LA TEOSTRATEGIA DI OBAMA - Limes
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Conflitti infiniti perché senza scopo
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Solo il ritorno alla politica ci salverà
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LA TEOSTRATEGIA DI OBAMA

Sfruttando con sapienza il fattore religioso, il presidente americano è riuscito a catturare parte dell’elettorato cristiano conservatore. In vista delle elezioni di medio termine dovrà recuperare quello progressista, contrario alla guerra in Afghanistan.
di Paolo Naso
Pubblicato il Aggiornato il
Pubblicato in: C'era una volta Obama - n°1 - 2010

È DIFFICILE COMPRENDERE IL LINGUAGGIO e alcune scelte politiche di Barack Obama ignorando i suoi riferimenti teologici o sottovalutando la persistente rilevanza del fattore religioso nella realtà sociale e culturale degli Stati Uniti di oggi.

Dai coloni puritani del Mayflower a Martin Luther King, dal teismo di Thomas Jefferson al fondamentalismo antidarwiniano, dal pacifismo etico di Woodrow Wilson al neofondamentalismo interventista di Ronald Reagan o di George W. Bush, la religione – il fattore R, appunto – è un tema centrale del dibattito pubblico statunitense. Non a caso tra i fattori di successo dell’outsider senatore dell’Illinois nel lungo processo di selezione dei candidati democratici in vista delle primarie e poi del candidato Obama nel confronto diretto con John McCain vi è stata la capacità di recuperare quel religious gap che sembrava giocare tutto a favore del campo repubblicano. Per vincere, Obama ha dovuto spezzare il fronte dei cristiani conservatori e portare dalla sua parte almeno una quota di quel «voto di Dio» che altrimenti sarebbe andato al suo avversario o, al meglio, sarebbe confluito nel grande oceano dell’astensionismo. E per conquistare questi consensi Obama ha accettato il confronto a tutto campo sia con i regular churchgoers – quel 55% degli americani che frequenta regolarmente una chiesa o un altro luogo di culto – sia con quella particolare comunità evangelical 1 che negli anni di George W. Bush aveva acquisito un eccezionale protagonismo politico. E così, diversamente da John Kerry quattro anni prima, il candidato democratico aveva cercato il confronto con i pastori di alcune di quelle mega-churches «non denominazionali» – sganciate cioè dalle denominazioni storiche del protestantesimo Usa e in prevalenza di orientamento teologico «fondamentalista » – alle quali aveva cercato di spiegare come fosse proprio la sua fede a spingerlo all’impegno per una maggiore giustizia sociale e quindi per una riforma del welfare, per il progressivo disimpegno militare in Iraq e per un rapporto pacifico e persino di cooperazione con il mondo islamico. Le distanze da questa galassia religiosa che permanevano sui temi dell’aborto o della ricerca sulle staminali embrionali si potevano accorciare sui temi della giustizia sociale e della pace.

Il messaggio giunse a bersaglio e non a caso il quarantaquattresimo presidente statunitense nel solenne insediamento di un anno fa ha giurato sulla Bibbia di Abraham Lincoln di fronte al reverendo Rick Warren. Al pastore californiano di formazione fondamentalista, autore di un bestseller da oltre 30 milioni di copie, The Purpose Driven Life, decisamente contrario al riconoscimento delle unioni omosessuali e a capo di una mega-church dove ogni domenica si raccolgono a pregare non meno di 20 mila fedeli. Ma solo qualche giorno prima, in un’altra cerimonia religiosa che precedeva il giuramento, il presidente eletto aveva voluto che a officiare fosse il vescovo episcopaliano (anglicano) Gene Robinson, noto per essersi pubblicamente dichiarato omosessuale. A completare il quadro delle personalità religiose che ebbero parte nelle cerimonie di insediamento di Obama, il reverendo Joseph Lowery, vera e propria icona del movimento per i diritti civili. La scelta di un predicatore o di una personalità da coinvolgere nelle cerimonie più o meno ufficiali che precedono l’insediamento non è casuale: scegliendo persone così assortite il presidente ha voluto lanciare un messaggio politico principalmente teso a ridurre il religious gap e quindi ad abbassare il muro di pregiudizio che la destra religiosa aveva costruito nei suoi confronti.

