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Los Lobos

Los Lobos

I lupi erranti del latin-rock

Fortemente influenzati da country, folk, R&B e blues, i lupi di Los Angeles hanno coronato un percorso di ricerca e ibridazioni musicali, conquistando anche un inatteso successo commerciale. I quattro chicani guidati dal duo Perez-Hidalgo sono stati i primi a imporsi al pubblico bianco dai tempi di Ritchie Valens, che omaggiarono con una trascinante cover di "La Bamba"

di Lorenzo Donvito

Life In East LA

David Hidalgo e Louie Perez frequentavano la stessa scuola al principio degli anni 70, erano dei rock’n’roll kids cresciuti ascoltando Jimi Hendrix e Rolling Stones e suonavano nei loro gruppi da college. Fairport Convention, Randy Newman e Ry Cooder non si trovavano esattamente al centro delle discussioni musicali tra ragazzini, ma erano tra i favoriti dei due, che insieme iniziarono a scrivere canzoni e ancora non hanno smesso.
Nella parte est di Los Angeles, comunemente chiamata East LA, vivono all’incirca 130mila persone, l’85% sono messicane, anzi chicanas (cioè americani di origine messicana) come Perez e Hidalgo che, seguendo lo spirito di riscoperta delle proprie origini, tra gli altri di The Band (“Music From The Big Pink”, 1969) e Fairport Convention (“Liege & Lief”, 1969), si lanciarono sulle canzoni dei loro genitori. “Semplicemente successe - racconta Perez - non fu una decisione”. L’esplorazione musicale iniziò con il sound di Veracruz del nord del Messico, caratterizzato dallo stile son jarocho, risultato della fusione di varie culture: africana, spagnola, indigena, spesso dai ritmi rapidi come il rock’n’roll - “La Bamba” originariamente viene da lì. Iniziarono a studiare, “le stesse dita che suonavano l'assolo di 'Sunshine Of Your Love' ora si dedicavano a imparare la musica mariachi", ricorda Hidalgo, risalendo a un’enormità di stili musicali della terra dei loro genitori di cui non avevano mai sentito parlare. Il genere norteño, dei confini settentrionali tra Messico e Usa, si rivelò il più influente attraverso i suoi due principali stili, facilmente rintracciabili nei dischi del gruppo, il corrido, una narrazione dettagliata usata durante più di un secolo per descrivere praticamente tutto, dalle campagne di bestiame alle campagne sindacali, e la ranchera, una ballata pregna di dolore, perché come dice Perez: "Ranchera is the blues".

I tempi stavano cambiando, un’altra volta, all'inizio degli anni 70 il cosiddetto “Rinascimento Chicano” provocò una resurrezione dell’identità messicana in tutti gli immigrati. Nei college della California emersero corsi di studio messicano-americani e giovani muralisti portarono l'eredità di Diego Rivera e David Siqueiros negli edifici e nei cartelloni di East LA. "Suonavamo spesso in scuole, assemblee studentesche e programmi culturali”, ricorda Hidalgo. I sogni dei 60 erano finiti e la contestazione dei 70 trovava la sua colonna sonora nel punk per alcuni, nei corridos e rancheras per i due bizzarri giovani chicanos di East LA, a cui si unirono, nel ’73, Cesar Rosas e Conrad Lozano, che vivevano nella stessa parte della città (Steve Berlin, in uscita da The Blasters, sarebbe arrivato nel 1983).
Nel ‘74 suonarono il loro primo show in una “tardeadas”, un evento organizzato nella comunità chicana durante i pomeriggi del fine settimana. Si presentarono con barbe e capelli lunghi come dei veri rocker finché non tirarono fuori gli strumenti tradizionali, che avevano imparato a suonare con l’aiuto dei musicisti locali più anziani. Presentarono due set, uno degno di una band mariachi messicana e uno di cover rock’n’roll, accontentando tutti, giovani e vecchi, che offrirono loro da bere non finendola di benedirli. Perez ricorda: “Venivamo da una situazione in cui i nostri genitori volevano darci una vita migliore rispetto a quella che avevano avuto, è stato strano scoprire che invece quelle vite erano dentro di noi”.

Non c’è bisogno di aggiungere spiegazioni per il titolo del loro primo disco: Los Lobos Del Este De Los Angeles (Just Another Band From East L.A.) (1978), autoprodotto e con temi celebri della tradizione latino americana, come “Sabor A Mi”, “Celito Lindo”, “Guantanamera”, alcuni tradizionali e una sola composizione di Hidalgo, "Flor de Huevo".

Durante i seguenti dieci anni i Los Lobos divennero tra i più importanti rappresentanti del mondo chicano in California (come testimonia quest documentario televisivo del 1975), Perez ricorda dalle pagine del suo libro (“Good Morning, Aztlan: The Words , Pictures and Songs of Luie Perez”, 2018): “Se sei chicano e ti sei sposato tra il ’73 e l’80 a East LA, probabilmente i Los Lobos hanno suonato al tuo matrimonio”. E non solo: battesimi, sfilate, feste, celebrazioni del Cinco de Mayo (nel 1862 la battaglia di Puebla, la prima vittoria dell'esercito messicano contro quello, molto più organizzato, francese) fino alla noia, ma ottime per farsi pagare. “Ci nutrivano”, ricorda Hidalgo. Poi entrarono nel circuito dei ristoranti messicani americanizzati e provarono a suonare un po' di rock’n’roll visto che gli strumenti elettrici se li portavano sempre dietro, ma furono buttati fuori: too loud!

“La Bamba” e non solo

Finalmente, dopo un concerto dei Blasters, conobbero il cantante Phil Alvin e, parlando di norteños e Flaco Jimenez (il maestro della fisarmonica tex-mex), riuscirono a farsi mettere in contatto con la Slash Records (poi Warner Bros), un’etichetta punk-rock che li mandò ad aprire alcuni show degli stessi Blasters e dei Public Image Ltd (il gruppo di John Lydon, ex-Sex Pistols) quando il pubblico, in piena rivolta durante il loro set acustico, lanciò sul palco bottiglie di birra e quant’altro.

