L'ultima grande fuga dalla Ddr - la Repubblica

Robinson

La barriera tra Neukölln (Berlino Ovest) e Treptow (Berlino Est) nel novembre del 1961 

L'ultima grande fuga dalla Ddr

Cronache del muro / 8. Fin dal 1961 centinaia di berlinesi tentavano di saltare il Muro a costo della vita. Ma nel 1989 iniziano a consegnarsi all’ambasciata della Germania Ovest. Per Honecker e la Cortina è l’inizio della fine

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Prima qualcuno abbassò le tendine, in modo che non si potesse più guardare dentro. Poi a mezzogiorno di mercoledì 9 agosto 1989, l’usciere della piccola palazzina nel centro di Berlino Est, Hannoversche Strasse 28-30, scese in strada, chiuse i due battenti della porta e sbarrò l’ingresso della rappresentanza diplomatica della Germania occidentale aperta nel cuore comunista della Ddr. Era un tentativo di isolare la crisi, sequestrandola per non farla esplodere. Dentro, nel salone al pian terreno dove si tenevano i ricevimenti, e anche nei due uffici vicini, erano accampate da giorni decine di famiglie tedesco orientali, che si erano consegnate all’avamposto diplomatico di Bonn chiedendo aiuto per scappare, raggiungere l’Occidente.

Lunedì, all’improvviso, erano arrivati in 130, adesso erano 160. Uomini soli, con un fagotto, ragazzi con la fidanzata e due zaini, gruppi con padre, madre, bambini coi quaderni di scuola e anche il nonno. Erano usciti di casa alla spicciolata, come per una gita o fingendo di dover fare la spesa, al braccio la borsa del “non si sa mai” che di solito serviva a raccogliere quel poco che si trovava nei negozi, e oggi invece nascondeva vestiti, biancheria, maglie e camicie per l’avventura. Perché un tam tam sotterraneo, ostinato e ribelle li aveva avvertiti, tutti, che forse si poteva provare a fuggire, ma passando per la prima volta attraverso la porta ufficiale dell’altra Germania, nemica.
Il memoriale per Ida Siekemann, prima “vittima” del Muro 
È una rivoluzione impensabile. Qualcosa di sconosciuto, impalpabile eppure chiarissimo attraversa l’aria di Berlino Est e infonde coraggio, dà speranza, scuote la rassegnazione. Voci, segnali, impressioni. Si dice che altri cento turisti della Ddr siano penetrati nell’ambasciata tedesco-occidentale in Ungheria, ventitré in quella di Praga, cinque a Varsavia, e tutti chiedano di andarsene, di non tornare indietro. Ma è qui a Berlino lo scandalo. Nel mezzo della città murata, castello e simbolo di tutta la Ddr, l’istinto di libertà ha portato quaranta famiglie a cercare la via di fuga proprio nel palazzo dell’altra Germania, sede del nemico e accesso all’Occidente in mezzo all’universo comunista: come se fosse il cancello attraverso cui si entra in un’altra dimensione, il varco politico della fantascienza che con un solo passo trasforma i sudditi in cittadini.

Quel passo aveva dovuto aspettare 28 anni. Di colpo era diventato semplice l’impossibile, avvicinarsi a quell’indirizzo sotto gli occhi di un Paese intero, spingere la porta ed entrare, una volta per tutte. Ma per riuscirci, si era dovuta spostare tutta l’inerzia della paura cresciuta nel dopoguerra, era stato necessario superare il grande interdetto della Guerra fredda, che sovrastava il Muro avviluppandolo, e anzi lo giustificava. Un cumulo di azzardi disordinati ma univoci spingeva ormai da mesi contro quella porta, insieme con scricchiolii e cedimenti imprevisti nel centro e nella periferia del reame dell’Est, costruito per durare per sempre.L’impero traballava, man mano che il coraggio della popolazione incredula cresceva, e la debolezza del potere sembrava trasferirle il coraggio dell’inaudito, grazie alla potenza rivelatrice dello straordinario quotidiano che assediava Mosca e Leningrado: quel Solgenitsyn ad esempio, il grande eretico, che appare per la prima volta alla televisione sovietica, intervistato per un’ora; quel professor Oleg Adrianov, direttore dell’istituto per lo studio del cervello, che sonda la materia cerebrale di Lenin e di Stalin, cercando la radice del pensiero comunista e della tirannia; quello sconosciuto che chiede cinque miliardi a Gorbaciov perché ha trovato in un baule duemila obbligazioni del periodo zarista, e vuole che vengano onorate adesso; quel viceministro licenziato a Mosca dopo la vergogna di una coda lunga un intero isolato di via Kuznetski Most per trovare il sapone che manca in tutta l’Urss, così come mancano ben 380 milioni di profilattici dei 600 milioni che il piano quinquennale, magnanimo, inutilmente prevedeva.

