei passaggi non detti e le evoluzioni emotive di una giovane ragazza dell’epoca all’inizio ben radicata nella cultura dell’epoca.

Così facendo, ho capito che Ludovica non avrebbe tradito la mia idea di Marta e che l’avrebbe interpretata al meglio delle sue possibilità. Quando un attore è intelligente porterà sempre dentro al personaggio un extra in più, qualcosa che Ludovica ha fatto.

CB: Sia Ludovica Martino sia Marco Leonardi nel ruolo di Lorenzo sono stati meravigliosi: è tutto fantastico quando lavori con due persone con cui puoi parlare, costruire insieme e improvvisare. Sono due scelte che rifaremmo altre cento volte. Basterebbe vedere il modo in cui ad esempio Ludovica ha studiato il dialetto o si è prestata per una sequenza a vestirsi da uomo: abbiamo scelto gli attori che piacevano a noi e le interpretazioni che più rispondevano ai requisiti che richiedevamo… con altri, il risultato non sarebbe stato lo stesso.

Marco Leonardi è un perfetto Lorenzo.

CB: Abbiamo riflettuto molto sul personaggio, sull’età e sulla sua connotazione. Ma su una cosa eravamo concordi: dovevamo dargli dignità. Non poteva essere la caricatura troppe volte vista anche al cinema, non sarebbe stato credibile: ricordiamoci che la storia ha luogo a pochissimo tempo di distanza da quando i gay venivano deportati e, quindi, non era pensabile un omosessuale vistoso in un piccolo paesino della Calabria. Per lui, ci siamo vagamente ispirati al Marcello Mastroianni di Una giornata particolare: un uomo molto elegante, raffinato e anche cosciente di se stesso. Marco ha fatto un ottimo lavoro nel riuscire a donargli quegli elementi che possiamo definire di femminilità maschile ma in un contesto molto dignitoso. Gli ha dato poesia e spessore.

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Il mio posto è qui è anche un film di donne: ce ne sono tante e molto diverse tra loro, dalla madre di Marta alla suocera o alla sorella. Sono tutte archetipo dell’aiutante o dell’oppositore. Daniela, come hai pensato ai personaggi femminili?

DP: Mi sono attenuta al fatto che la realtà è sempre molto variegata: non volevo una donna eroina e tutte le altre prive di mordente. Necessitavo di un’antagonista forte e questa non poteva essere che la madre, una donna che non necessariamente desidera il male della figlia ma che a modo suo prova a mettere a posto una situazione che a quel tempo era impensabile o impraticabile.

Ma ho voluto che anche le altre donne fossero un po’ fuori da ogni schema, come nel caso di Dora, la “suocera” di Marta che, rimasta sola dopo la morte del figlio Michele, esce fuori dal cliché della suocera e mostra sentimento e cuore per aiutare la nostra protagonista. A proposito di personaggi femminili, non posso non ricordare quello di Bianca (interpretato da Giorgia Arena, ndr), la ragazza che insegna dattilografia a Marta… è una donna sola per via delle difficoltà legate al suo essere troppo emancipata, troppo forte e dalle vedute troppo ampie rispetto a quegli anni. Anche all’interno del Partito Comunista la sua apertura e i suoi insegnamenti non erano proprio ben visti, era pur sempre una donna. O quello della sorella di Marta, che va incontro a un’evoluzione interessante nel corso del film.

Cristiano, il film racconta di un contesto culturale in cui, al di là di ogni stereotipo, a dimostrare apertura nei confronti di Lorenzo sia la Chiesa.

CB: Diciamo che è insolito vedere la Chiesa accogliere un omosessuale in un periodo in cui quell’orientamento sessuale era fortemente stigmatizzato. Ma, come diceva Daniela, abbiamo cercato di evitare il più possibile stereotipi ovvii e di creare personaggi che avessero una loro verità al di là di essi. Come nella realtà, non esistono i buoni e i cattivi, una polarizzazione che è difficile anche oggi stabilire: in mezzo, ci sono un’infinità di sfumature.

È anche la ragione per cui certi esponenti del Partito Comunista si rivelano essere delle persone squallide anche di fronte ai grandi ideali che portano avanti o per cui a livello sociale, nell’idea che avevano della donna o dell’omosessuale, erano altrettanto conservatori degli esponenti di centrodestra.

