Real Steel - la recensione del film con Hugh Jackman
La recensione di Real Steel, il film di Shawn Levy con Hugh Jackman, Evangeline Lilly e Dakota Goyo
Nel Sud degli Stati Uniti il mondo delle feste di paese e dei rodeo è stato sostituito con i combattimenti fra robot. Niente più tori, anche i vaccari (o nella variante più cinematografica e chic: i cowboy) sembrano più impegnati a fare da allibratori e organizzatori di incontri fra pezzi di metallo piuttosto che sporcarsi le mani fra letame e corna. Siamo nel 2020, non troppo nel futuro, i telefonini sono sempre touchscreen, ma trasparenti, in modo che risalti meglio il logo del produttore. Sembra tutto uguale se non che il circenses è cambiato, il pubblico non si divertiva più a vedere uomini che si picchiavano, niente più pugilato. Piuttosto la violenza virtuale fra robot, nell’era dei videogiochi. Ma ad essere reali sono i sentimenti e le emozioni che Real Steel vuole suscitare. Figlio di tanti padri, magari alcuni illegittimi. È liberamente tratto da un racconto del mago della fantascienza 'vicina' e con anima Richard Matheson (quello di Io sono leggenda), è diretto dallo Shawn Levy esperto di effetti speciali per famiglie (vedi Una notte al museo). Ma nel rapporto fra un ragazzino e il suo robot, sembra forte l'impronta in Real Steel di uno dei suoi produttori esecutivi: Steven Spielberg.
Il film è la storia di un padre cinico e disilluso che ha abbandonato e non vuole sentir parlare del figlio, arrivando a venderlo, salvo poi vivere una parabola di redenzione che passerà attraverso l'esorcizzazione della sua carriera promettente ma sfortunata di pugile professionista attraverso un robot di vecchia generazione, arruginito e improbabile Davide. Un film che ripropone la solita sorpresa dell'underdog, dello sfavorito, che nella terra delle opportunità lotta per il suo sogno americano. Un Rocky in salsa uomo/robot, dopo Warrior e nel momento in cui si festeggiano i 35 anni dello stallone italiano. (A vincere è sicuramente anche il canale sportivo (Disney) ESPN che è ben presente anche qui).
Il padre che ha abbandonato il figlio non può ormai più insegnargli a camminare, allora cercherà di insegnare i movimenti della boxe al suo amato piccolo robot pugile. Qui il rito dell'allenamento non si compie sulle scale di Philadelphia, ma in una piazzola di sosta sperduta nella provincia, sempre con felpa e cappuccio di ordinanza, ma con l'obiettivo più difficile: quello di rendere umano il suo campione, di farlo trionfare contro la tecnologia esasperata dei robot di lusso, con l'esempio della grande boxe in bianco e nero, quella di Alì o di Frazier. Il cuore in fondo ce l'hanno gli uomini e non i super robot, anche se si chiamano Zeus.
Il ragazzo è l'ennesimo talento precoce sbalorditivo, si chiama Dakota Goyo e ne risentiremo parlare, crisi puberale permettendo. Un ragazzino vintage, di una maturità candida e precoce, che ama i robot vecchi e poco tecnologici e va in giro con la maglietta dei Van Halen (ma qui sospettiamo lo zampino di un altro grande personaggio della California di fine anni 70).
In una ambientazione, riuscita, poco futuristica, spesso di giorno e in un sud un po' western, il film è in realta profondamente classico, divertente e piacevole, non cerca niente di nuovo né si perde qualche scivolata retorica qua e là, ma in fondo ci ricorda come lottare vale la pena davvero se il premio finale sono un figlio mai conosciuto e una 'adriana' affascinante come Evangeline Lilly.
- critico e giornalista cinematografico
- intervistatore seriale non pentito