Ma al di là della sapiente strategia elettorale, attenta al marketing religioso, Barack Obama è un convinto cristiano, giunto alla fede dopo una lunga ricerca spirituale maturata nell’ambito di una Chiesa calvinista afroamericana aderente alla United Church of Christ (Ucc), una delle denominazioni del protestantesimo degli Usa che raccoglie l’eredità delle prime comunità congregazionaliste del New England e una delle espressioni più alte del cristianesimo liberal del paese. La Ucc è stata la prima comunità di fede massicciamente bianca a consacrare un pastore afroamericano, già nel 1785; la prima ad aprire al pastorato femminile e quindi a consacrare una donna al ministero, nel 1853; la prima a consacrare un pastore apertamente gay, nel 1972, e la prima a sostenere una legge sui matrimoni tra persone dello stesso sesso, nel 2005. Nel contesto di questa Chiesa, Obama ha quindi maturato una fede consapevole, nutrita di assidue frequentazioni bibliche e di solide letture teologiche che emergono puntualmente dall’analisi critica dei suoi discorsi più importanti 2.


Il dialogo con gli evangelicals


A poco più di un anno da quelle cerimonie e a meno di un anno dalle elezioni di mid term del prossimo novembre, i sondaggi ci dicono che in buona misura Obama è riuscito nel suo intento.

Attualmente soltanto il 29% degli americani riconosce oggi ai democratici un atteggiamento positivo verso la religione, a fronte del 39% che si registrava un anno fa. I democratici appaiono quindi un partito sempre meno attento ai tradizionali valori religiosi americani, forse addirittura attraversato da una tendenza secolarista che gli aliena consistenti strati dell’elettorato più religioso.

Meglio del partito vanno il presidente e la sua amministrazione, ai quali il 37% degli americani riconosce un atteggiamento positivo nei confronti della religione. Soltanto il 17% ritiene che presidente e amministrazione mantengano un atteggiamento secolarista: molto più numerosi gli americani convinti che esistano dei pregiudizi antireligiosi nel sistema della comunicazione di massa (35%), tra gli scienziati (35%) e nel mondo della produzione cinematografica (47%).

Potremmo concludere che, nonostante il suo partito, la politica religiosa di Obama sta già raccogliendo alcuni frutti e qualcun altro potrebbe ancora arrivare. E se su temi come il finanziamento pubblico alla ricerca sulle staminali embrionali o i diritti degli omosessuali la frattura tra l’amministrazione e il mondo evangelical resterà, su altre questioni il giudizio di ampi settori del cristianesimo conservatore su Obama e la sua squadra potrebbe essere più aperto e positivo.

L’impegno assunto dal presidente per l’abolizione degli armamenti nucleari, ad esempio, gli ha procurato il plauso della National Association of Evangelicals, l’influente network fondamentalista che in passato aveva fortemente sostenuto la politica cristiana di George W. Bush 3.

Un tema centrale nell’azione di un presidente che ha ereditato una guerra impossibile in Iraq e una difficilissima in Afghanistan è certamente quello del rapporto con l’islam che con ogni evidenza è gravido di pesanti corollari geopolitici, resi ancora più complessi dal fatto che ancora oggi il 10% degli americani è convinto che il loro presidente sia musulmano 4. Al tema del rapporto tra gli Usa e l’islam, Barack Obama ha dedicato importanti passaggi in diverse occasioni ma ha sviluppato una riflessione più organica nel discorso, già storico, pronunciato all’università del Cairo il 4 giugno 2009. «Sono qui per cercare un nuovo inizio fra gli Stati Uniti e i musulmani nel mondo», ha affermato nella capitale egiziana, «basato sul mutuo interesse e sul mutuo rispetto. E sulla verità: America e islam non devono essere in competizione. Invece, si sovrappongono e condividono princìpi comuni, di giustizia e progresso, di tolleranza e dignità di tutti gli esseri umani. (…) Qualsiasi cosa pensiamo del passato, non dobbiamo rimanerne prigionieri. I nostri pro­blemi vanno affrontati in partnership e il progresso va condiviso. Ma la prima questione da affrontare è l’estremismo violento in tutte le sue forme. L’America non è e non sarà mai in guerra con l’islam».

Se questi sono alcuni dei passaggi che segnano un’evidente frattura rispetto alla teopolitica della «lotta contro il maligno» ispirata alle suggestioni huntigtoniane dello scontro di civiltà che tanto avevano influenzato George W. Bush, altre affermazioni ripropongono princìpi assolutamente classici della dottrina politica internazionale degli Usa. «Contrasteremo senza tregua gli estremisti violenti che pongono un serio rischio alla nostra sicurezza», ha affermato Obama, sempre nel discorso del Cairo. «Il mio primo compito come presidente è proteggere il popolo americano. (…) L’America non presume di sapere ciò che è meglio per tutti, ma sono fermamente convinto che tutti i popoli desiderino alcune cose: la possibilità di esprimere le proprie opinioni e di avere voce su come si è governati. La fiducia in una legge uguale per tutti e in una giusta amministrazione, un governo trasparente, che non si approfitti della cittadinanza, che sia onesto, e la libertà per ciascuno di scegliere la vita e lo stile di vita che preferisce. Queste non sono idee americane, ma diritti umani fondamentali, che sosterremo e per cui combatteremo ovunque».