La fuga di Frieda Schulze dalla finestra del suo appartamento, 1961, Bernauer Strasse 

Per finire con la famosa attrice Natalya Negoda che appare seminuda su Playboy, con gli occhiali sulla punta del naso e in mano una copia della Literaturnaja Gazeta: e a questo punto si capisce che nel disgregarsi del presente comunista e nell’incertezza del futuro cresca l’irrazionale e proliferi il paranormale, con guaritori e santoni, i dischi volanti che sbarcano creature senza testa nel villaggio di Kharovsk, la donna che vola a Minsk, il gatto che parla a Baku, i Domovoy, vecchi spiriti dispettosi e fedeli tornati nelle case a spostare gli oggetti sussurrando nei comignoli, le auto che partono da sole lungo il fiume Ghek-Ghek risalendo la collina e il buonsenso, e trasmettendo fin qui, a Berlino, il segnale che la forza di gravità sovietica si stava esaurendo ed era possibile osare, e provare a sfidarla per andarsene.

Si poteva dunque fuggire così, dopo tre decenni in cui il Muro aveva trasformato la topografia in ideologia, cementando l’orizzonte e aprendo un fronte in mezzo alla città divisa? Era il velo dell’incubo che si sollevava. Per 28 anni la fuga era stata l’ossessione nascosta, inconfessabile, folle nei suoi progetti surreali e nei suoi strumenti poveri, contrapposti alla follia titanica e monumentale del Muro. Bisogna sempre ricordare che quando la grande barriera calò a imprigionare la capitale, bloccò uno scambio vitale, naturale, spontaneo: la frontiera tra le due mezze città veniva attraversata quotidianamente da 500 mila berlinesi, in 81 varchi di transito, e nell’ultimo anno prima del blocco di pietra i mezzi di trasporto di Berlino Ovest avevano venduto 30 milioni di biglietti a prezzo ridotto per gli abitanti della zona sovietica in visita. Di colpo tutto questo è saltato. Col Muro 53 mila abitanti dell’Est devono rinunciare al loro impiego e al contratto di lavoro a Berlino Ovest, come non possono più proseguire gli studi oltre frontiera 1100 scolari della scuola primaria, e 530 studenti.

Il sentimento è quello della prigione: impediti, ingabbiati, sequestrati. Come in galera, si guarda il cielo, l’acqua, il sottosuolo e si fantastica la fuga. Qualcuno non aveva nemmeno avuto il tempo di pensarci, perché abbacinato dal Muro che cresceva in quella notte tra il sabato e la domenica 13 agosto 1961, era riuscito a scappare prima di essere inghiottito definitivamente dal Paese del filo spinato. Nelle prime due notti fuggirono in 69, mentre i Vopos correvano in Bernauer Strasse, dove la gente si gettava dai tetti coi materassi, tentava di calarsi dalle finestre che la polizia murava, appesa alle corde per stendere la biancheria.

I primi spari arrivarono quando il Muro aveva appena un giorno, il lunedì, contro un ragazzo e una ragazza che si erano gettati nel canale e riuscirono a raggiungere comunque l’Ovest. Dieci giorni dopo il sarto Günter Litfin che si era calato in acqua di notte nel porto di Humboldt per raggiungere a nuoto la riva occidentale, fu colpito dal proiettile di una guardia quando aveva già compiuto metà della traversata, e fu ripescato cadavere. Dunque si poteva morire, i proiettili dovevano entrare nel conto, il calcolo diventava estremo, radicale. Scappare comportava il rischio di una fucilata, la fuga metteva in palio la vita, in ballottaggio con la libertà. Eppure nel primo mese 418 persone tentarono di andarsene, e riuscirono a varcare il Muro.

