EMI Years - Jason & The Scorchers - recensione

«Are you ready for the country» domandava Neil Young a chiunque fosse all'ascolto 50 anni fa e cosa intendesse allora non mi è del tutto chiaro ancora oggi, vuoi per la mia ignoranza vuoi per l'ambiguità di Neil. Ma non sono solo: Waylon Jennings, per dire, qualche anno dopo quella canzone se la cucì addosso con qualche ritocchino e se la fece calzare a pennello ma sospetto che avesse in testa qualcosa di diverso da Neil; e poi arrivò Jason Ringerberg e pure lui ne fece cosa sua e, se ancora non sono sicuro di cosa mi chiedesse allora, ora e sempre Neil, mai avuto dubbi sulle intenzioni di Jason. Che all'alba degli '80 mosse con chitarra, armonica e bagagli da Sheffield – Illinois, non Inghilterra – direzione Nashville, proprio quella: Nashville, Tennessee.

Cosa volesse Jason è facile a dirsi: se hai una copia di “Fervor”, tirala fuori e guarda i manifestini affissi sulla palizzata alle spalle dei quattro bellimbusti, strillano che tra qualche giorno arriverano in città Roy Acuff, Bill Monroe e Hank Williams, vedi di non mancare – anche se non puoi sapere che uno di quegli spettacoli non si terrà mai. Poi prendi la tua copia di Sniffin' Glue, quella famosa dove in copertina ci stanno 3 accordi e l'esortazione a mettere in piedi una banda. Ecco cosa vuole Jason: riprendersi da popolano quella che è la musica popolare per eccellenza; e se la vuole riprendere proprio lì, nel posto dove quella musica si è prostituita senza possibilità di redenzione, sotto gli occhi di tutti i magnaccia intenti a contar soldi a palate.

In quel posto, Nashville, Jason entra subito in combutta con tale Jack Emerson: il tipo è un pazzo scatenato, quanto e più di Jason, figurati che ha pure messo su una casa discografica, Praxis: messa così, chissà cosa ti immagini, nella realtà la Praxis è una stanza senza finestre in un seminterrato poco fuori Nashville, con il solo comfort di un cesso stile CBGB's. Solo che il CBGB's sta a New York, a Nashville ci sta però il Frankenstein's, l'unico posto dove puoi incontrare la gente giusta per Jason e Jack: così, quei due buttano giù un annuncio del tipo «Se sai suonare qualcosa di Hank Williams e dei Sex Pistols, molla tutto, ti aspetta un ingaggio alla Praxis» e lo appiccicano all'ingresso. E nel giro di qualche mese si presenta pure qualcuno: un chitarrista che stilisticamente e fisicamente è la quintessenza del tamarrismo, tale Warner Hodges, un certo Jeff Johnson che millanta di suonare il basso e alla fine pure uno che viene spedito alla batteria, proprio come nelle partitelle di calcio per strada quando uno a caso viene mandato in porta perché senza portiere non si può giocare, Perry Baggs è il suo nome: Jeff e Perry sembrano pure per bene ma nel giro di un paio d'anni sono un terrificante incrocio tra due New York Dolls e due Poison a caso. Alla fine, quello normale è Jason, col suo cappello da cowboy leopardato da cui spuntano improponibili basettoni e una carrucola al posto della cravatta, per non dire altro.

Boys and girls, from Nashville, Tennesee, JAAAAASOOOOOON AAAAAND THE NAAAAASHVIIIIILE SCOOOOORCHEEEEERS.

Conta niente che il riferimento a Nashville sparisca subito – solo Jason And The Scorchers, per sempre; quello che importa è che da buchi come Praxis e Frankenstein's sia venuta fuori una banda che, per un annetto a cavallo tra il 1984 e il 1985, potrà con tanto merito essere inclusa tra le migliori sulla faccia della terra, una di quelle capaci di inventarsi un genere tanto semplice quanto inaudito prima di allora, rock'n'roll più country più punk più hard rock. In teoria non avrebbe mai potuto funzionare, in pratica funzionò che fu una meraviglia, almeno in quel famoso annetto e pure un poco di più: funzionò nonostante Jason che da un lato smaniava per essere la reincarnazione di Hank Williams e pregava ogni notte che Johnny Cash rinsavisse e Warner che dall'altro aveva per la testa solo e soltanto Angus Young e il country e il folk li schifava e giurava e spergiurava che prima di suonare robaccia del genere Jason sarebbe dovuto passare sul suo cadavere; o forse funzionò proprio per questo; e che non ti venga in mente che Jeff e Perry fossero comparse, perché scrissero canzoni bellissime. Ma ogni cosa a suo tempo.

