Lo scrittore Colm Tóibín: “Premiate me ma poi leggete solo Elena Ferrante” - la Repubblica

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Lo scrittore Colm Tóibín: “Premiate me ma poi leggete solo Elena Ferrante”

Lo scrittore Colm Tóibín: “Premiate me ma poi leggete solo Elena Ferrante”
L'autore de "Il mago", dedicato alla vita di Thomas Mann, è il vincitore del Premio Gregor von Rezzori. Qui parla del mistero della creazione letteraria, del rapporto con i lettori e con il successo. E della sfida di raccontare i grandi della letteratura
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Colm Tóibín, autore di Storia della notte (Fazi, 2000), The Master (Fazi, 2004) e Brooklyn (Bompiani, 2009), è il vincitore del Premio Gregor von Rezzori 2023 per Il mago (Einaudi, 2023), un romanzo che immagina la vita e la voce interiore di Thomas Mann. Tóibín, nato a Enniscorthy, nella contea di Wexford, nel 1955 è anche saggista, drammaturgo e insegnante preso l’Università della Columbia. Divide il suo tempo tra New York, Los Angeles e l’Irlanda. In visita a Firenze per ricevere il riconoscimento, lo scrittore parla del mistero della scrittura. 

L’ho sentito dire una volta che la scrittura deve essere scomoda, imbarazzante, persino dolorosa. Perché scrive?

"Oh, credo che stessi criticando l’uso da parte degli scrittori di quelle grandi sedie da ufficio su cui si può roteare e che si adattano perfettamente alla schiena, e tutto quel genere di comodità irrilevanti. Credo che a me capiti di iniziare qualcosa e che l’impulso di farlo sia puramente misterioso. Perché dovrei scriverne?, penso. È solo il paragrafo iniziale di qualcosa che mi passa per la testa, lo vedo e lo scrivo. Dopo di che, si tratta di lavoro; è semplicemente questo. Ci sono scrittori che spesso non finiscono nulla e poi smettono di scrivere. Succede che misteriosamente si scrive la prima cosa. In altre parole, l’impulso a farlo è lì e non lo si giudica o analizza; lo si scrive e basta. Potrebbe essere soltanto una frase. E poi –dicevo– c’è il lavoro, la noiosa attività di impegnarsi ogni giorno e di finirlo, e suppongo che sia perché si vuole che gli altri lo leggano. Quindi diventa una forma di comunicazione, ma non inizia così. Inizia come un atto molto più interiorizzato e privato, e poi si sposta nella sfera pubblica, dove si osserva costantemente quanto il lettore ha bisogno di essere informato, quanto deve essere omesso, quanto deve essere taciuto, come deve essere gestito il tempo e così via. Tutti questi giudizi non riguardano se stessi e il libro, ma se stessi, il libro e il lettore del libro. Diventa quindi un modo per immaginare un lettore, quello che il lettore dovrà sapere. La scrittura ha quindi due modi di iniziare: uno, come ho detto, misterioso, e l’altro molto più apertamente e chiaramente legato al pubblico".

Questo mi fa pensare a un’altra cosa che lei ha detto, e cioè che non si scrive per se stessi, ma per i lettori; che la scrittura è semplicemente un altro modo della comunicazione.

"Credo che questa sia un’idea piuttosto comune. È chiaro per me che l’autoesplorazione sia un vicolo cieco, che magari con un terapeuta si possa andare avanti, ma che si tratta di una cosa che si fa nel silenzio della propria casa. La scrittura invece non è una forma di autoesplorazione, è una forma di comunicazione. Il che è molto più semplice. E naturalmente si usa molto più di quanto si sappia. Intendo dire letteralmente che ci sono cose nella nostra mente inconscia che non sono state completamente verbalizzate o articolate o anche trasformate in conoscenza. E si lavora sempre con quella corrente sotterranea, la si controlla e ci si lascia anche sorprendere da essa. In altre parole, la forma di un libro o il modo in cui emerge un personaggio possono sorprenderti nel senso che riflettono qualcosa che ti sta veramente a cuore, che ti è stato a cuore, e di cui non ti sei reso pienamente conto in alcun modo consapevole. Così il romanzo diventa un modo per far parlare l’inconscio. Ma ovviamente bisogna controllarlo. Bisogna incanalarlo, metterci costantemente un metodo, dargli forma".