Nel primo anno, le guardie di frontiera spararono 358 volte. L’operaio Werner Prost di 26 anni fu colpito da sventagliate di mitra al cuore, alla testa e ai polmoni a metà ottobre, dopo che era saltato nel canale della Sprea, Axel Bruckner fu ucciso all’inizio dell’autunno perché scappava a piedi, a dicembre un battello della dogana arpionò con sei uncini Ingo Kruger, che a 22 anni cercava di attraversare il canale dentro uno scafandro, prima di Natale Dieter Wohlfahrt, un ragazzo austriaco di 21 anni, fu ferito a morte mentre tagliava il filo spinato a Berlino-Staaken, per far fuggire una cugina ad Ovest.

Bisogna aggiungere i morti senza nome, sconosciuti, gli annegati nella fuga come Erna Kelm, infermiera di 53 anni che si era nascosta i documenti nella cintura, o come l’elettricista Philipp Held, diciannovenne, che non riuscì ad attraversare la Sprea. E i suicidi del Muro come Ida Zehnter di 81 anni, che il 29 settembre ’61 si è uccisa in casa col gas da illuminazione, dopo il divieto di trasferirsi a Berlino Ovest dalla figlia e dai nipoti, lasciando scritta l’ultima richiesta come una maledizione: seppellitemi ovunque, ma non nella terra della Ddr.

Ma le notizie di morte non fermano l’avventura della grande evasione, il racconto popolare delle fughe riuscite, a partire dal 23 agosto ’61, con 13 persone che evadono dalla zona sovietica attraverso la fognatura che porta a Berlino Ovest, non ancora sigillata dalla polizia. La notte senza luna del 9 settembre, un sabato, il Muro ha quasi un mese di vita quando una coppia di Potsdam riesce ad attraversare a nuoto il fiume Havel, trascinando con sé il figlio di 18 mesi in una piccola scatola di metallo impermeabile legata ad una corda. Otto giorni dopo tre uomini sfondano lo sbarramento davanti al numero 68 di Bouchéstrasse con un camion postale di 6 tonnellate e mezza, e sbucano a Ovest dopo lo schianto che apre un varco nel Muro ma più ancora nell’immaginario sovreccitato del Paese.

C’è chi sega il reticolato alla stazione merci di Schönholz, scappando con quattro bambini, chi fugge nel giorno dell’anniversario della Rivoluzione d’ottobre seguendo un convoglio militare e issando mazzi di fiori sul tetto, come se volesse raggiungere il monumento dei caduti sovietici, ingannando le guardie. Una ragazza di 19 anni arriva a Ovest nascosta nel cofano dell’auto del fidanzato, nonostante la sparatoria alla frontiera e i 6 buchi dei proiettili nella carrozzeria. Un ingegnere di 33 anni passa il punto di controllo sulla Friedrichstrasse con un’uniforme americana, noleggiata in un negozio di costumi. Un’auto privata con due uomini e tre donne sfonda la barriera all’incrocio della Chausseestrasse con la Liesenstrasse e resiste all’assalto dei Vopos che sparano quasi cento colpi, perché è corazzata con placche di acciaio e di cemento armato: il cemento contro il cemento. Ma anche l’alcol, quando è il caso. L’8 giugno del ’62 un gruppo di cinque donne e otto uomini ubriaca il comandante del battello “Friedrich Wolf” e il meccanico di bordo, li rinchiude nella cabina blindandola con lastre di ferro e riesce ad arrivare a Ovest, fino allo sbocco del Landwehrkanal.