Il primo Ep per la Slash …And A Time To Dance (1983) e i seguenti Lp How Will The Wolf Survive (1984) e By The Light Of The Moon (1987) furono co-prodotti da T-Bone Burnett (chitarrista di Bob Dylan durante la Rolling Thunder Revue, produttore di Roy Orbison, John Mellencamp, Elvis Costello, Brandi Carlile, Natalie Merchant e tanti altri) e Steve Berlin. Una trilogia dal sound profondamento americano, continuamente disturbato da infiltrazioni messicane, guarda caso fino al momento intraviste nei Blasters ma anche in Ry Cooder e Willie de Ville; comunque una novità nel panorama dei primi anni 80, quando ancora si raccattavano i cocci degli strumenti spaccati durante i 70, preparandosi a sostituirli con una valanga di sintetizzatori.
Tra i sette pezzi del primo Ep, “Anselma”, cover in spagnolo di una canzone norteña, vinse un Grammy e fece esaurire rapidamente le prime 50 mila copie, consentendo al gruppo di avere abbastanza soldi per comprare un furgone e girare per la prima volta gli Stati Uniti. La miscela di stili messicani (quasi tutte cover all’inizio ma poi abilmente costruite dall’unico spagnolo parlante, Cesar Rosas) con rapidi rock’n’roll (“Let's Say Goodnight”, “How Much Can I Do”) e r&b, spesso swingati (“Walking Song”, “How Do You Do”) caratterizza il disco, elevando la fisarmonica, il sassofono, il guitarrón alla pari delle chitarre elettriche. La cover di “C’Mon Let’s Go” di Ritchie Valens butta le reti per pescare nella storia del giovane musicista chicano morto nel 1959 in un incidente aereo insieme a Buddy Holly e The Big Bopper. Qualche anno più tardi, la famiglia di Valens avrebbe approvato la produzione del film “La Bamba” (1987) solo se le canzoni di Richie le avessero suonate i Los Lobos.

Il titolo di un articolo del National Geographic ispirò Louie Perez a scrivere il testo della title track del loro primo Lp, How Will The Wolf Survive? (1984), accostando la lotta del gruppo per vivere di musica negli Stati Uniti mantenendo le radici messicane a quella di sopravvivenza del lupo: "Era come il nostro gruppo, la nostra storia: cos'è questo animale che le case discografiche non riescono a capire? Ci verrà data l'opportunità di farlo o no?". La rivista Rolling Stone inserirà l’album al trentesimo posto tra i 100 migliori degli anni 80 e al numero 431 tra i 500 migliori di sempre.
L’iniziale “Don’t Worry Baby” è un blues dalle chitarre sanguinanti e un riff mozzafiato scritto da T-Bone Burnett con Cesar Rosas inaugurando la serie di pezzi che ne farà, oltre alla principale voce spagnola, il bluesman dagli occhiali neri. David Hidalgo si concentrerà a mischiare le carte tra soul e folk-rock, ripulendo il sound strascicato e cajun di John Fogerty e Dr John con sottili melodie soul che sfociano in ballate americane tanto quanto quelle di The Band o Bruce Springsteen. Tra i temi dell’accoppiata Hidalgo/Perez, a parte la title track, "A Matter Of Time" narra i sogni di tranquillità di una giovane coppia, "Our Last Night" è una country-ranchera, "The Breakdown" un r&b con la fisarmonica in primo piano, "Evangeline" un rock’n’roll ispirato alla sorella di Perez che attraversava tutta la città, dall’East fino al West di Hollywood, per il gusto di comprare una rivista inglese sui Beatles; infine, c’è la cover di “I Got Loaded” che non ci stupiremo di ascoltare in un locale del French quarter passeggiando per New Orleans.
Il disco ha un solo tema cantato in castigliano, “Serenata Norteña”, mentre “Corrido#1”, nonostante il titolo e lo stile latino, è in inglese, e in “I Got to Let You Know”, Rosas mischia tutto, confondendo le idee: è un rock’n’roll o una ranchera?

Con la colonna sonora de La Bamba (1987) arriva l’inaspettato botto: i Los Lobos arrivano al numero uno nelle classifiche di mezzo mondo, vendendo più di due milioni di copie. Il gruppo reinterpreta otto canzoni di Ritchie Valens, mantenendosi fedele alle originali e regalando loro una nuova vita. Le antiche registrazioni non rendevano giustizia a un songwriting maturo, Ritchie morì poco dopo aver compiuto i 19 e il suo stile non aveva nulla da invidiare a quello di Buddy Holly che, per una manciata di anni in più, aveva in attivo più pezzi e notorietà.

Se la storia del chicano Ritchie Valens, seppur con finale tragico, diventa il simbolo dell’American dream per tutti i messicani immigrati in cerca di fortuna, i nuovi pezzi preparati da Hidalgo/Perez per By The Light Of The Moon (1987) seguono il discorso iniziato con il precedente disco, raccontando invece il disagio che scaturisce dalle aspettative mancate (“One Time, One Night”). Ritratti di lavoratori e persone ordinarie che ordinarie non sono, hanno diritto a una vita ma è una lotta solitaria (“Is This All There Is?”, “The Hardest Time”, “The Mess We're In”) che culmina nella riflessione acustica “River Of Fools” e nella preghiera di “Tears Of God”.
Nonostante il loro essere americani, i Los Lobos dimostrano una capacità innata per comprendere e trasmettere il significato delle vite degli immigrati in terra straniera, conferendo loro dignità. La parte messicana questa volta è affidata a un classico, “Prenda del Alma” (chi si ricorda la versione tradotta di Vinicio Capossela in “Ovunque proteggi”?), mentre Rosas continua a frullare gli stili con i suoi blues latini, “Set Me Free (Rosa Lee)” e la potente “Shakin' Shakin' Shakes”.

