Pietro Scalia: Intervista al montatore premio Oscar, giurato al Riviera International Film Festival
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Pietro Scalia: Intervista al montatore premio Oscar, giurato al Riviera International Film Festival

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Pregiato collaboratore di Oliver Stone e Ridley Scott, Pietro Scalia ha vinto due Oscar ed è uno dei montatori più bravi della storia del cinema. Abbiamo chiacchierato con lui al RIFF, dove è uno dei giurati.

Pietro Scalia: Intervista al montatore premio Oscar, giurato al Riviera International Film Festival

Uno dei giurati dell’ottava edizione del RIFF 2024 è uno dei montatori più bravi e premiati al mondo. Pietro Scalia ha vinto due premi Oscar, il primo per il bellissimo lavoro su JFK – Un caso ancora aperto di Oliver Stone nel 1993, seguito da una seconda statuetta nel 2002 per Black Hawk Down di Ridley Scott. Nella sua lunga e gloriosa carriera, Scalia, nato nel 1960 a Catania, cresciuto nella Svizzera tedesca e formatosi in America, ha formato un solido sodalizio proprio con Oliver Stone e Ridley Scott, ma è stato candidato all’Oscar anche per Will Hunting – Genio ribelle e Il gladiatore. Molto attivo nel cinema d’autore (ha collaborato tra gli altri con Bernardo Bertolucci), Scalia ha montato anche film mainstream come la serie di The Amazing Spider-Man o Solo: A Star Wars Story. E’ ancora oggi appassionato del suo lavoro, è un uomo molto simpatico e comunicativo e abbiamo avuto la possibilità di farci due chiacchiere e saperne di più sulla sua formazione e sul suo lavoro, fondamentale per la riuscita di un film.

La nostra intervista a Pietro Scalia

Come è successo che un ragazzo nato in Sicilia sia finito a Hollywood e abbia vinto l'Oscar?

Non è stato così veloce. Mio padre è siciliano, mia madre pugliese, io sono partito dalla Sicilia quando avevo 1 anno coi miei, emigrati nella Svizzera tedesca. Ho fatto le scuole svizzere e il liceo ma ho sempre avuto una passione per l’arte e volevo andare ad una scuola artistica, mi piaceva disegnare e fare sculture, ma mio padre essendo anche fotografo ha sempre avuto interesse per il cinema. Io in Svizzera andavo moltissimo al cinema, ce n’erano due vicino casa mia, proiettavano film italiani del neorealismo, di Rossellini, Fellini, dei grandi maestri italiani, di De Sica, Visconti, come La terra trema, di cui mio padre mi parlava entusiasta, dicendo che lo avevano girato vicino a Catania con gente del posto. Scoprire il cinema ma anche la mia cultura e le mie radici italiane è stato importantissimo e per me non avendo vissuto in Italia era sia una finestra sul Paese ma anche il potere dell’immagine, del cinema. Quando avevo 14/15 anni mi chiesero cosa volessi fare da grande e io volevo diventare cameraman, volevo girare il mondo, scoprire le cose, girare delle immagini facendo documentari, che mi piacevano moltissimo. L’ultimo anno di liceo io sapevo già che volevo fare del cinema e mi ero informato che c’erano delle scuole in America, tre erano le scuole principali, la NYU a New York, la USC a Los Angeles e la UCLA, dove si sono formati tanti grandi registi, Spielberg e Lucas (USC) e Coppola e Ashby (UCLA). Ho avuto la grande fortuna di esser stato accettato come studente anche se non avevo fatto nessun film, quello che avevo scritto sulla lettera evidentemente era interessante per loro.

In Svizzera i professori mi dicevano 'ma cosa vai a studiare cinema? Non è una cosa vera, da studiare, ma io voglio imparare, rispondevo. Il governo svizzero allora mi dette una borsa di studio e così ho avuto la possibilità di farlo. Pensavo di diplomarmi poi di tornare in Europa a lavorare come regista, ma non erano abbastanza 4 anni, allora ne ho fatti altri 3 e ho avuto un master e con piccoli corti, documentari, anche un film di diploma sono tornato in Svizzera, pensando che mi sarei sistemato ma per 6 mesi non succedeva niente, mentre vedevo che i miei amici a Los Angeles cominciavano tutti a lavorare come registi o scrittori e così, col permesso di lavoro decisi di tornarci per fare un’esperienza professionale, ma non come regista. Ho pensato che sarebbe stato meglio imparare dai registi tramite il montaggio, perché so che è il lavoro più intimo col regista. Mi dicevano che ero bravo a montare anche quando studiavo ed era un modo per guadagnarmi da vivere. Ho lavorato per dei film indipendenti, il mio primo film come assistente è stato con Andzej Konchalovskij e poi tramite un amico ho incontrato la montatrice di Oliver Stone, Claire Simpson, che aveva fatto Salvador, per cui vinse l’Oscar e quello era il tipo di cinema che mi piaceva. Lei mi presentò e gli chiesi se potessi lavorare per imparare al montaggio e lui mi rispose che stava partendo per le Filippine, per girare Platoon, e che ci saremmo risentiti in seguito, per il prossimo. Passato un anno, il film vince l’Oscar per miglior film e miglior regia, mi sono ripresentato e lei mi ha assunto come assistente su Wall Street e lì ho iniziato la scuola di Oliver Stone di cui ho fatto tutti i film seguenti, in cinque anni e mezzo, incluso Wall Street e poi Talk Radio, Nato il 4 di luglio, The Doors, finché non è arrivato JFK. Sono stato fortunatissimo.

