In mostra la vera donna della domenica, musa ispiratrice di Fruttero e Lucentini - La Stampa

Il vero volto della Donna della domenica non è quello – bellissimo - di Jacqueline Bisset nel film girato da Luigi Comencini nel 1975. Né tantomeno quello di Andrea Osvàrt nel remake di Giulio Base. No, l’ovale che ispirò a Fruttero e Lucentini la figura sfuggente, borghese e terribilmente torinese di Anna Carla Dosio, è quello modellato nella seconda metà degli Anni Cinquanta dallo scultore Mario Giansone. Storia nota, per carità, di quelle che periodicamente si affacciano su giornali e tv. Ma ora è una sorpresa imbattersi in quest’opera di marmo del Portogallo e onice in una sala al secondo piano del museo di arte decorativa della Fondazione Accorsi-Ometto di via Po.

La “Donna della domenica” di Giansone è uno dei capolavori di quel piccolo grande gioiello che è la mostra “Torino Anni 50, la grande stagione dell’informale”, che resterà aperta fino al 1° settembre. Se ne sta in una nicchia, circondata dai lavori di maestri del calibro di Adriano Parisot, Albino Galvano, Mario Davico, Filippo Scroppo, Gillo Dorfles, Annibale Biglione, Carol Rama, Gino Gorza. Ma meriterebbe uno spazio tutto per sé. Quanta energia, in quella figura. E che forza magnetica. È come se il marmo dovesse improvvisamente prendere vita e trasformarsi, come un Pinocchio di pietra dura, in una Anna Carla Dosio in carne e ossa. Una bella, elegante e annoiata signora in una Torino sprofondata nel caldo e soffocata dai cantieri, come quello per i nuovi binari di via Po da cui salgono i rumori di una ruspa e degli operai che ci lavorano.

Quando la videro, Fruttero e Lucentini, che di Giansone erano amici, non ci pensarono due volte: la Donna della domenica sarebbe stato anche il titolo del loro romanzo più celebre. E adesso viene naturale immaginarseli in un palazzo come questo, mentre si aggirano in cerca di ispirazione per i personaggi del libro, dal viscido architetto Garrone all’enciclopedico americanista Bonetto (il professor Claudio Gorlier) dal mantenuto Massimo Campi all’energica Ines Tabusso. Tutti torinesissimi, in una città in cui i meridionali sono solo poliziotti (il commissario Santamaria), operai o domestici (ricordate la colf di casa Dosio? “Nata a Cagliari e ivi residente a Torino”…).

La Torino è quella della Fiat che traina il boom economico, delle case popolari che invadono i campi della periferia, delle insegne al neon in via Roma, dell’auto padrona persino del piazzale di Palazzo Reale trasformato in un parcheggio Aci. Ma anche la Torino che scopre la sua avanguardia, gli artisti chiamati a esporre all’estero, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti, le botteghe nei cortili di via Mazzini e via Cavour, il fiume che per molti è ancora l’unico mare mai visto, i ristorantini in collina.

La Torino di Fruttero e Lucentini. E di Mario Giansone, scultore dal carattere difficile, candido e talentuoso, più duro del marmo, capace di preferire i suoi studenti della scuola d’arte e del liceo Passoni al successo. Un uomo che nel 1966 si permise il lusso di sbattere la porta in faccia alla Biennale di Venezia e, subito dopo, di dire no a Peggy Guggenheim che reclamava un’opera per la sua collezione.

A quasi trent’anni dalla morte (1997), quella di Giansone è una memoria perduta. C’è una targa che lo ricorda, a un centinaio di metri dalla Fondazione Accorsi. Via Montebello 15 angolo via Gaudenzio Ferrari, praticamente ai piedi della Mole: “Esimio artista e docente, insigne interprete dell’arte del Novecento”. Un’iniziativa di “amici, estimatori e allievi”. Poi, c’è un magazzino in via Messina, zona di tagliatori di pietra, altro luogo-chiave nella Donna della domenica, pieno di sculture che meriterebbero di uscire dalla polvere per essere esposte tutte insieme. Un tesoro nascosto, ritratto di un’epoca che la città, chissà perché, ha seppellito troppo in fretta.

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