“È stato bello vedere la folla che cominciava a crescere agli spettacoli, ma dopo un po' iniziammo a chiederci se fosse solo per il film. In un certo senso abbiamo cercato di allontanarci da quel successo”, ricorda Perez quando, successivamente a “La Bamba”, i concerti divennero sempre più affollati, tanto da provocare nel gruppo una crisi d’identità. Scesero quindi dal podio in cui il mercato discografico li aveva collocati e ripresero in mano gli strumenti acustici per registrare La Pistola Y El Corazon, un disco di pezzi della tradizione messicana con solo due originali (la stupenda title track e “Estoy Sentado Aqui”), il resto, nelle abili mani dei nostri, con reinterpretazioni di son jarocho (“La Guacamaya”, “El Canelo”), huapangos (“Las Amarillas”), rancheras (“Si Yo Quisiera”) e classici della tradizione (il valzer “Que Nadie Sepa Mi Sufrir”).
Il tutto per poco più di 25 minuti: la Warner Bros si aspettava un lavoro che rimpolpasse il successo de La Bamba e sentenziò: un suicidio commerciale. Non vendette milioni di copie, però vinse un Grammy e il gruppo ritrovò la pace interiore: “Eravamo ritornati a quello che era importante per noi, e pensammo che sarebbe stato curioso che a Helsinki ascoltassero un huapango o a Sapporo un son jarocho”, ricorda Perez.

The Neighbourhood (1990) è nuovamente un ritorno alle origini, questa volta della musica americana, con un invitato di lusso a garantire il marchio roots: Levon Helm (voce, batteria e mandolino di The Band) riempie la filastrocca acustica “Little John Of God”, entra circa a metà e il violino spunta da dietro, accompagnandolo come si fa con un invitato d’onore. In “Emily” continua riscaldando la voce di Hidalgo e arricchendo con il mandolino la ballata elettrica incalzata da Jim Keltner (batteria per George Harrison, John Lennon, Eric Clapton e un milione di altri). Il mantra iniziale “Down On The Riverbead” ci catapulta nel sud degli Stati Uniti, la voce nera di John Hiatt (anche nella ballata “Take My Hand”) è l’eco oscura di quella cristallina di Hidalgo, un grido di sopravvivenza che si alza dal Mississippi, con Daniel Lanois alla consolle.
È il disco più roots oriented fino al momento, mai una band chicana aveva suonato tanto americana, la huapanguera e la jarana si insinuano con la steel guitar, questa volta seguendo il cammino del folk, del blues e del country, lasciandosi andare giusto sulle chitarre mariachi di “Be Still”. Il riff di “The Giving Tree” è celtico e come sarebbe “Deep Dark Hole” sporcata da Tom Waits e Marc Ribot? Cesar Rosas, privato dal cantare in spagnolo, trascina tutti in “Jenny’s Got A Pony”, “I Walk Alone” e "I Can't Understand", scritta a quattro mani con Willie Dixon, conosciuto durante la realizzazione della colonna sonora de “La Bamba”. Come Mitchell Froom (produttore e musicista americano, che collaborerà con Randy Newman, Suzanne Vega, Sheryl Crow, Paul McCartney, Peter Gabriel e tanti altri), proprio lui ne aveva prodotto il singolo e in The Neighboroud concede il bis con “Angel Dance”, luminosa ballata elettrica venata di soul con finale alla Beatles, che Robert Plant registrò per il suo disco solista “Band Of Joy” (2010).

Kiko e altre storie

Tra la fine degli 80 e i primi anni 90, il gruppo fu costantemente in tour, spesso aprendo per U2, Bob Dylan e Grateful Dead. L’esperienza non fece che accrescere le frustrazioni per la scarsa attenzione riservata dal pubblico e dalla casa discografica ai loro ultimi lavori, ma non impedì la creazione di materiale nuovo: “Alla fine stavamo facendo quello che volevamo senza ascoltare nessuno”, ricorda Steve Berlin. Quando presentarono i nuovi demo alla Warner, i Los Lobos ebbero il via libero, ma con l’invito a tornare alla produzione di Mitchell Froom e alla supervisione di Tchad Blake come ingegnere del suono (il team di “La Bamba”).

“Apro la porta e do una sbirciata dentro la stanza” canta Hidalgo, dando l’abbrivio con “Dream In Blue” a Kiko And The Laverned Moon (1992). Il mondo disegnato dai chicanos riprende proprio dal finale beatlesiano di “Angel Dance” su The Neighbourhood, le chitarre si muovono tra distorsioni psichedeliche, accompagnando il fluire della melodia su testi onirici: “Peace” nasce da un sogno di Perez che lo racconta a Hidalgo canticchiandolo, una cavalcata acustica alla Neil Young sorretta da un riff arpeggiato per tutto il pezzo: “Un giorno quel muro crollerà/ Caduto, il sole splenderà/ E porterà la pace a tutti noi”. Ancora la follia del muro tra Messico e Stati Uniti non era pronta per essere fotografata, ma i lupi avevano già provato qualcosa di simile, sulla loro pelle e su quella dei loro genitori. L’avvolgente “Wake Up Dolores” si apre nel ritornello con i cori in azteco, racconta degli indigeni sfollati a causa delle guerre in America Centrale e del loro ritorno per reclamare la loro patria: “Le pietre sono dure/ Su questa strada infinita”.
“Qualche chitarra al contrario suonerebbe bene con questo", aveva chiesto Hidalgo a Tchad per "Angel With Dirty Faces". “Avanti, provalo”, gli rispose e si limitò a girare il nastro. “È stato allora che ho scoperto che ci si può divertire in studio. Prima era sempre stata una sofferenza. Louie e io avevamo alcune idee, ci siamo limitati a catturare quelle prime impressioni”. Così, canzoni che erano bozzetti con testi astratti, si trasformarono in piccoli capolavori dal sapore lo fi - “Angels with Dirty Faces”, “Two Janes”, “When The Circus Come To Town” - "utilizzando una compressione e una distorsione più pesanti del normale su molti strumenti, in contrasto con alcuni suoni molto puliti".
Gli esperimenti con la tradizione arrivano con “Saint Behind The Glass”, i ritmi mariachi sono arricchiti dall’arpa di Veracruz, ma il testo rimane in inglese, solo in “Rio de Tenampa” Hidalgo canta in spagnolo, alternando la stessa strofa con uno squinternato ritornello suonato da una brass band.
Il disco non li fece tornare ai grandi numeri dei loro lavori di maggior successo, pur vendendo mezzo milione di copie in tutto il mondo. Fu piuttosto il punto di svolta perché il gruppo iniziasse a consolidarsi, accrescendo la sua reputazione come formazione che fa rock, groove e sperimenta.