È un luogo comune per molti scrittori dire che scrivono per se stessi e che si dovrebbe scrivere come se non ci fossero lettori. Mi chiedo se questo luogo comune abbia a che fare con il fatto che la scrittura è fondamentalmente un’attività solitaria. Ma la letteratura è nata come un’attività comunitaria. E non ha mai smesso di esserlo.

C’è una cosa strana che succede con la lettura: se qualcuno ha letto un libro molto bello, ama l’idea che anche qualcun altro lo abbia letto o lo leggerà. Non si vuole essere l’unica persona ad aver letto un libro. Anche se la lettura è una cosa così solitaria, si sa che il libro è stato stampato e distribuito e così via. Quindi l’idea di scrivere come una forma di masturbazione, come un atto privato, che in qualche modo è abbastanza significativo perché è un piacere per te stesso, mi sembra sbagliata. Io almeno non lo faccio".


Thomas Mann
Thomas Mann 
Perché scrivere un romanzo su Thomas Mann? Aveva già scritto un romanzo su un grande scrittore, Henry James. Può riflettere sulle origini “misteriose” di questi progetti?

"Ho letto la maggior parte delle opere di Mann e James quando ero tra la fine dell’adolescenza e l‘inizio dei vent’anni. Allora credevo che scrivere un libro e pubblicarlo fosse un atto che riguardasse il potere, la stabilità e il controllo. Il nome dello scrittore sulla copertina, la fotografia, la biografia, mi davano un senso di autorità – un’autorità che la pubblicazione dà alle persone. E credo che questo sia il caso soprattutto di Henry James e Thomas Mann. Si noti che non scrivevano commedie. E che noi li associamo a un certo tipo di grandezza in relazione alla prosa e al materiale e alla tradizione che hanno ereditato. Nel caso di James, la sua famiglia si preoccupò molto della sua reputazione e temette che il suo celibato fosse una maschera per l’omosessualità; e hanno fatto tutto il possibile per nascondere questa ipotesi. Impedirono alla gente di pubblicare lettere. Cominciarono davvero a sorvegliare la sua reputazione, e questo andò avanti per molto tempo. C’è il caso di Hendrik Andersen, uno scultore norvegese americano molto bello che viveva a Roma, a cui James scrisse una settantina di lettere. Nel 1930, Andersen chiese alla famiglia James il permesso di pubblicarle. E loro risposero di no. Queste lettere sono state pubblicate per la prima volta in un’edizione bilingue in italiano e in inglese nel 2017. Negli anni Novanta gli studiosi ricominciarono a occuparsi di James. E così abbiamo iniziato a scoprire informazioni biografiche di cui non si sapeva nulla prima. Quindi James è cambiato molto nel decennio precedente alla stesura del mio libro, The Master. Il caso di Thomas Mann è ancora più estremo. Al momento della sua morte, nel 1955, era ancora una delle persone più rispettabili del mondo. Il suo abbigliamento, i suoi modi, la sua autorità, il suo stile di prosa, i suoi sei figli, i suoi lunghi discorsi. E poi sono apparsi i suoi diari dove ci si rese conto che era una figura molto più incerta, inquieta, una persona senza il minimo senso di essere privilegiata. E che non solo i suoi sogni erano omoerotici, ma la sua visione politica era molto più incerta di quanto si pensasse. Perfino il suo rapporto con la vita domestica era più incerto. Mi sono interessato molto a questa idea: la distanza tra quello che TS Eliot chiamava “l’uomo che soffre e la mente che crea”, oppure l’uomo seduto a colazione e la figura alla scrivania. Mi è sembrata una sorta di dramma affascinante. Non mi interessa la biografia. La biografia è una forma di informazione, ha note a piè di pagina, racconta cose che accadono in ordine cronologico. A me interessa l’illusione, creare l’illusione di essere nella stanza, cercare di costruire la stanza e creare l’atmosfera, evocare il personaggio in modo che lo si veda e forse lo si senta. Ma soprattutto mi interessa creare un’atmosfera in cui si sperimenta ciò che lo stesso Thomas Mann sta vivendo in quella stanza. Che anche il lettore lo stia vivendo. In teoria si tratterebbe di una sorta di terza persona intima. Se lo si fa in prima persona, la voce è distante dal lettore. La voce è l’altra persona che parla. Ma se lo si fa in questo modo, si inizia a sentire, ricordare, sperimentare, soffrire, godere attraverso la sua lente. L’idea è che non si lasci entrare nella narrazione nessun altro punto di vista, soltanto il suo. Tutto ciò che accade, c’è lui nella stanza. Vediamo altri personaggi ma non vediamo il mondo attraverso i loro occhi, vediamo solo attraverso i suoi occhi. Quindi è necessaria una vera e propria disciplina. Questa è la teoria. Ovviamente, è un’idea molto ambiziosa. Ma l’ambizione è proprio questa. Creare un’illusione così tesa e implacabile che il lettore sperimenti il mondo attraverso gli occhi di un’altra persona".
L’idea dello scrittore come mago che crea un’illusione fa venire in mente una cosa che lei ha in comune con Mann. Avete stili molto diversi, certamente, eppure siete entrambi estremamente attenti alla chiarezza. Si preoccupa di essere chiaro? Si trova mai in difficoltà in questo senso?