Quelli del primo anno del Muro sono i racconti a bassa voce dell’incredulità e della disperazione. Scappano soprattutto i giovani, che hanno la vita davanti e se la trovano spezzata, ostruita. Ma scappano anche i vecchi, che hanno provato a vivere senza i figli e non ci riescono, come quella donna presa a bastonate dalle guardie di frontiera il 4 settembre del ’61, perché faceva segnali alla figlia di là dal Muro. È una ribellione individuale, sorda e silenziosa, maturata in segreto, nata nell’oppressione, organizzata nell’ossessione, decisa nell’angoscia. La polizia reagisce con 3041 arresti in quattro mesi, e più della metà riguardano cittadini che avevano tentato di fuggire a piedi. È un dato impressionante, forse più di ogni altro numero, anche quello dei morti: racconta un esercito invisibile di uomini e donne che non si conoscono e marciano nel buio per scalare a mani nude quel muro illuminato dai riflettori, come la scena universale dello scontro metafisico tra l’arbitrio e la libertà, tra i sudditi e il potere, tra la discrezionalità sovrana e l’ostinazione individuale, che non si rassegna nemmeno davanti all’enormità di un divieto calcificato per sempre nel Muro.
Proprio la sproporzione immane delle forze e la tensione irresistibile verso la libertà smuovono l’Occidente, dove nascono gruppi di studenti e organizzazioni a sostegno delle fughe, che falsificano passaporti, mandano materiali a Est, muovono corrieri, costruiscono reti, vigilano sui contatti. E scavano tunnel. Il primo a provarci (dopo una galleria che parte dal cimitero di Pankow, nascosta sotto una tomba, con una lapide che maschera l’ingresso) è Harry Seidel, corridore ciclista della Ddr che è fuggito a Berlino Ovest per evitare di essere imbottito di steroidi.

Harry collabora coi tre fratelli Becker che scavano la galleria partendo dalla cantina di casa, riescono a passare sotto il Muro e in nove giorni sbucano a Ovest liberando attraverso il tunnel 28 persone, tra cui 18 donne. Adesso Seidel vuole partire da Ovest, scavando verso Est, in un punto in cui bastano 25 metri di galleria sottoterra per beffare il Muro, i Vopos e il regime. Affiorano in un seminterrato di Berlino Est, organizzano i fuggitivi, portano in Occidente decine di persone, che vedono le luci di Berlino Ovest spuntando dal numero 35 di Heidelberger Strasse, prima che la Stasi intervenga sparando sottoterra.

I tunnel saranno più di trenta, contando gli spezzoni si arriva a 75. Si scava nella terra sabbiosa, friabile, argillosa, che dev’essere inumidita ma qualche volta è proprio la falda acquifera alta a creare problemi, bisogna organizzare una catena umana con recipienti di latta per portare fuori l’acqua e versarla in Occidente, mentre col legno si fortifica il tunnel perché non ceda. Si scava sotto i piedi della polizia, sotto il naso incattivito dei cani di frontiera, facendo i conti con la rotta al buio, sperando di centrare il bersaglio. La galleria più lunga è la numero 57, viaggia per i 145 metri che uniscono il numero 97 di Bernauer Strasse a Berlino Ovest con il 55 di Strelitzer Strasse nella città orientale, a una profondità di 12 metri sotto le fondamenta del Muro.

I giornali tedeschi occidentali finanziano gli scavi in cambio delle fotografie e dei reportage sull’avventura, le televisioni americane mandano le troupe con le lampade, vogliono i filmati. È la NBC ad aiutare economicamente due studenti italiani, Domenico Sesta e Luigi Spina che decidono di scavare un tunnel di 120 metri partendo dal cortile di una fabbrica abbandonata all’Ovest per arrivare con un lavoro di carrucole, carriole, argani, piccole rotaie, un carrello, tubi da stufa per l’aria, più due telefoni militari a manovella, esattamente nella cantina del palazzo al numero 7 di Schonholzer Strasse nell’Est.

Centrano il punto, e i corrieri organizzano i gruppi di fuggitivi, ognuno con il suo segnale di riconoscimento: passano in 29, davanti alle telecamere che li inquadrano mentre festeggiano all’uscita con la Coca Cola, prima che il tunnel si riempia d’acqua rivelando il suo segreto, a missione compiuta. Intanto Harry Seidel, il campione, verrà tradito, scoperto, arrestato, condannato all’ergastolo per aver aiutato 60 persone a fuggire attraverso i suoi sette tunnel.