Ci presero talmente gusto da sperimentare anche a casa, magari la sera quando tutti i membri della famiglia erano a dormire - racconta David Hidalgo. Nacque così il primo progetto dei Latin Playboy (1994) e tra dischi per bambini (Papa’s Dream, 1995) e colonne sonore (Desperado, 1995), arrivarono a Colossal Head (1996), prodotto sempre dalla squadra del precedente Kiko. Steve Berlin racconta che Hidalgo al principio delle registrazioni, se ne uscì con un "beh, cosa farebbe Jimmy Reed?". Iniziano così con l'idea di fare un disco ispirato al bluesman e assicurano di riconoscerlo in tutte le canzoni.
Per l’ennesima volta i cinque musicisti cambiano pelle sfoderando una serie di pezzi dai ritmi tirati e acidi, in un melting pot di suoni latini e distorsioni disturbate in cui il sax di Berlin domina alla pari delle chitarre. L’iniziale “Revolution” gira con un groove funky, le migliori chitarre dei Black Crowes e una fisarmonica a sottolineare un jingle che, altrimenti, sarebbe rimasto invisibile. Il riff di “Mas y Mas”, cantata in uno slang tra inglese e spagnolo, squilla come il locomotore di un treno, uguale alla “Who Do You Love” che Willie Dixon aveva arrangiato per Bo Diddley nella colonna sonora de “La Bamba”. Ricorda Hidalgo in proposito: “La gente pensa che il blues riguardi solo il sentimento, l'espressione di sé stessi. Ma Willie è entrato e ha orchestrato la cosa. Questo mi ha ispirato a provare cose del genere, molte delle canzoni di ‘Colossal Head’ sono basate sul blues. Stavo solo cercando di usare ciò che avevo imparato da Willie. ‘Colossal Head’ è uno dei miei album preferiti”.
“Maricela” abbassa le pulsazioni, è una cumbia elettrica cantata in spagnolo e, come le jazzate "Can't Stop The Rain" e “Little Japan”, è tra le migliori prestazioni come autore fino a quel momento di Cesar Rosas. “Everybody Loves A Train" sembra, sì, Jimmy Reed, passando però per i Creedence Clearwater Revival e con una voce degna di Manu Chao. La title track confonde di nuovo tutte le carte con un violino arabeggiante che si appoggia sul riff distorto tenuto su dall’incessante sax tenore di Berlin.

Il disco riceve critiche positive unanimi ma la Warner decide di staccare dal suo impero il gruppo che, dopo aver trovato un nuovo contratto con l’etichetta del Nord Carolina, Mammoth Records, terminerà la trilogia sperimentale con Mitchel Froom. This Time esce nel 1999 ed è un sunto di Kiko e Colossal Head, un disco di 38 minuti con pezzi corti e ritmati che divagano intorno alla struttura del rock’n’roll, ad esclusione della title track, un soul cadenzato, “Cumbia Raza” di Rosas e “Corazon”, uno di quei pezzi che non ti aspetti, una salsa triste cantata in spagnolo da Hidalgo, come lo scherzo di “La Playa”.

Il seguente passo si chiama Good Morning Atzlan (2002) e la produzione è affidata all’inglese John Leckie, produttore di “White Music” (1978) degli Xtc, “The Stone Roses” (1989) dell’omonima band britannica, “The Bends” dei Radiohead (1995), “Origin Of Symmetry” dei Muse (2001). Il gruppo lascia da parte le sperimentazioni degli anni 90 per affrontare semplicemente una manciata, dodici per l’esattezza, di canzoni rock (l’iniziale “Done Gone Blue”), r&b (“Hearts Of Stone”, “Get To This”), alternandole come di consueto, con le proposte latine. Tutto suona al suo posto, non sarà cool però funziona alla grande, perché dopo quasi 30 anni, i Los Lobos sono una delle band americane più longeve senza avere mai inciampato.
La produzione scintillante di Leckie fa scivolare un pezzo dietro l’altro e se la poppeggiante title track è un grido di speranza, rimane l’amaro in bocca per alcuni testi, da Johnny Cash a Bruce Springsteen gli incubi dell’America del nuovo millennio sono sempre più reali.

Nel 1999 la moglie di Cesar Rosas è stata assassinata dal fratello e il corpo è stato ritrovato solo un anno dopo. “Ho letto il giornale proprio l'altro giorno/ Che la città ora è piena di pistole/ Mi piacerebbe sapere cosa sia accaduta ai giorni semplici/ Quando i bambini potevano semplicemente giocare e correre”, canta Hidalgo in “The Big Ranch”. Rosas ribatte nel soul “The Word”: “Cosa dirai o farai/ Quando un bambino ti chiede/ Che tipo di mondo hai lasciato qui per me?”, ricordando poi la moglie nei due pezzi latini con le cumbias, "Luz de Mi Vida" e "Maria Christina".
“Tony & Maria” potrebbe essere una outtake di “El Corazon” (1997, Steve Earle), completando qualche anno dopo la storia della coppia di “A Matter Of Time” e, anche se Hidalgo ha una delle migliori voci soul in un gruppo che non lo è, chissà come avrebbe suonato “What In The World” con Sam Cooke o anche solo con Leon Bridges. I Los Lobos preferiscono scrivere di politica personale piuttosto che di politica globale, il loro approccio alla posta in gioco - a volte divertente, a volte preoccupante - della vita nell'America ispanica lascia chiaramente intendere la loro consapevolezza profonda della realtà quotidiana del loro quartiere.