"Mi chiedo se questo sia un difetto. Perché l’idea che si sta cercando di registrare è di una complessità enorme. Ora, se si usa uno stile semplice, si deve stare molto attenti a non semplificare le idee, e quindi si combatte continuamente su questa questione. E credo che il romanzo, a differenza del film o del dramma, abbia una posizione unica in cui si può mostrare ciò che qualcuno sta pensando e poi si può mostrare ciò che sta dicendo, e si può mostrare la grande distanza tra queste due cose per tutto il tempo. Nel caso di Mann, si può anche fare in modo che sia prevalentemente muto. Nel libro non parla molto. Suo fratello, sua moglie, i suoi figli parlano, ma lui per la maggior parte del tempo si limita a guardare. E ricorda, sente e si stupisce; e tutto questo si può fare in un romanzo, ma sarebbe molto difficile farlo in un’opera teatrale. Il romanzo si presta a forme di silenzio e di trattenimento. Si lavora tanto su questo, ma lo stile è sempre una preoccupazione".

C’è un saggio del 1914 intitolato “L’artista” dove Thomas Mann traccia una distinzione tra cultura e civiltà. E dice che la cultura può abbracciare gli oracoli e la magia e la pederastia e i sacrifici umani e l’Inquisizione, l’autodafé, la stregoneria, la caccia alle streghe, e le atrocità più colorite. Mentre la civiltà è ragione, illuminismo e scetticismo. In altre parole, una sorta di patina, un fenomeno di superficie che porta alla dissoluzione dello spirito. Penso a quel sogno orgiastico e delirante che ha il civilissimo Gustav von Aschenbach ne La morte a Venezia come a una possibile illustrazione di questa idea. Ma poi penso anche a Mann come qualcuno che si comportava pubblicamente come se fosse un faro di civiltà. Forse questo era qualcosa che gli pesava, essere quel tipo di scrittore civile. Ne "Il mago" emerge un Mann più in sintonia con il suo lato irrazionale e persino pericoloso.