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E all'inizio fu il tempo di “Reckless Country Soul”, stringatissimo esordio che mette in fila 2 originali e 2 rifacimenti – Hank Wlliams, ovviamente, e Jimmie Rodgers – dilettantistico e acerbo quanto si vuole, ma quei 10 minuti furono più che sufficienti ad imporre Jason e compagnia come la cosa migliore venuta fuori da Nashville dagli '60, con un bagaglio ingombrante di sogni da realizzare e promesse da mantenere. E poi è l'unica testimonianza a nome dei Nashville Scorchers.

L'anno dopo, infatti, sulla copertina di “Fervor” campeggia la nuova e abbreviata ragione sociale, Jason And The Scorchers.

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Con un paio di canzoni e qualche minuto in più a disposizione del predecessore, “Fervor” è lo splendido mini album che mantiene alla grande tutte le promesse fatte: tra le scorribande di una “Both Sides Of The Line” con i fasci di nervi ben in vista e di quella pistolettata che è “Can't Help Myself” – in origine annacquato country con tanto di orchestra a nome di tale Tim Krekel – e che ti lasciano senza fiato come al termine di una corsa breve ma intensa; i tempi medi di “Help There's A Fire”, “Hot Nights In Georgia” con Michael Stipe ai cori – nonché autore insieme a Jason di “Both Sides Of The Line”, e su come si siano incrociate le strade degli Scorchers e dei R.E.M. varrebbe la pena di scriverci sopra un trattato – e “Harvest Moon” che vorresti non finissero mai; e quella meraviglia di puro e semplice country che è “Pray For Me, Mama (I'm A Gypsy Now)” – niente rock'n'roll, né punk, tanto meno hard rock tra questi solchi.

Talmente bello e impattante “Fervor” che alla EMI – no, dico, alla EMI – decisero di fare ponti d'oro agli Scorchers di modo che al buon Jack non rimase altro da fare che chiudere Praxis e andarsene a campare di rendita fino alla fine dei suoi giorni, con quel sorriso a 64 denti stampato in faccia dall'alba al tramonto.

La prima cosa che fecero alla EMI? Semplice, ristamparono “Fervor”. Ti sento già bofonchiare, ecco, ti pareva, i viscidi capitalisti avidi di denaro che inondano il mercato di ristampe, versioni di lusso e ultraespanse, utili poco meno di un gelato ghiacciolo fragola e limone al polo nord. Ecco, ti rispondo, questa volta hai detto una cazzata. Perché dentro “Fervor” versione EMI ci sta una canzone in più rispetto alla versione Praxis, e se quella canzone è una versione da sballo di “Absolutely Sweet Marie” allora non rimane altro da fare che ringraziare il cielo per l'avidità che regna sovrana ai piani alti di una multinazionale e prendere atto che in quei giorni, per davvero, Jason And The Scorchers è una tra le più grandi bande di rock'n'roll cui può capitarti di porgere orecchio. E portatrice di un'attitudine cazzona con pochi eguali, come quando, proprio a riguardo della cover dylaniata, Jason confessa ad un qualche giornalista che per convincere Warner, Jeff e Perry ad inciderla, gli ha detto che era una sua composizione, quelli gli hanno creduto senza batter ciglio e ne hanno inciso di buon grado una versione punkettosa. E allora in grado pure di riportare a casa, insieme al country, anche certo folk cui un'aura intellettualoide alla fine potrebbe nuocere.

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Poi l'attesa di un “difficile terzo album”, quello che potrebbe essere il primo sulla lunga distanza, e la speranza che non faccia rimpiangere “Fervor” – perché un lp è una cosa, il mini lp un'altra, l'ep è altro ancora, e tanti ne uccide il formato – confortata dagli entusiastici resoconti di chi li vede all'opera sui palchi da un lato all'altro degli oceani.

Passano due anni, il 1985 tocca a “Lost And Found”, l'album che ... non saprei come dire ... non è che raffreddi l'entusiasmo oppure faccia rimpiangere “Fervor” … no, è proprio che a “Fervor” lo surclassa. Album devastante sotto ogni punto di vista, e ogni volta che non ho niente di meglio da fare che l'inutilissima classifica dei 50 dischi del decennio, “Lost And Found” è immancabile: una volta ci stanno i Violent Femmes e quella dopo lasciano il posto agli Husker Du, e i Dream Syndicate rimpiazzati da Lou Reed, ma “Lost And Found” sta sempre lì, inamovibile, al pari di tanti dischi minori, che lo sai benissimo che tali sono, ma non puoi fare a meno di volergli un bene dell'anima.