The Ride (2004) è un album in studio contenente nuovo materiale e cover di vecchi temi, il tutto condito con partecipazioni illustri. Si apre con "La Venganza de Los Pelados" insieme ai Café Tacuba (band messicana popolare dagli anni 90, da punk e ska all'elettronica e all’hip-hop, alle varietà regionali messicane di norteño, bolero e ranchera) e segue con la partecipazione di Little Willy G, leader della prima band di rock chicano, Thee Midniters, in un’accesa ripresa di "Is This All There Is?". Dave Alvin dei Blasters non poteva mancare: partecipa alla scrittura e canta la ballata di frontiera "Somewhere In Time". Bobby Womack, invece, colora di funky “Wicked Rain”, Tom Waits aggiunge il vocione a “Kitate”, uscita da un sogno psichedelico dei Latin Playboys e con Ruben Blades (“Ya Se Va”) degustiamo un cocktail tra son afro-cubano e mariachi. In “Wreck Of The Carlos Rey “, Richard Thompson e Hidalgo affrontano una sinuosa trama tra folk inglese e rock blues in tonalità minore, Elvis Costello scompone come un pittore cubista al pianoforte “A Matter Of Time”, mantenendone intatta la melodia originale e Mavis Staples prosciuga “Someday” (un inedito dei tempi di The Neighbourhood) in un acido r&b.

Tre mesi dopo l’uscita di The Ride, esce il complementare Ride This - The Covers Ep, in cui il gruppo reinterpreta sette temi di alcuni degli artisti che avevano partecipato al precedente lavoro: Tom Waits, Bobby Womack, Elvis Costello, Rubén Blades, Richard Thompson, Thee Midniters e Blasters.

“In The Valley” apre The Town And The City (2006), dal titolo del romanzo di esordio di Jack Kerouac. È la storia dei primi coloni nella Valle del Messico, un tributo a quelle persone la cui vicenda è in gran parte sconosciuta, nonostante il significativo impatto sulle Americhe moderne. I testi dell'album, raccontati in prima persona, riguardano l'infanzia di Louis Perez a East LA, e ogni canzone funge da passaggio episodico. In “Hold On” il tempo sembra essere scandito da un orologio che ci riporta alla realtà quotidiana, "Resisti a ogni respiro/ E se faccio sorgere il sole, fallo di nuovo/ Ora mi sto uccidendo solo per sopravvivere/Mi uccido per sopravvivere".
“The Road To Gila Bend” attacca come fosse l’inizio di un impossibile lato C di “Ragged Glory” (1990, Neil Young) e non sfigurerebbe in “The Revolutions Starts Tonight” (2004, Steve Earle), mentre in “Little Things”, se dopo l’intro entrasse un vocione nero, non saremmo così distanti da “A Whiter Shade Of Pale” dei Procol Harum.
La cumbia jazzata di “The City”, invece, non assomiglia a niente che abbiano registrato negli ultimi trenta anni, come “Don’t Ask Me Why?”, in cui le chitarre elettriche duettano con il sax di Berlin, come se fossero un quintetto di jazz (e sì, sono anche degli abili jazzisti). “Free Up” è giusto un uptempo, un gospel reggae che si confonde in uno swing disturbato e la finale “The Valley”, un oscuro blues dal riff indelebile che ci riporta dove eravamo partiti, “So dove ritroverò il mio cuore/ È dove finalmente potrò stendermi/ Ci posso andare quando sogno/ Chiudo gli occhi ed è tutto quello che vedo/ La città da cui vengo”.

Los Lobos Goes Disney (2009) nasce per adempiere a un obbligo contrattuale della Disney Music. La band interpreta alcuni temi tratti dalla filmografia del colosso americano, riadattandoli al proprio stile. Ecco quindi che le canzoni ascoltate in “Biancanave” (il disco si apre proprio con “Heigh-Ho”, il canto di ritorno a casa dei sette nani), “Il Libro della Giungla” (“I Wan’na Be Like You”), “La Carica dei 101” (“Cruella De Vil”) sono sporcate con rock’n’roll e r&b. Visto il risultato, sarebbe meglio dire che i Los Lobos sono andati dalla Disney.

Tin Can Trust arriva nel 2010 per l’etichetta Shout Factory, registrato a East LA come ai vecchi tempi. La title track raccoglie i pensieri di un ragazzo che cerca di sbarcare il lunario raccogliendo lattine e bottiglie e il cui guardaroba consiste in "una camicia da dieci centesimi/ e due dollari per un paio di scarpe". La crisi economica che ha coinvolto il mondo a partire del 2008 si fa sentire e non è una questione di fortuna nascere dalla parte buona della strada. L’iniziale “Burning Down” parte acustico come milioni di altre canzoni, dall’accordo maggiore alla relativa minore, per aprirsi nel ritornello, dove la voce di Hidalgo è accompagnata da quella di Susan Tedeschi che sottolinea la drammaticità del testo, una fuga in cui tutto ciò che appartiene al passato viene bruciato.
Ritorniamo ai temi cari per i Los Lobos, spunti di riflessione per tentare di comprendere in quale direzione si muova il mondo, ricordandosi il potere delle piccole cose: una bella giornata di sole ("On Main Street"), una chitarra virtuosa (la strumentale "Do The Murray"), o semplicemente cantare (“Yo Canto”, uno dei due temi in spagnolo di Rosas, con “Mujer Ingrata”), mentre "Jupiter Or The Moon" arriva da un’altra dimensione, un tema “spaziale” e insolito per il gruppo.
Durante la lavorazione del disco, Hidalgo e Rosas erano coinvolti nell’Experience Hendrix Tour (una serie di concerti che celebrano la vita e la musica di Jimi Hendrix) e fuori tempo massimo per rispettare la scadenza di registrazione dell’album, tanto che Steve Berlin saltava fuori ogni qualvolta avessero un giorno libero per portarli in uno studio di registrazione (San Francisco, Denver, Fort Worth, Chicago). L’album è prodotto con poco e si sente: non è il lo-fi ricercato di Kiko, sono “solo” 11 canzoni e il sound brillante dei cinque lupi che non si lasciano sommergere dal loro ego e dal manierismo.