"Questo solleva una questione davvero importante. Mann scrisse una grande quantità di sciocchezze tra il 1914 e il 1918. E dobbiamo vederle nel loro contesto storico. Se si guarda a ciò che Freud scrive intorno al 1914 e al suo tentativo di diventare un austriaco, oppure a Henry James, che impazzisce in Inghilterra nel 1914 come patriota, vuole ottenere la cittadinanza, vuole stare con le truppe, si trova che questo accadde a un gran numero di persone in tutta Europa nel settembre 1914. La gente cominciò a formulare teorie per cercare di capire perché la Germania avesse il diritto di essere così paranoica. Mann dovette iniziare a fare delle distinzioni, come quella tra cultura e civiltà. L’idea che, in qualche modo, c’era un’antica Germania che emergeva nelle canzoni, nella musica, ma anche, come dice lei, in varie forme di stregoneria, e che questo non si estendeva alla Francia, che la Francia aveva davvero una civiltà. Questo tipo di distinzioni, se usate politicamente, sono terrificanti perché portano a un nazionalismo, direi, grottesco. Ben presto abbandonò tutto questo, tranne quando arrivò a Doktor Faustus, dove iniziò a vedere se poteva ironizzare e giocare con questo concetto e drammatizzarlo ulteriormente, ma poté farlo perché nel 1914 lo aveva davvero inteso. C’è stato quindi un periodo in cui gli atavismi e l’intera nozione di essere tedesco significavano qualcosa per lui. In seguito si rese conto che, ora che aveva questa conoscenza, poteva rispondere a Hitler in un modo più forte perché era stato vicino a quei sentimenti per alcuni mesi durante la guerra, incoraggiato anche da Ernst Bertram che divenne una sorta di intellettuale nazista e a cui dopo la guerra fu proibito di insegnare. Si tratta quindi di una storia complicata, perché la parte del 1914 non era qualcosa di cui andava fiero e di cui non voleva che gli americani sapessero molto. Come si vede, dal punto di vista politico, Mann è una figura molto più complessa. E naturalmente anche dal punto di vista sessuale, voglio dire che non lo si può incasellare; ma sono contento che lei abbia sollevato la questione della cultura e della civiltà, perché lui ci pensò davvero a fondo per quei pochi anni e non arrivò a nulla e si rese conto, una volta finita la guerra, che queste idee avevano portato la Germania a stazioni ferroviarie piene di persone paralizzate dalla guerra, giusto?".

Mann ha imparato la lezione. L’Occidente, invece?

"Viviamo ancora all’indomani della Seconda Guerra Mondiale. Siamo molto vicini all’atrocità dell’Olocausto, all’ascesa della Germania e all’idea che un uomo forte eletto dal popolo si elevi attraverso il sistema democratico e diventi un selvaggio. Così abbiamo Viktor Orban e Donald Trump. Ma non avevo mai pensato all’idea di un caso di paranoia nazionale che avrebbe portato a un uomo forte pronto a entrare in guerra fino a quando, naturalmente, Putin ha invaso l’Ucraina. Allora mi sono reso conto che siamo tornati al 1914, a quel periodo. E ho pensato che dobbiamo studiarlo di nuovo molto da vicino. Certamente uno dei modi per studiare è quello di guardare a ciò che Thomas Mann stava pensando dal 1914 al 1918".

Tornando alla questione del genere, ha detto prima di non essere interessato a scrivere una biografia perché le biografie sono fondamentalmente informazione. In effetti il suo romanzo è guidato da tutto tranne che da informazione. La vita è costituita dai dialoghi, dalle vignette che lei compone, viste attraverso la vita interiore di Mann. Come è arrivato a questa struttura formale?