Questo mix di apertura all’islam ma anche di riaffermazione della classica linea di fermezza e di pressione militare sembra aver convinto molti evangelicals che, secondo un sondaggio del Washington Post, nella misura del 47% ritengono che il presidente stia «facendo bene riguardo all’islam»; di contro, solo un più modesto 34% teme che si sia spinto «troppo oltre» 5.


Realismo cristiano e interventismo democratico


Come è stato correttamente sottolineato da alcuni osservatori americani 6, opportunamente ripresi anche in Italia 7, per capire di più sulle spinte religiose e i criteri teologici che orientano alcune scelte politiche della Casa Bianca può essere utile gettare uno sguardo sui mentori di Barack Obama. In più occasioni il presidente ha dichiarato il suo debito alle idee di Reinhold Niebuhr, di cui il presidente ha affermato di condividere «l’impegnativa idea che nel mondo esistono il male reale, la durezza e il dolore. E [che] noi dovremmo essere umili e modesti nella nostra convinzione di poter eliminare queste cose. (…) L’idea che noi dobbiamo compiere questi sforzi sapendo che sono impegnativi, e non dobbiamo ondeggiare tra un ingenuo idealismo e un amaro realismo» 8. Reinhold Niebuhr, pastore della Ucc, fu il più noto e autorevole teologo protestante americano della prima metà del secolo scorso, figlio di un’epoca difficile che in meno di cinquant’anni vide infrangersi i sogni pacifisti della Lega delle Nazioni, due guerre mondiali, i totalitarismi e la guerra fredda. In un tempo storico tanto denso Niebuhr passò dal pacifismo non violento di ispirazione gandhiana alla giustificazione della guerra, dalla fiducia nel movimento comunista alla sua ripulsa e quindi a una solida collocazione nella cultura mainstream del liberalismo democratico, sia pure bilanciata da un forte richiamo al tema della giustizia sociale.

Ma non sono tanto le scelte politiche che hanno dato notorietà e autorevolezza a Niebuhr, quanto le sue considerazioni teologiche che, negli anni, lo hanno condotto a enfatizzare alcuni aspetti del pessimismo antropologico tipico della tradizione protestante. In questa prospettiva Niebuhr respinge sia la dottrina della «guerra giusta» che il pacifismo radicale di alcuni movimenti, con i quali per altro aveva collaborato, primo tra tutti la Fellowship of Reconciliation (For). «Come marxista e come cristiano», scrisse nel 1934 in un articolo che segnò il suo distacco dal pacifismo radicale della For, «riconosco il carattere tragico della vita sociale dell’uomo e dell’inevitabilità del conflitto che deriva dall’incapacità dell’uomo a porre l’egoismo sotto il completo controllo della coscienza» 9. Queste considerazioni saranno alla base di quel «realismo cristiano» che negli anni e dopo non poche esitazioni lo spinse a schierarsi a favore dell’intervento Usa nella seconda guerra mondiale: «Non è possibile», scrisse, «sfuggire alla nostra responsabilità morale e al nostro dovere nei confronti della comunità delle nazioni. Non siamo l’unica nazione che ha dovuto imparare questa lezione, siamo soltanto l’ultima» 10. Quasi un’ammissione della contraddizione tra i valori di una società nata per rispondere a un’alta vocazione e il suo ruolo politico e militare in un mondo in rapida trasformazione.

Tema ripreso da Niebuhr dopo la guerra in un volume del 1952, The Irony of American History, nel quale denunciò i paradossi della storia americana – gli ideali rivoluzionari e le teocrazie di alcune colonie, lo spirito di libertà e le guerre contro gli indiani, il «diritto al perseguimento della felicità» e la segregazione razziale – all’interno della categoria del peccato e quindi nella prospettiva di un cammino di conversione.

Alla luce del realismo cristiano di Niebuhr e del suo ruolo nella formazione culturale e teologica di Barack Obama si chiariscono molti passaggi del suo discorso di accettazione del premio Nobel del 10 dicembre 2009, letteralmente punteggiato di riferimenti alle tesi del suo dichiarato mentore. «La guerra, in una forma o nell’altra, ha accompagnato l’uomo fin dalle origini». «Non riusciremo a sradicare il conflitto violento nel corso della nostra vita. Ci saranno occasioni in cui le nazioni (…) troveranno non solo necessario ma moralmente giustificato l’uso della forza». «Il male nel mondo esiste. Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare le armate di Hitler». «Dunque sì, gli strumenti della guerra contribuiscono a preservare la pace».