Gates Of Gold (2015) è l’ultimo disco fino al momento di composizioni originali (a parte la cover di "La Tumba Sera el Final", tema messicano dalle mille versioni) ed è un the best di quello che i lupi sanno fare meglio: il centro nevralgico del lavoro sono le canzoni e gli arrangiamenti. Il mercato discografico è cambiato, i contratti si rinnovano praticamente di disco in disco, quello con la 429 Records scadrà giusto dopo questo, e così decidono di auto-prodursi: ormai sono dei veterani.
In “Made Of Break Your Heart”, le trame stratificate di chitarre acustiche si combinano con batteria e percussioni, preparando l'esplosione al rallentatore dell'assolo di chitarra di Hidalgo. Le linee di basso di Conrad Lozano in "When We Were Free" creano un rarefatto sogno tra soul e jazz (“ti ricordo giocare, ti ricordo ridere, tanto tempo fa, quando eravamo liberi”). Ma liberi i Los Lobos lo sono anche ora, da “vecchi”, con la loro musica che vola in alto perché leggera, originale, anche nelle composizioni più classiche di Rosas - il veloce shuffle di "Mis-Tuesday Boogie Blues", il blues acustico di “I Believed You So” o i pezzi in spagnolo, la divertente cumbia di "Poquito Para Aqui".
"Too Small Heart" suona come se Jimi Hendrix si fosse affacciato durante le session; la voce filtrata di Hidalgo in “There I Go”, l’arpeggio elettrico che sostiene “Magdalena”, il mare di mandolini che apre la title track sono gli esperimenti più riusciti e convincono ancora una volta. Il gruppo suona curioso e abile, alimentando il fuoco che ancora tiene insieme i suoi membri, dopo tanto tempo.

Llega Navidad del 2019 è un lavoro rotondo, che sfata il mito del “temuto” disco di canzoni natalizie. È una raccolta di cover recuperate dalla tradizione sudamericana e messicana, cantate in spagnolo, con un paio di eccezioni in inglese ma sempre in stile tex-mex. Il resto è salsa, cumbia, ranchera, son jarocho, suonate con calore e allegria come fossimo a una festa di Capodanno. Potrebbe essere il seguito de La Pistola Y El Corazon, quindi un nuovo album dei Los Lobos e non un noioso e già sentito disco di Natale…

“Solo un'altra band dall’est di Los Angeles che regala una manciata di canzoni alla sua città”: potrebbe essere questo il sottotitolo da apporre a Native Sons (2021), diciassettesimo album del gruppo. Un solo pezzo originale, la title track, e 13 cover scelte senza seguire alcun filo conduttore se non quello dei molti stili che sempre hanno reso unica la città californiana: il r&b, il rock’n’roll, il folk, la musica latina e il punk.
Il disco si apre con un potente r&b, “Love Special Delivery”, con Carlos Rosas a scandirne le rime, rimanendo fedele all’originale dei Thee Midniters. “Misery” è di quel Barrett Strong che indovinò la prima hit della Motown nel 1960, la celebre “Money (That's What I Want)”, e che partecipò alla stesura di tante altre a venire. David Hidalgo (voce e prima chitarra) la canta rinforzando la cadenza soul del pezzo, gli stacchi sono accentuati, il beat accelerato, e un solo elettrico occupa le stesse battute dell’originale, suonato dal sax, con i cori femminili che scompaiono lasciando spazio alle voci mature dei compagni di band.
La doppietta “Bluebird”/“For What It’s Worth” riprende due tra i masterpiece dei Buffalo Springfield scritti da Stephen Stills, non apportando alcun cambiamento alle versioni originali, come avviene in gran parte dei pezzi dell’album. Stesso trattamento, quindi, per “Jamaica Say You Will” dal primo Lp omonimo di Jackson Browne (1972), dove Perez canta una strofa mentre Hidalgo si occupa di tutto il resto. Dalla discografia dei Beach Boys è invece tratta la meno conosciuta “Sail On Sailor”: Conrad Lozano (basso, guitarrón e voce) era irremovibile, voleva una canzone di Mike Love.
“Los Chucos Suaves” di Lalo Guerrero (ripresa anche da Ry Cooder in “Chávez Ravine” del 2005), insieme a “Dichoso” di Willie Bobo, l’altro pezzo latino suonato nel disco, sono agli antipodi dei successi pop mainstream precedenti. “Dichoso” risale addirittura all'epoca in cui la band suonava durante i matrimoni.
Gli amati compagni The Blasters vengono omaggiati con il rock’n’roll di “Flat Top Joint” (in “American Music”, 1980). “The World Is A Ghetto” arriva da un mitico gruppo funk degli anni 70, i WAR, mentre “Farmer John” è stata scelta per rendere omaggio a Don “Sugarcane” Harris (il padre del violino elettrificato, da John Mayall a Frank Zappa), che la suonava nel duo Don & Dewey, anche se la versione dei Lobos assomiglia di più a quella dei Thee Midniters, di nuovo il primo gruppo chicano a tessere i fili della memoria musicale dei nostri. La canzone è stata ripresa anche da Neil Young in “Ragged Glory” (1990) e già la suonava nel suo primo gruppo surf, The Squires.
“Never No More” di Percy Mayfield è un rapido r’n’b riproposto senza l’orchestra di fiati a reggerlo e con un Hammond sognante che ci fa precipitare ugualmente nell’epoca. “Where Lovers Go”, uno strumentale dei Jaguars chiude l’album e Hidalgo lo arricchisce con un solo da brividi che entra ruvido e cupo nella melodia retrò, allargandosi sulle note più basse per poi risalire sulle alte.
L’unico originale è “Native Sons”: la sua trama rock dalla melodia sognante nel miglior stile della West Coast, non può che farci ben sperare per il nuovo disco di inediti al quale i nostri si dedicheranno una volta terminata la rinnovata stagione concertistica.

Collaborazioni e progetti paralleli

“In tutti questi anni, crediamo che la nostra musica abbia conservato freschezza, non siamo famosi come altri gruppi ma tante leggende del rock’n’roll ci conoscono e rispettano. Questo per noi significa molto, ne siamo molto orgogliosi”. Dalla metà degli anni 80 in poi, i Los Lobos hanno condiviso il palco con artisti molto più  conosciuti di loro, con Carlos Santana, altro chicano illustre che partecipò sia alla colonna sonora de “La Bamba” che a quella di “Desperado”, sono memorabili alcune jam dal vivo; con i Grateful Dead ricordiamo una gran versione “messicanizzata” di “This Land Is Your Land” che avrebbe fatto la felicità di Woody Guthrie, oltre a numerose comparsate con Jerry Garcia; con Neil Young durante il suo Bridge School Benefit nel 2005 suonarono una “Cinnamon Girl” acustica, e potremmo continuare con molti altri nomi…
A confermare le parole di Cesar Rosas sono anche varie partecipazioni in album-tributo, colonne sonore e apparizioni in dischi di altri artisti, specie nel caso di David Hidalgo, in veste di chitarrista e fisarmonicista.