"Sono arrivato, credo, per difetto, in quanto la mia idea iniziale era di incentrare il libro sulla stesura del Doktor Faustus a Los Angeles, tra il 1947-48, e di muovermi avanti e indietro da lì. Ma ho scoperto che non era possibile farlo, che era necessario che lo scoppio della Prima Guerra Mondiale fosse una sorpresa per il libro, e anche l’ascesa di Hitler. Con un flashback si sarebbe persa l’idea di quanto fossero improbabili e inaspettate queste cose. Così ho deciso di tornare alla goffa forma della cronologia. Il buon vecchio e goffo “e poi, e poi, e poi, e poi”. Ovviamente, mi sono permesso di tralasciare tante cose. Nel libro c’è ben poco di Giuseppe e i suoi fratelli, ci sono cose per le quali non riuscivo a trovare spazio, che non mi interessavano e per le quali dovevo andare avanti. E la grande domanda che mi sono posto è stata: come si fa un dialogo in una lingua straniera di cent’anni fa? Soprattutto in tedesco, con il verbo in quella strana posizione della frase. Ovviamente ho pensato: “Non esagerare con l'estraneità”. Cercavo di avvicinarmi al tipo di dialogo che si trova in un romanzo di Hemingway degli anni Venti. È nitido, è breve con molte interruzioni e scende lungo la pagina. Ma anche per spezzare, come dice lei, con vignette e scene, piuttosto che cercare di scrivere un’ampia narrazione. Ho cercato di trovare dei momenti e di dedicare loro molta attenzione. Alcuni di essi possono sembrare insignificanti, ma in realtà costruiscono sempre il personaggio, il lettore viene sempre indirizzato verso qualcosa".
Come si diceva prima, questo è il suo secondo romanzo sulla vita interiore di uno scrittore consumato o segnato da un forte omoerotismo. Ma un’altra cosa che James e Mann hanno in comune è che hanno vissuto la maggior parte della loro vita all’estero. In che modo questo ha condizionato la loro scrittura?

"Credo che per Thomas Mann non facesse differenza. In altre parole, diceva di portare la Germania con sé ovunque andasse. Lasciare Lubecca è stata la grande perdita per lui. Quando suo padre morì, era un adolescente e vendettero tutto. Quel mondo di piccolo principe in una piccola città anseatica era finito, e da quel momento in poi non era più nessuno, era un fantasma per le strade, sia a Monaco che a Pacific Palisades. Mi interessava quella perdita iniziale e il modo in cui l’ha seguito. Ma credo che James sia diverso perché, a prescindere da dove avrebbe vissuto in America, avrebbe sentito che la vera autorità era altrove, a Parigi o a Londra. Quindi, in un certo senso, era più facile farli uscire dal loro entroterra, dal loro ambiente naturale, dove si trovavano le loro famiglie, per avvicinarli alla solitudine. Isolandoli si può drammatizzare in modo ancora più intenso. Così, una volta portato Thomas Mann fuori da Lubecca, si può lavorare con lui. Con James, invece, non ha una moglie e sei figli. Quindi quegli elementi che potevo usare ne Il mago non erano disponibili in The Master, dove ci sono molti meno dialoghi e c’è molto meno colore. L’altra cosa che mi interessava davvero era il matrimonio di Mann. Sarebbe stato allettante fare di Katia la moglie sofferente di un omosessuale. È un tropo con cui si potrebbe lavorare, ma non è stato così. Abbiamo il suo libro Le mie memorie mai scritte. È difficile per noi immaginare quanto fossero bohémien i Pringsheim, quanto fossero ricchi e liberi di pensare, e come il matrimonio con un omosessuale non sarebbe stato una cosa così importante per lei; si è sposata liberamente e sembra che ne abbia tratto il meglio. Il modo in cui questo potrebbe aver funzionato è per me una storia molto interessante".
Stiamo parlando sempre di colossi della letteratura: Mann, James, e so che lei tiene regolarmente un corso sull’Ulisse di Joyce alla Columbia University. Pensa mai che figure come queste abbiano esaurito il genere del romanzo?