Gli scavi riempirono il biennio ’63-64 con la loro epopea, rilanciata dai servizi fotografici scattati nelle gallerie, dai titoloni nei giornali americani, dall’eco a Berlino Ovest della beffa sotterranea organizzata ad Est. Poi sui rifugiati scendeva il silenzio. Arrivati al campo profughi di Marienfelde si mettevano in coda davanti all’ufficio numero 4 per l’interrogatorio di tre funzionari seduti dietro un tavolo. Aspettavano il benestare, la “Carta C” che assegnava lo status di profugo e apriva definitivamente le porte dell’Occidente. Per loro, scappati alle mitragliatrici dei Vopos, non è solo un cambio di Paese e di regime, bensì di dimensione e di condizione. Sono sempre tedeschi, ma con la loro fuga sono passati da un mondo all’altro varcando una linea che separa il prima dal dopo, e adesso hanno il Muro dietro le spalle, non più davanti come un incubo.

Poco alla volta, Berlino Ovest e la Germania di Bonn si abituano al Muro, e con Brandt l’Ostpolitik teorizzerà un modo per convivere col mostro, evitando gli spari, il sangue, i morti nel canale delle fughe. Ma la Realpolitik non cancella l’ansia di fuggire, per non aspettare, a costo di provarci coi metodi più assurdi che riescono a bucare la rigidità meccanica della sorveglianza militare comunista. Si vola sopra il Muro con un aerostato; lo si scavalca con una catapulta; lo si supera con una carrucola che scorre su un filo d’acciaio grazie a una freccia che dall’Est si è conficcata in un sottotetto dell’Ovest; lo si aggira ingannandolo al check point ufficiale, travestendo per due ore i fuggitivi da ufficiali sovietici.

Prova ad avventurarsi in cielo Michael Schlosser, un meccanico che nell’83 assembla in garage Ikarus, un aereo monoposto rudimentale di latta e plastica col motore della Trabant e tutte le saldature in vista, ma viene denunciato alla Stasi e imprigionato prima del decollo. Tenta con l’acqua del Baltico un aspirante ingegnere espulso dalla facoltà del Magdeburgo, Bernd Bottger, che nella cantina di casa a Seibnitz progetta e costruisce l’Aquascooter, un apparecchio acquatico ricavato da una bicicletta di famiglia con motore a due tempi, cui aggiunge un’elica da barca, un serbatoio profondo e un tubo d’appoggio vuoto e leggero, di ferro. In muta, maschera e pinne entra nel mare di Graal Muritz, si aggrappa al piccolo motore sottomarino e si fa trainare di notte fino al largo della Danimarca, dove una nave occidentale lo trae in salvo, insieme con la sua invenzione che dalla cantina di casa lo ha portato alla libertà.

Poi c’è l’ultimo tentativo di evasione dal sistema, due mesi prima che il Muro crolli. Mario Wachter ha 24 anni all’inizio di settembre 1989, quando entra nell’acqua fredda del Baltico nel buio delle undici di sera, per arrivare a Ovest sulla spiaggia bianca di Travemünde, dove andavano in vacanza i Buddenbrook nel romanzo di Thomas Mann, tra i cestini a sdraio colorati. Si è allenato per mesi, ma all’alba sta ancora nuotando, lo fa da 19 ore, ha già percorso 38 chilometri, è stremato quando finalmente lo avvistano da bordo del “Peter Pan”, un traghetto che fa la spola tra la Germania Ovest e la Svezia. Il capitano cala il gommone che punta sull’uomo in mare, ma proprio in quel momento si avvicina la vedetta frontaliera della Ddr, insospettita dall’agitazione davanti alla costa. Mario nuota tra la disperazione e la speranza, sa che rischia di essere ucciso o arrestato se le guardie si avvicinano a portata di fucile. Nuota come se trascinasse dietro di sé tutti i fuggitivi dei ventotto anni del Muro, tutti i piani assurdi di evasione, tutti i congegni inventati dalla febbre per la libertà. Poi il gommone arriva per primo, lo trae in salvo e lo sbarca sul ponte del “Peter Pan”, dove sviene appena dopo aver toccato il legno d’Occidente: concludendo così l’ultima fuga da quel Muro che voleva fermare anche le onde del mare.
– (Ha collaborato Andrea Tarquini)

LEGGI:
Cronache del muro/1
Cronache del muro/2
Cronache del muro/3
Cronache del muro/4
Cronache del muro/5
Cronache del muro/6
Cronache del muro/7
Cronache del muro/8
Cronache del muro/9
Cronache del muro/10


 
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