D’altra parte quel discorso contiene anche riferimenti e accenti di altra natura: «Raramente nella storia si è vista una guerra che rispondesse al concetto di guerra giusta». «Nelle guerre odierne vengono uccisi molti più civili che soldati; si gettano i semi di conflitti futuri, si devasta l’economia». E citando Martin Luther King: «La violenza non porta mai una pace permanente». «La guerra in sé non è mai gloriosa e non dobbiamo mai sbandierarla come tale». Ed allora da che parte sta il presidente? Da quella del realismo cristiano o del coraggio profetico? La discussione resta ovviamente aperta, ma fa pensare che il discorso di Oslo non abbia avuto il taglio pacifista che pure l’occasione avrebbe potuto suggerire.


Medio Oriente e profezie bibliche


Se nel discorso di Oslo Obama non ha fatto alcun riferimento al conflitto israelo-palestinese, tema pesantemente condizionato dal fattore R, al Cairo, soltanto sei mesi prima, il presidente si era spinto a menzionare Hamas. «Ha certamente il consenso di alcuni palestinesi», aveva affermato, e poi, riferendosi ai membri dell’organizzazione aveva aggiunto: «Devono riconoscere di avere anche delle responsabilità».

In realtà il presidente sa bene quanto anche piccoli cambiamenti della strategia Usa in quel particolare scenario potrebbero costituire un pericoloso passo falso. Come sa che il moltiplicarsi degli attentati qaidisti, l’incertezza della missione militare in Afghanistan, le tensioni con l’Iran e l’instabilità dell’Iraq non contribuiscono a determinare quella «finestra di opportunità» che potrebbe favorire un negoziato tra israeliani e palestinesi. Semmai tendono a chiuderla a doppia mandata.

Ma sul piano interno c’è anche qualcosa di più: il presidente sa che la sua opinione pubblica – e al suo interno la consistente area degli evangelicals – ha maturato un solido, convinto e irrinunciabile schieramento filoisraeliano. Nel caso di molti cristiani conservatori lo motivano profondi convincimenti teologici che attribuiscono alla costituzione dello Stato ebraico valenze profetiche: l’esistenza di Israele, la sua difesa dagli attacchi nemici, la sua ebraicità si collocano all’interno di un «piano di Dio» scritto nei testi biblici – dalle profezie di Daniele all’Apocalisse – che prelude al ritorno del Messia e quindi all’instaurazione del suo regno eterno. Per le frange radicali di questi movimenti del cosiddetto «sionismo cristiano », il rafforzamento di Israele in Giudea e Samaria – e quindi anche nei territori occupati nel ’67 – è tappa fondamentale e irrinunciabile per lo sviluppo di questo piano divino 11. Obama sa bene che, per il futuro del suo legame con gli evangelicals, i rapporti con Israele costituiscono un test delicato e di primaria importanza.


Le critiche del pacifismo cristiano


Una politica estera che sembra aderire al «realismo cristiano» di scuola niebuhriana espone il presidente alle critiche e alla disillusione di un altro importante segmento della società americana, al quale egli è per altro debitore per il convinto sostegno che gli ha garantito in campagna elettorale. Si tratta di alcuni network evangelici che, pur condividendo un certo fondamentalismo biblico, contestano la rigidità conservatrice e il radicalismo politico della destra religiosa, e invocano nuove politiche sociali, la riduzione del budget militare e un nuovo corso internazionale basato su politiche negoziali piuttosto che sugli interventi militari. L’efficace slogan attorno al quale si sono organizzati nel corso delle ultime campagne elettorali è stato: «Dio non è repubblicano», proprio a denunciare il monopolio e la strumentalizzazione dei temi religiosi da parte della destra del partito di George W. Bush.

Con questi network, principalmente Call to renewal 12 e la rivista Sojourners, entrambi animati da un’interessante personalità della scena religiosa americana come il teologo e giornalista Jim Wallis 13, il senatore Obama aveva avuto diverse occasioni di incontro, collaborazione e scambio e, giunto alla Casa Bianca, volle anche Wallis tra i suoi spiritual advisors. La nomina è di qualche significato perché, in altri tempi e sotto altri presidenti, questo teologo era stato ripetutamente fermato per le sue proteste a Capitol Hill in favore di pace e giustizia sociale.