DP: Leggevo qualche tempo fa un articolo in cui si faceva notare come nei comizi si esortavano le donne ad andare a votare ma come il loro coinvolgimento fosse sempre finalizzato alla difesa della famiglia tradizionale, in cui l’uomo andava a lavorare e loro rimanevano in casa.

CB: Per non parlare poi di come erano considerati gli omosessuali dal Partito Comunista, del tutto omofobico: l’omosessualità era un tabù. Si è dovuto aspettare trent’anni prima che venisse “sdoganata” grazie al fatto che il movimento femminista si è saldato con quello degli omosessuali per portare avanti una battaglia comune. Il pregio del lavoro di Daniela è stato quello di aver anticipato politicamente le battaglie facendone assurgere a simbolo Lorenzo e Marta.

Daniela, nel rappresentare l’omosessualità di quegli anni si racconta un aspetto che finora non abbiamo mai visto in un film italiano: i circoli di campagna in cui si riunivano le persone della comunità queer. Ti sei documentata a proposito?

DP: Assolutamente. Ci sono state due fonti che mi hanno aiutato molto: un sito internet e un programma di interviste in cui dei nipoti intervistavano i nonni, che raccontavano la loro gioventù, le loro esperienze e anche della loro omosessualità. I problemi che evidenziavano a tal proposito erano due: prima di tutto, accettarsi e, dopo, capire come fare per incontrare altri omosessuali, soprattutto nelle comunità più piccole e contadine. I circoli di campagna permettevano loro di concretizzare una loro normalità, sì nascosta ma non osteggiata. Una scoperta per me interessante è stata ad esempio quella legata ai primi anni del fascismo, per cui nei confronti degli omosessuali c’era una certa tolleranza: se si facevano gli affari propri e non erano così evidenti agli occhi degli altri, potevano trovare un loro spazio. Ragione per cui spesso i circoli di campagna non venivano disturbati…

CB: Si trattava di una forma di lassismo che comunque non era permessa alle donne, considerate sempre inferiori, a cui non era consentito uscire dagli schemi prefissati di madre, moglie o oggetto per il potere maschile, come il patriarcato o la moralità della religione imponevano.

La Calabria rappresentata non è quella da cartolina. Scelta coraggiosa, se vogliamo.

DP: Ho ambientato la storia nella parte di Calabria che conosco io, quella di mio padre. Uomo del 1934, ha vissuto un’altra epoca rispetto alla mia, abitava in un paesino arroccato sulla montagna, lontano dalle località marittime in cui oggi andiamo a trascorrere le vacanze. E quella lì era una terra aspra, difficile anche da coltivare, come aveva imparato da bambino. Dura e scontrosa, è una natura abbastanza complicata da domare… avremmo anche voluto girare anche in un posto ancora più ostico da raggiungere ma per le complicazioni produttive che ci dava abbiamo desistito dal proposito pur rimanendo in Aspromonte, a Gerace, in un luogo poco contaminato dalla modernità che ha mantenuto la sua autenticità.

CB: Originariamente, l’ambientazione doveva essere ancora più dura. Dalla grandissima ricerca iconografica fatta, il Meridione italiano del Dopoguerra non era per nulla quello descritto in maniera quasi romantica dalla fiction televisiva: sembrava semmai l’America dopo la Grande Depressione, dove la gente viveva come i tanti migranti che adesso vengono dai Paesi meno fortunati del nostro. Era un luogo di disperazione.

Ed è in mezzo alla natura che avvengono alcuni dei risvolti più drammatici della storia. Una natura matrigna, per dirla à la Leopardi?

DP: La natura in quei paesi faceva parte integrante della vita quotidiana. La terra era quella che dovevi lavorare se volevi mangiare, un’idea tanto radicata che anche mio padre quando negli anni Ottanta comprò un appezzamento non diceva mai ‘andiamo in campagna’ ma ‘andiamo alla terra’…

Il film esce in sala il 9 maggio. Perché andare a vederlo?

CB: Perché penso che sia un film molto emozionante: si va in sala per vivere due ore di grande emozione in grado di toccarti nell’animo e spingere a riflettere su alcune tematiche non solo mentalmente.

DP: Sono convinta che lasci anche un messaggio di speranza e di positività: anche le situazioni più drammatiche si possono cambiare contando sull’aiuto degli altri, qualcosa in cui credo molto. Sono convinta che il valore dell’amicizia sia fondamentale: per una donna che oggi, ad esempio, vuole divorziare o scappare via da un uomo violento ma economicamente non ha la possibilità di farlo l’aiuto degli altri è importante.

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