"Ho sentito certi scrittori dire – soprattutto riguardo Joyce – che se sei irlandese lui è sempre dietro le tue spalle a guardarti. È una sciocchezza. Voglio dire, non è vero. Quando la scrittura è così privata, personale e incerta, l’idea che qualcuno che non hai mai incontrato ti stia osservando mi sembra assurda. Sembra una cosa che gli scrittori dicono nelle interviste, ma non è vero. La questione è che ti viene in mente qualcosa di più piccolo, che può essere un ricordo o il ritmo di una frase, e lo scrivi e poi vai avanti. Ma l’idea che “oh, dal momento che queste grandi figure erano lì, tu con le tue piccole frasi malinconiche, sai, dovresti smettere” non credo che nessuno l’abbia mai fatto. Non credo che i cantanti lo facciano. Non credo che i pittori lo facciano. La questione di Ulisse è che rimane la cosa più affascinante da studiare. Per me è un grande conforto, nella mia vecchiaia, avere questo libro. L’anno prossimo lo insegnerò di nuovo e questo soddisfa qualcosa in me che mi diverte molto. E non lo trovo un ostacolo a nulla, il che potrebbe dire qualcosa su di me, nel senso che il mio modo di lavorare è su una scala molto più piccola. Se fossi un artista visivo probabilmente lavorerei con la matita".

Concludiamo con i premi letterari. Lei ne ha vinti molti.

"E non ne ho vinti molti altri (ride)".

Cosa significa per lei vincere un premio come il Gregor Von Rezzori?

"L’Italia, come tutti i paesi europei, è un luogo difficile per chi scrive narrativa. I dati di vendita sono molto bassi e anche se un libro viene pubblicizzato molto, poi ci si rende conto che la gente non lo legge. Ci sono solo libri che tutti vogliono leggere, e sono tutti scritti da Elena Ferrante, capisce? E sì, sa, probabilmente non si tratta di un’attenuazione della cultura letteraria, ma solo di libri che la gente vuole leggere"

A proposito, ora sono tutti scritti da Erin Doom.

"Ecco. Comunque, allora, direi che il premio è solo un modo per attirare l’attenzione sul libro. E per quanto mi riguarda, è un bene perché voglio lettori. So che non sto attirando milioni di lettori, anche se questo andrebbe bene. Voglio solo che qualcuno che non avrebbe mai pensato di comprare il libro, lo guardi di nuovo e pensi “forse potrei dare un’occhiata a questo”. Il premio mi aiuterà in questo senso e non mi danneggerà".

Il suo rapporto con la Fondazione Santa Maddalena risale a molto tempo fa.

"Molti scrittori che vi si sono recati hanno trovato un’Italia chiusa a noi stranieri. Mary McCarthy scrisse un ottimo saggio sull’essere un turista in Italia, sulla sensazione di essere lasciato fuori tutto il tempo. Uno guarda e c’è una stanza illuminata da una lampada, oppure può incrociare qualcuno per strada e pensare che non sarà mai in grado di parlare in quel modo, di pensare in quel modo. E il modo in cui gli italiani affrontano il loro patrimonio, persino il modo in cui gettano le parole “centro storico” come se fosse una cosa normale da avere in una città… Il sentimento che Santa Maddalena ha dato a molti scrittori negli ultimi vent’anni è stato quello di dare un’occhiata a come funziona l’Italia. Nei due mesi in cui sono stato lì, durante la mia prima visita, ho scritto il primo capitolo de The Master e il primo capitolo del romanzo che poi è diventato Nora Webster. L’avevo programmato in qualche modo, ma forse non sarebbe mai successo, e qualsiasi cosa sia accaduta lì a livello psichico o immaginativo per me è stata molto ricca. È stato anche incredibilmente interessante trovarsi a un tavolo con degli italiani. Voglio dire, ci sono cose molto, molto divertenti che gli americani non sanno. Non sanno che non si possono indossare i pantaloncini la sera. Unirsi agli italiani nel deplorare gli americani è stato tremendamente divertente. Anche se questo è solo l’inizio di tutta una serie di buone maniere che sfociano lentamente e serpentinamente nella morale".