Ma a meno di un anno dalla sua nomina a consigliere spirituale di Obama, Wallis ha scritto al presidente una lettera, sottoscritta da altre personalità evangeliche statunitensi e da migliaia di semplici credenti, per affermare che «dopo otto anni di guerra abbiamo bisogno di un nuovo approccio in Afghanistan (…) di un intervento umanitario e di sviluppo. (…) Noi suggeriamo umilmente che è tempo di un incontro alla Casa Bianca con i leader religiosi e con i responsabili delle agenzie di sviluppo che in qualche caso sono presenti da anni in Afghanistan. (…) Questo input è fondamentale per le sue decisioni. Ed è giunto il momento, forse per la prima volta, di un confronto morale ed etico tra il governo e la comunità di fede riguardo alle implicazioni morali delle nostre decisioni politiche».

Pena lo sbilanciamento verso gli evangelicals conservatori, il presidente non può ignorare questa e analoghe richieste che provengono dagli evangelicals progressisti, i quali, come già è accaduto per le presidenziali, potranno avere un ruolo strategico nel risultato delle elezioni di mid term. Tra l’incudine del realismo cristiano e il martello del pacifismo profetico, il dibattito politico americano finisce spesso per assumere le forme di una controversia teologica.

1. In origine il termine evangelical, come del resto l’espressione «fondamentalista», non aveva alcuna valenza politica ma indicava soltanto una corrente teologica basata sul letteralismo biblico e sul carattere intimo e personale della conversione a Cristo. Conservatori sotto il profilo teologico, gli evangelicals, e prima di loro i fondamentalisti, erano distanti dalla politica, di qualsiasi orientamento. La svolta si ebbe negli anni Ottanta, gli anni di Reagan, nei quali i due movimenti vengono attratti nell’orbita culturale e politica del Partito repubblicano. Cfr. P. NASO, «Tra radicalità evangelica e tentazione politica. I diversi volti del fondamentalismo cristiano», in S. ALLIEVI, D. BIDUSSA, P. NASO, Il libro e la spada. La sfida dei fondamentalismi, Torino 2007, ed. Claudiana.

2. Cfr. C. G. BOUCHARD, Fede di Barack Obama. Quando la religione non è oppio, Torino, 2009, ed. Claudiana.

3. «Evangelicals Laud Obama’s Nobel», National Catholic Reporter, 9/10/2009.

4. «Evangelical thinks Obama is a Muslim», ChristianityToday.com, 2/4/2009. Secondo il sondaggio, condotto dal Pew Center for the People and the Press, la percentuale degli americani convinti che Obama sia musulmano sale al 19% tra gli evangelicals.

5. Sondaggio The Washington Post-Abc, 6/4/2009.

6. D. BROOKS, «Obama’s Christian realism», The New York Times, 14/12/2009.

7. «Si dice che Obama sia un ammiratore del grande teologo Reinhold Niebuhr. La politica di Obama – portare nel mondo una visione positiva, ma facendo attenzione a non andar troppo oltre – è la messa in pratica del pensiero di Niebuhr. Questa è stata da sempre la miglior impostazione morale del realismo americano in politica estera, come interpretata da Franklin Roosevelt o da Dean Acheson», Z. FAREED, «Meno politica estera più economia», Corriere della Sera, 9/12/2009; cfr. anche CH. ROCCA, «Obama il realista cristiano», Il Foglio, 18/12/2009.

8. D. BROOKS (intervista a cura di), «Obama, Gospel and Verse», The New York Times, 26/4/2007.

9. R. NIEBUHR, «Why I leave the FOR», cit. in M. RUBBOLI, Politica e religione negli Usa. Reinhold Niebuhr e il suo tempo (1892-1971), Milano 1986, Franco Angeli, p. 156.

10. R. NIEBUHR, «We are at War», 1941, cit. in M. RUBBOLI, op. cit., p. 178.

11. P. NASO, «I crociati dell’Apocalisse. Geopolitica dei fondamentalisti evangelici americani», in I classici di Limes, «Quando il papa pensa il mondo», n. 1/2009.

12. Il discorso che Obama pronunciò a un forum promosso da questo network il 28 giugno 2006, in B. OBAMA, La mia fede. Come riconciliare i credenti con una politica democratica, introduzione di G. BORSETTI, Venezia 2008, Marsilio.

13. Tra i suoi scritti, The Soul of Politics, Mariner Books (paperback) 1995; Who speaks for God?, New York 1996, Delta; God’s Politics. Why the Right Gets it Wrong and the Left Doesn’t Get It, San Francisco 2005, Harper.