Tanto merito va alla prima facciata, di una bellezza che fa impressione solo a pensarla:”Last Time Around”, “White Lies”, “If Money Talks”, “I Really Don't Want To Know”, “Blanket Of Sorrow” e “Shop It Around”, una dietro l'altra sono fendenti che ti mettono al tappeto senza pietà e quando ti rialzi tramortito sono lì a stenderti ancora una volta: Jason che sputa sangue su quel microfono e soffia come un ossesso nell'armonica; Warner che rotea su stesso come una trottola impazzita e non sbaglia un power chord; Jeff e Perry che macinano un ritmo che non dà tregua.

Non basta certo una facciata a trattenere tutto l'impeto che hanno in corpo questi quattro pazzoidi e che tracima in apertura di lato b – il passo di carica di “Lost Highway” – e nel bellissimo commiato di “Change The Tune”; in mezzo, sì, ti puoi rialzare, e loro leniscono pure le tue ferite con tre ballatone country che se hai un cuore te lo strappano, come quella “Pray For Me, Mama” di prima, “Far Behind” pure più.

Confermo, Jason And The Scorchers è una tra le più grandi bande di rock'n'roll cui può capitarti di porgere orecchio nell'anno di grazia 1985 e io su radio J&TS da Nashville resto sintonizzato, sicuro.

Nel 1986 Jason And The Scorchers non avevo la più pallida idea di chi diamine fossero, però lessi una recensione – o Eddy Cilia o Federico Guglielmi non si scappa, la mia discoteca dell'epoca è quasi esclusivamente colpa loro – di “Still Standing” che la buttava in caciara tra Rolling Stones e Sex Pistols, sarà per la fulmicotonica versione di “19th Nervous Breakdon” oppure no, non importa, comunque me lo comprai senza esitazioni.

Quanto mi piacque, all'epoca, questo album, quanto gli ho voluto bene e quanto gliene voglio ancora, lo solfa che dicevo prima, insomma.

Fu così che, sull'onda dell'entusiasmo, prima andai a recuperare un articolo di Cilia sul Mucchio Selvaggio di aprile 1985, poi mi precipitai da Disfunzioni Musicali e misi le mani su “Fervor” e “Lost And Found”. E vidi la luce, che non sempre è un bene, perché in piena luce vedi tutti i difetti che l'amore cieco ti nasconde.

Con una metafora pallonara, Jason And The Scorchers all'altezza di “Still Standing” è come quella squadra che macina calcio spettacolo a occhi chiusi contro ogni avversaria, chiude il primo tempo 4 a 0 e nel secondo si limita ad amministrare il risultato e tu, in piedi in curva, un po' ti annoi, anche se ancora hai negli occhi tutta la bellezza che i tuoi beniamini hanno sciorinato nei primi 45 minuti. Fuori di metafora, il lato a di “Still Standing” è bello, ma bello davvero: è vero, capisci subito che qualcosa suona diverso, non stonato, solo diverso, forse Jason, forse Warner, forse sono Jeff e Perry, ma chi se ne frega di fronte alla sequenza di “Golden Ball And Chain” col suo incedere quasi gospel-punk, gli appigli ai limiti del power-pop di “Crashin' Down”, la gragnuola di pugni messi a segno durante “Shotgun Blues”, quel gioiellino che gronda parentale buon senso e miele di “Good Thing Comes To Those Who Wait” e in chiusura la cavalcata country e pure punk “My Heart Still Stands With You”; e se il lato b si apre alla grande con Jason e gli altri a fare i Sex Pistols che fanno i Rolling Stones, è quello che viene dopo che col senno di poi – tradotto, “Fervor” e “Lost And Found” che mi risuonano nelle orecchie – non mi convince più tanto, nemmeno l'assalto perpetrato in “Ghost Town”, come se Warner avesse alzato troppo il volume, Jeff e Perry gli fossero andati dietro per inerzia e Jason fosse rimasto stordito e indeciso sul da farsi.

E però, oggi, mentre sto scrivendo questa roba, me lo dico per l'ennesima volta: ad avercene album che su una decina di pezzi, più della metà sono tanto belli che te li ricordi parola per parola, nota per nota, anche dopo che sono passati quasi 40 anni da quando li hai ascoltati la prima volta.

Resta solo da dire che il “Fervor” marchiato EMI con “Absolutely Sweet Marie” in apertura, “Lost And Found” e “Still Standing” li trovi nel doppio cd “EMI Years” che qualche anno fa ti tiravano dietro praticamente a gratis.

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