Il montatore lavora come diceva a stretto contatto col regista, specie se questo è un autore. Come si lavora con registi come Oliver Stone e Ridley Scott? Sono molto attenti e presenti al montaggio o le hanno lasciato anche libertà?

Sono presenti in vari momenti della giornata. Ad esempio Oliver Stone veniva, guardava i giornalieri all’inizio, poi dava degli appunti per il montato e tornava per vedere i cambiamenti, ma non rimaneva tutto il tempo in sala di montaggio. Lo stesso anche con Ridley Scott, nel senso che veniva di mattina, lavoravamo 2 o 3 ore insieme poi a volte mangiavamo insieme, tornava poi nel pomeriggio verso le 17 e lavoravamo altre due ore. Con Gus Van Sant e con Bertolucci è completamente l’opposto. Sono lì tutto il giorno ed è anche bello perché mentre si lavora possono esserci dei dialoghi, si parla, ci si confronta sul fatto se un certo montaggio funziona o meno. Tante volte si diventa testimoni di cose inaspettate, di creazioni bellissime e io so che tanti registi amano anche la fase del montaggio per questo motivo, vedono come il film da una cosa un po’ artificiale diventa una cosa vivente.

Parlando del superlativo montaggio di JFK, come è nata la sequenza iniziale?

Alla masterclass qui al RIFF ho presentato proprio la scena iniziale. Come ho detto, mi trovavo nel punto giusto al momento giusto. Venendo dai documentari, lavorare con materiale d’archivio per me era facile, conoscevo bene il materiale grazie a mesi di ricerche, ma sono state fondamentali le piccole scelte per dare un’immagine di JFK in poco tempo. Abbiamo parlato di come strutturarlo, musicalmente, con le immagini, ma tutto non si è messo insieme e cristallizzato finché non ho scoperto questi tamburi scozzesi, che erano fondamentali per la scena e sono stati utilizzati anche in altre parti del film. I tamburi da un lato riecheggiano come simbolo gli spari, danno questa energia e questa sensazione che qualcosa ribolle, qualcosa accade. E quando Oliver Stone l’ha vista la prima volta è saltato dalla gioia. Se lo conosci sai che non è un uomo molto affettuoso, ma è saltato su gridando “We have a Maestro!” e mi ha baciato. Mesi e mesi di lavoro, ripagati in questo modo splendido.

Per il suo lavoro su questo film lei ha vinto Il primo Oscar, che effetto le ha fatto? Se lo aspettava?

Non me lo aspettavo assolutamente. Il montaggio di quel film è nato perché dovevamo ristrutturare certe scene, sovrapporle e intrecciare vari fili narrativi per dare allo spettatore la possibilità di capire a vari livelli. Sembra caotico, ma non lo è, riesci a seguirlo.

Lei ha lavorato anche su grossi film mainstream, che differenza c'è?

E' molto diverso lavorare su cose più artistiche a confronto di questi film dai grossi budget che sono più “corporate”, aziendalisti. Quando è così non c’è solo una persona che decide, è la mentalità del gruppo, fatta di compromessi, per questo tante volte certe scelte fuori dal normale vengono bocciate, non si può sperimentare. Ti racconto un aneddoto. Quando lavoravo su Black Hawk Down avevo intenzione all’inizio di cominciare con un minuto di nero con solo il suono e gli effetti del vento e della sabbia. Volevo mettere lo spettatore per un minuto in questa situazione di attesa. Ridley mi dice “un minuto è troppo, proviamo trenta secondi”. Sono comunque tanti 30 secondi di nero in cui non succede niente. Era ancora troppo lungo e allora ho lasciato 20 secondi ed era già abbastanza. Quando lo abbiamo presentato al produttore, lui ci ha detto “cosa è sta roba? Non si può”. “Perché?” “E’ troppo artsy-fartsy” (espressione quasi intraducibile che sta per una cosa troppo snob e pretenziosa, puzzona, ndr).

In pratica voleva fare molto tempo fa quello che ha fatto adesso Jonathan Glazer con La zona d'interesse, che ha vinto l'Oscar come miglior film straniero e che il pubblico ha capito. Adesso che cosa sta preparando?

Sto lavorando su un piccolo film indipendente con Matthew McConaughay, è bello anche lavorare con un giovane regista come questo che è al suo secondo film. Quando sei giovane e fai un film indipendente hai più libertà di esprimerti e a me questo piace.

Quindi non ha rimpianto di non aver fatto il regista perché ha trovato la sua strada.

Esatto, il montaggio ha scelto me.

E non poteva scegliere una persona migliore. E’ stato un vero piacere parlare con Pietro Scalia, che nel suo campo è un vero genio, grazie alla sua presenza al Riviera International Film Festival.

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  • Saggista traduttrice e critico cinematografico
  • Autrice di Ciak si trema - Guida al cinema horror e Friedkin - Il brivido dell'ambiguità
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