Duello a Berlino

Ironico e sagace fin dal titolo, The Life and Death of Colonel Blimp, ovvero Duello a Berlino nella versione italiana, è il primo film a colori degli Archers, è una delle vette creative del sodalizio tra Powell e Pressburger ed è soprattutto la lampante dimostrazione di una straordinaria freschezza estetica e narrativa che dagli anni Quaranta a oggi non è minimamente sbiadita.

War starts at midnight!

Quarant’anni di storia dell’Europa, dalla guerra anglo-boera al secondo conflitto mondiale, attraverso l’amicizia tra un ufficiale inglese, Clive Candy, e uno tedesco, Theo Kretschmar-Schuldorff, che si ritrovano su fronti opposti a condividere la stessa idea di onore e integrità, nonché ad amare la stessa donna… [sinossi]
This time you’re fighting for your very existence
against the most devilish idea ever created by a human brain: Nazism.
And if you lose, there won’t be a return match next year…
perhaps not even for a hundred years.
My English is not very much but my friendship for you is very much.

Passeranno otto anni tra Duello a Berlino e I racconti di Hoffmann, la fase creativa più fertile dei due autori, anche se la loro storia era iniziata prima e finirà decisamente dopo. Un rapporto di lunga durata. Due amici, come Clive Candy e Theo Kretschmar-Schuldorff. Un inglese e un ungherese, un inglese e un tedesco. Si può leggere anche così il loro primo Technicolor, film fluviale che intreccia storie e Storia, personaggi e suggestioni. Un progetto ambizioso, osteggiato, dimenticato e poi riscoperto, amato da molti, come gran parte della filmografia degli Archers. Nel raccontare l’Inghilterra, l’Europa e la guerra (la prima, ma soprattutto la seconda, che era in corso e spaventava molto di più), Powell e Pressburger non seguono le sirene della propaganda, della politica, del buonsenso commerciale. Perché, in fin dei conti, loro sono proprio come Clive e Theo, due idealisti innamorati – non della stessa donna – del cinema. Quindi sì, in un certo senso, innamorati anche della stessa donna.

Si diceva di Hoffmann, ma basterebbe tirare in ballo Scarpette rosse, Narciso nero o il meno noto La volpe (splendido…) per rimarcare qualche differenza. Ad esempio, sul piano formale Duello a Berlino è evidentemente più trattenuto, se così possiamo dire, ma è altrettanto ricco di sequenze strabilianti. Certo, non siamo sconquassati dalle vertigini himalayane e non restiamo a bocca aperta di fronte all’abisso che inghiotte Jennifer Jones\Hazel Woodus, ma come non citare e osannare la lunga sequenza del duello? Anzi, oggi, soprattutto oggi, in questa epoca dominata dalla computer grafica, presto invasa dall’intelligenza artificiale, tutta l’architettura della sequenza degli Archers è un folgorante esempio di cinema-cinema, con la sua stratifica semplicità. Due dissolvenze. Un movimento di macchina verso l’alto, ad allontanarsi dall’ipotetico centro dell’azione. La palestra, il tetto, il cielo, la carrozza. Powell e Pressburger scrivono, producono, dirigono. Pensano cinema. In questa sequenza, che arriva dopo quarantacinque minuti, agli attori, ai personaggi e al pubblico bastano due sguardi per volare via con la macchina da presa e per ritrovarsi dopo un dolce planare nuovamente accanto a Deborah Kerr. Uno dei duelli più romantici della storia del cinema. E quella neve che ricorda Welles.

Se la variopinta e giocosa sequenza nel locale berlinese, tra vassoi di birra, musicisti e affronti imperdonabili è pronta a deflagrare come la piccionaia di Scarpette rosse, nella parte finale di Duello a Berlino assistiamo a un pregevole lavoro di sottrazione. Quasi un monologo, con Theo\Anton Walbrook che sembra dialogare a distanza con La grande illusione e Il grande dittatore – ed è qui, per giunta con le parole messe in bocca a un tedesco, che gli Archers fanno storcere il naso al governo. L’inquadratura via via si stringe, fino a un primo piano, perfettamente centrato. La sequenza è tutta per Walbrook, tra i volti centrali (con Deborah Kerr) del cinema di Powell e Pressburger, attore di rara eleganza. L’arrivo risolutore di Clive\Roger Livesey, con quel campo-controcampo, è poi commovente e restituisce in due sguardi la portata di un’amicizia oltre il tempo e i confini geografici e politici. A Theo\Walbrook saranno poi affidate in un crescendo drammatico anche le decisive parole sul pericolo nazista, sulla nuova natura della guerra, sulla necessità di vincere a ogni costo. Ed è qui, in questa alternanza di toni lievi e drammatici, tra slanci ironici e crude riflessioni sul presente e futuro, tra campi di battaglia quasi fordiani e un romanticismo sussurrato ma mai domo, che Duello a Berlino ci mostra la caleidoscopica dimensione del cinema degli Archers, il loro modello forse irripetibile di opera tanto autoriale quanto spettacolare, commerciale, eterna.

Legato al Colonel Blimp del disegnatore satirico David Low giusto per qualche somiglianza col generale oramai anziano (soprattutto nella sequenza del bagno turco), cadenzato da ampie ellissi, sempre lieve e al tempo stesso commovente nel mettere in scena i lutti (si veda la morte della moglie, con la pagina nera dell’album e le poche righe del giornale), geniale nell’affidare tre ruoli a Deborah Kerr per rendere ancora più chiaro l’amore di Clive, Duello a Berlino è un atipico triangolo amoroso, una lunghissima storia d’amicizia, un ritratto mai banale degli anni decisivi del secolo breve. Una sorta di punto d’arrivo dopo La spia in nero (1939), Contrabbando (1940), Gli invasori – 49º parallelo (1941) e Volo senza ritorno (1942); un trampolino di lancio verso i successivi trionfi e il deflagrare immaginifico e cromatico.

Info
Il trailer di Duello a Berlino.
La sequenza del duello.

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