Citeremo cronologicamente solo alcuni, a partire del 1976, “Si, Se Puede”, un album benefico con vari artisti, è il primo disco in cui appare il nome Los Lobos. Suonano tutti i pezzi come backing band e i proventi delle vendite vengono destinati alla United Farm Workers of America (sindacato di lavoratori), il cui leader è il chicano Cesar Chavez.

Nel 1986, Paul Simon chiede al gruppo di partecipare a “Graceland”, nella canzone "All Around The World Or The Myth Of Fingerprints", senza però accreditarlo come co-autore. Secondo Steve Berlin, la strategia adottata da Simon non era stata molto diversa da quella utilizzata per registrare gli altri pezzi in Sudafrica: ascoltava qualcosa che gli piaceva (in questo caso, il tema senza testo portato dai Los Lobos), la registrava e poi ci scriveva i testi per accompagnarla. Quando uscì il disco, i nostri rimasero basiti nel non vedere i loro nomi tra gli autori del pezzo. Simon non ha mai chiarito la storia.

Nel 1991 aprono il disco “Dedicated: A Tribute To The Grateful Dead”, con una versione elettrica di “Bertha”, ripresa spesso dal vivo (anche con gli stessi Dead) e contenuta anche nel cofanetto El Cancionero Mas Y Mas (box-set di 4 cd del 2000, contenente tracce originali, registrazioni live, rarità e versioni alternative, pezzi da progetti solisti e collaterali, colonne sonore e album tributi) come "Beautiful Maria Of My Soul” che nel film “Mambo Kings” (1992) canta Antonio Banderas. L’attore è accompagnato dal gruppo anche nella "Canción del Mariachi” nella colonna sonora del film “Desperado” (1995) che gli frutterà un Grammy per un altro pezzo, "Mariachi Suite”. La genesi del film è legata alla copertina del loro disco La Pistola Y El Corazon ad opera di George Yepes: la storia narra che Hidalgo e Perez composero la title track del disco ispirati dal quadro che poi ne sarebbe diventato la portata. Qualche anno dopo in un negozio di dischi, l’Lp attirò l’attenzione dell’aspirante regista Robert Rodriguez, che dopo aver ascoltato il disco si immerse nella scrittura del suo primo film “El Mariachi” (1992). Prodotto con 7000 dollari, ne incassò 2 milioni, diventando un cult-movie che aprì a Rodriguez la strada per Hollywood e due sequel con Antonio Banderas e Salma Hayek, “Desperado” e “Once Upon A Time In Mexico”.
Sempre nel “Cancionero” sono contenute alcune cover del gruppo estratte da vari progetti: “Beat The Retreat – Songs By Richard Thompson” (1994) con "Down Where The Drunkards Roll" e da “I Only Wrote This Song For You: A Tribute To Johnny Thunders” (1994) con "Alone In A Crowd".

Nel tributo a Buddy Holly, “Not Fade Away” (1996) suonano "Midnight Shift" e in “Goin' Home: A Tribute To Fats Domino” (2007) "The Fat Man", anche se dal vivo spesso eseguono “I’m Gonna Be A Wheel Someday”.
"Billy 1" è la canzone di Bob Dylan (da un’altra colonna sonora, “Pat Garrett & Billy The Kid”, 1973) che interpretano per il film “I'm Not There” (2007), biopic felliniano sulla vita del cantautore americano.
David Hidalgo ritornerà con Dylan suonando fisarmonica e chitarra nei suoi album “Together Through Life” (2009), “Christmas In The Heart” (2009) e “Tempest” (2012). Rimanendo tra mostri sacri, parteciperà anche a vari progetti con John Lee Hooker, alle registrazioni di “King Of America” (1986) di Elvis Costello, e con Tom Waits interverrà in “Frank's Wild Years” (1987), “Bone Machine” (1992) e soprattutto in “Bad As Me” (2011), partecipando anche ad alcuni live. Con un altro esploratore musicale, Ry Cooder, condivide il prezioso “Chávez Ravine” (2005) e, viste le sue doti alla sei corde, Eric Clapton non poté ignorarlo per il suo festival, “Crossroads”.

Nel 2016 il gruppo ha rivestito di Messico il tema "La padrona mia" nel disco di Vinicio CaposselaCanzoni della Cupa”, apparendo nel video del brano insieme a scene selezionate da materiali d’archivio, per una sorta di celebrazione della figura della donna in diverse epoche. Capossela aveva  già interpretato il tradizionale “Prenda del alma” in “Ovunque proteggi”, traducendolo in “Pena del alma” e dichiarando di averla consumata in innumerevoli ascolti dal disco dei Los Lobos By The Light Of The Moon (1996).

Nel 2017, i Los Lobos appaiono nel pluripremiato documentario “The American Epic Sessions” diretto da Bernard MacMahon e prodotto da Jack White e T Bone Burnett; registrano "El Cascabel", dal vivo e direttamente su disco con il primo sistema di registrazione del suono elettrico (1925).

Nel 2018 per il Record Store Day, esce un progetto che difficilmente era immaginabile, una collaborazione con il gruppo inglese The Shins, con un Ep di tre versioni della stessa canzone: le due originali “The Fear” estratte dai dischi “Heatworms” (2017) e “The Worm’s Heart” (2018), più la cover dei Los Lobos, nata durante alcune session insieme; James Mercer (leader degli Shins) commentò: "Hanno appena distrutto la nostra versione".
Nel 2019 partecipano con due temi all’album “Joni 75: A Birthday Celebration, un tributo live a Joni Mitchell (tra gli altri artisti, Diana Krall, Rufus Wainwright, Brandi Carlile, Emmylou Harris etc.).

Tra i progetti paralleli affrontati dai membri del gruppo ricordiamo i Latin Playboys e Los Super Seven, quest’ultimo un supergruppo, o meglio sarebbe dire, un collettivo che si ricompone diversamente a seconda del tema scelto per ogni disco. La parola d’ordine per il debutto omonimo (1998) è tex-mex e coinvolge, a parte Dave Hidalgo e Cesar Rosas, Freddy Fender, Flaco Jiménez, Joe Ely, Rick Trevino e il vocalist Ruben Ramos, ottenendo un buon successo e vincendo un Grammy per “Best Mexican-American Performance”.
In molti temi lo spagnolo si alterna all’inglese, come in “Rio de Tenampa” (estratta da Kiko, 1992, e riproposto in una versione più lenta), in una fusione di stili dove i ritmi latini fanno da padroni: rancheras, “Margarita”, “El Ranchito”, huapangos, “La Sirena”, ma anche cumbia con “El Canoero”. “Plane Wreck At Los Gatos (Deportee)” è una cover di Woody Guthrie cantata da Joe Ely e “messicanizzata” dal resto del gruppo: narra la vicenda di un incidente aereo del 1948 in cui morirono 28 braccianti agricoli messicani che tornavano a casa dopo essere stati “affittati” dal governo americano per lavorare in California. I giornali del tempo riportarono solo i nomi dei quattro americani che viaggiavano sull’aereo senza specificare quelli degli altri passeggeri.

Il secondo episodio si chiama Canto (2001), continua a vedere la produzione del lobo Steve Berlin ed è un viaggio nel folklore latinoamericano che ricorda il ripescaggio di Ry Cooder con il “Buena Vista Social Club”; si unisce un superospite di eccezione, Caetano Veloso, nell’ultimo tema, “Baby”. Il disco scorre tra classici, la cumbia de “El Pescador”, la salsa de "Me Voy Pa'L Pueblo" e temi originali; l’accoppiata Hidalgo-Perez offre due composizioni ("Calle Dieceseis" e “Teresa”) mentre Cesar Rosas propone “Campesino”.  Il terzo episodio, “Heard It On The X” (2005) non vede la partecipazione di alcun membro del gruppo.

I Latin Playboys nascono da una serie di demo tra Kiko (1992) e Colossal Head (1996) che Hidalgo preparò per i Los Lobos su un quattro piste. Il loro produttore del tempo, Mitchell Froom, ascoltate le sperimentazioni casalinghe, suggerisce di utilizzare il materiale per un nuovo progetto, a cui facilmente si aggiungono Tchad Blake (l’ingegnere del suono che lavorava con Froom) e ovviamente Louie Perez.
L’album omonimo del 1994 riceve unanimi critiche positive, c’è anche chi grida al capolavoro, nonostante abbia ben poco di commerciale, una sequenza di sketch musicali in cui gli strumenti tradizionali sono affiancati da suoni urbani (“Mira!”), rumori, strane percussioni, voci, risate, tutto in lo-fi e con poche altre aggiunte. “Viva la Raza” apre e un riff acido si unisce a una melodia arabeggiante, mentre in sottofondo una bambina si sganascia di risate. La voce pulita e soul di Hidalgo si affaccia qua e là per testi allucinati e giochi di parole (“Ten Believers”, “If”) e viene filtrata da un vocoder (?) in “Chinese Surprize”.
Due pezzi entrano nella colonna sonora di “Desperado”: la jazzata “Manifold de Amour” e "Forever Night Shade Mary" che sembra uscita da This Time dei Los Lobos, quasi come “New Zandau” arriva da Colossal Head. Forse al primo ascolto non sarà così facile prenderci gusto, ma il disco è ricco di spunti e suoni assolutamente originali e coinvolgenti sotto forma di esperimenti sonori.

Nel 1999 esce il secondo capitolo, Dose, e lo stato di grazia del quartetto continua: le canzoni (quando sono tali) assumono forme consuetudinarie non perdendo in psichedelia (il talkin’ blues estremo della title track, il pop sbilenco di “Latin Trip” o di “Mustard”, con il solo di violino elettrico e una melodia a presa rapida), in “Cuca’s Blues” le chitarre sembrano registrate con un microfono da un Marshall casalingo. “Lemon ‘N Ice” è un lento soul con un orologio a scandirne il ritmo e un sensuale coro a farci sognare qualche playa messicana, magari con un “Palatero” passando con i suoi ghiaccioli di tutti i gusti. E l’ultima canzone, “Paula y Fred”, conferma il sospetto: una filastrocca su tradimenti e assassinii dai ritmi di un huapango registrato da lontano…

Los Lobos

Discografia


LOS LOBOS
Los Lobos del Este de Los Angeles (Just another band from East L.A.), (autoprodotto, 1978)
...And a Time To Dance (eP, Slash, Warner Bros, 1983)
How Will The Wolf Survive? (Slash, Warner Bros, 1984)
La Bamba (colonna sonora del film omonimo, Warner Bros, 1987)
By The Light Of The Moon (Slash, Warner Bros, 1987)
La Pistola y el Corazón (Slash, Warner Bros, 1988)
The Neighborhood (Slash, Warner Bros, 1990)
Kiko (Slash, Warner Bros, 1992)
Papa's Dream (Music For Little People, 1995)
Colossal Head (Warner Bros, 1996)
This Time (Hollywood, 1999)
El Cancionero Mas y Mas (boxed set, 4cd, 2000)
Good Morning Aztlán (Mammoth Records, 2002)
The Ride (Hollywood/Mammoth, 2004)
Ride This – The Covers EP (2004)
The Town And The City (Hollywood, 2006)
Los Lobos Goes Disney (Disney Sound, 2009)
Tin Can Trust (Shout! Factory, 2010)
Gates Of Gold (429 Records, 2015)
Llego Navidad (Rhino Records, 2019)
Native Sons (New West Records, 2021)
LATIN PLAYBOYS
Latín Playboys (Slash, Warner Bros, 1994)
Dose (Atlantic Records, 1999)
LOS SUPER SEVEN
Los Super Seven (RCA Nashville, 1998)
Canto (Legacy, 2001)
Pietra miliare
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